Category — arte e cultura
Donne di ‘ndrangheta, “Teresa” sbarca a Reggio
REGGIO CALABRIA – L’anima di una madre, feroce custode dell’ortodossia ‘ndranghetista e sconvolta dalla scelta di liberazione della figlia, è la cupa protagonista di "Teresa. Un pranzo di famiglia", lo spettacolo teatrale scritto dalla giornalista Francesca Chirico ed interpretato da AnnaMaria De Luca. La pièce, nata da un’idea di Franco Marzocchi e diretta da Luca Maria Michienzi, sbarcherà per la prima volta a Reggio Calabria il prossimo venerdì 9 ottobre. L’appuntamento, in programma al teatro Zanotti Bianco (il Cipresseto) alle ore 21.15, si inserisce nell’ambito delle iniziative della “IV giornata nazionale dell’attore” organizzata dal Teatro del Carro nella città dello Stretto per ricordare le figure di Pino Michienzi e Rodolfo Chirico.
Lo spettacolo – Teresa ama l’esattezza dei numeri e odia la libertà delle parole. Sognava di fare la parrucchiera ma le hanno insegnato a “parlare quando piscia il gallo”, che la famiglia è una cosa grande e che chi la disonora sparisce. Crescendo non ha mai tradito la lezione. Sposa senza amore, vedova assetata di vendetta, madre consigliera, Teresa ogni giorno apparecchia un posto a tavola anche per chi non c’è, per il marito ammazzato, per il figlio arrestato. Sacerdotessa solitaria di un rito messo in crisi, con tutti i suoi disvalori, dalla scelta di libertà della figlia Angela diventata testimone di giustizia per sfuggire ad un mondo di violenza, silenzio ed infelicità. Lacerata dalla decisione di Angela, Teresa ripercorre in scena la propria vita, ricomponendo, storia dopo storia, nome dopo nome, il cupo affresco di una famiglia di ‘ndrangheta.
L’autrice – “Per apprezzare a pieno la potenza dirompente delle scelte compiute da collaboratrici come Giusy Pesce bisogna considerare le altre donne, le madri, le nonne, quelle che decidono di restare, fedeli sacerdotesse di un mondo di morte e solitudine”, dichiara Francesca Chirico, giornalista, scrittrice e capo-redattore di Stopndrangheta.it. Già collaboratrice di Narcomafie, Liberainformazione e Linkiesta, l’autrice di “Teresa” ha pubblicato nel 2011 il romanzo Arrovescio (Rubbettino editore), vincitore del premio letterario "Bruno Chimirri 2010", e con il saggio “Io parlo – Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta” (Castelvecchi, 2013), tra i vincitori del premio giornalistico Siani, ha raccontato le donne che hanno infranto il silenzio preteso dalle cosche e assegnato loro dalla tradizione.
La protagonista – AnnaMaria De Luca, attrice e autrice, è nata a Spezzano Albanese, ha frequentato la Scuola d’Arte Drammatica di Gianni Diotaiuti dal 1973 al 1975 e l’Accademia delle Belle Arti conseguendo il diploma in scenografia nel 1978. Nel suo percorso professionale spiccano le partecipazioni con ruoli centrali in spettacoli diretti da Franco Zeffirelli, Enrico Maria Salerno, Glauco Mauri. Numerosi anche le sue partecipazioni a sceneggiati e "fiction" televisive dirette tra gli altri da registi come Damiano Damiani, Claudio Risi, Antonia Avati e Alexis Sweet. Ma quello che ha formato l’identità artistica della De Luca è il lungo sodalizio professionale e umano con il suo compagno di una vita: Pino Michienzi (autore, regista, attore ma soprattutto uomo di grande cultura, talento ed umanità), scomparso nel 2011 lasciando un vuoto sostanziale nella scena e nella cultura calabrese e nazionale. Con Michienzi, la De Luca ha dato vita, nel 1986, alla realtà del Teatro del Carro, una compagnia che ha portato sulla scena, in modo profondo ed innovativo, i testi degli autori calabresi e rielaborato i classici del teatro e della letteratura con una visione costantemente originale. Eredità che oggi continua a vivere nella De Luca.
Per info e prenotazioni: www.teatrodelcarro.it; teatrodelcarro@libero.it; cell.3483125747
ottobre 5, 2015 Commenti disabilitati su Donne di ‘ndrangheta, “Teresa” sbarca a Reggio
In scena a Badolato lo spettacolo “Teresa. Un pranzo di famiglia”
Ricostruire da dentro l’anima di una madre ‘criminale’: questa la sfida che Franco Marzocchi ha proposto a Francesca Chirico, autrice del libro inchiesta "Io parlo – Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta" e del testo dello spettacolo "Teresa. Un pranzo di famiglia", interpretato da AnnaMaria De Luca, diretto da Luca Maria Michienzi, in scena sabato 29 novembre (ore 21.15) al Teatro Comunale di Badolato, nell’ambito del progetto di Residenza Teatrale MigraMenti, sostenuto con fondi europei dalla Regione Calabria. Un progetto che in questi anni ha svolto un ruolo importante e pionieristico nel territorio.
Teresa ama l’esattezza dei numeri e odia la libertà delle parole. Sognava di fare la parrucchiera ma le hanno insegnato a "parlare quando piscia il gallo", che la famiglia è una cosa grande e che chi la disonora sparisce. Crescendo non ha mai tradito la lezione. Sposa senza amore, vedova assetata di vendetta, madre consigliera, Teresa ogni giorno apparecchia un posto a tavola anche per chi non c’è, per il marito ammazzato, per il figlio arrestato. Sacerdotessa solitaria di un rito messo in crisi, con tutti i suoi disvalori, dalla scelta di libertà della figlia Angela diventata testimone di giustizia per sfuggire ad un mondo di violenza, silenzio ed infelicità. Lacerata dalla decisione di Angela, Teresa ripercorre in scena la propria vita, ricomponendo, storia dopo storia, nome dopo nome, il cupo affresco di una famiglia.
"Riflettendo su fenomeni oscuri come la sopraffazione, la corruzione, la pratica criminale sempre più diffusa (ma anche la guerra, lo scontro fra religioni e fra etnie, lo sfruttamento e l’umiliazione di una parte dell’umanità sopra l’altra parte) mi convinco, ogni giorno di più, che per tutti noi (figli di una cultura democratica e razionale) sia assolutamente indispensabile ed urgente fare seriamente, e fino in fondo, i conti con gli aspetti irrazionali, ancestrali, "antichi" dell’animo umano".
Una sfida per chi non aveva mai pensato sinora di scrivere un testo per il teatro – scrive Franco Marzocchi – a cui ho chiesto di pensare ad una interprete precisa: AnnaMaria De Luca. Sapevo, dentro di me e istintivamente, che solo Francesca avrebbe potuto "creare" questa madre e solo AnnaMaria interpretarla. Il testo è cresciuto e si è definito, durante i mesi passati, grazie ad un continuo confronto. Una sfida quasi "paradossale" per un’autrice, Francesca Chirico, che ha raccontato, con precisione e partecipazione, quelle donne che in Calabria hanno reagito con la forza eversiva della parola alla violenza, al dolore, all’ingiustizia, sfidando la ‘ndrangheta, ma anche un mondo che tace.
Per Info: Residenza Teatrale MigraMenti
cell. +39.339.3679599 – cell. +39.348.3125747
ANNAMARIA DE LUCA, attrice e autrice, è nata a Spezzano Albanese, ha frequentato la Scuola d’Arte Drammatica di Gianni Diotaiuti dal 1973 al 1975 e l’Accademia delle Belle Arti conseguendo il diploma in scenografia nel 1978. Nel suo percorso professionale spiccano le partecipazioni con ruoli centrali in spettacoli diretti da Franco Zeffirelli, Enrico Maria Salerno, Glauco Mauri. Numerosi anche le sue partecipazioni a sceneggiati e "fiction" televisive dirette tra gli altri da registi come Damiano Damiani, Claudio Risi, Antonia Avati e Alexis Sweet. Ma quello che ha formato l’identità artistica della De Luca è il lungo sodalizio professionale e umano con il suo compagno di una vita: Pino Michienzi (autore, regista, attore ma soprattutto uomo di grande cultura, talento ed umanità), scomparso nel 2011 lasciando un vuoto sostanziale nella scena e nella cultura calabrese e nazionale. Con Michienzi, la De Luca ha dato vita, nel 1986, alla realtà del Teatro del Carro, una compagnia che ha portato sulla scena, in modo profondo ed innovativo, i testi degli autori calabresi e rielaborato i classici del teatro e della letteratura con una visione costantemente originale. Eredità che oggi continua a vivere nella De Luca. Dal 2012 al 2014 è, con Luca Maria Michienzi, direttrice artistica del Progetto di Residenza Teatrale MigraMenti di Badolato.
FRANCESCA CHIRICO è giornalista e scrittrice. Nata a Reggio Calabria, è redattore dell’archivio web multimediale www.stopndrangheta.it, per il quale si occupa di cronaca nera e giudiziaria. Collabora con il mensile di analisi e documentazione «Narcomafie»; ha firmato reportage e inchieste per Liberainformazione e Linkiesta. Tra gli autori dei dossier Arance insanguinate – Dossier Rosarno e Radici/Rosarno, nel 2011 ha pubblicato il romanzo Arrovescio (Rubbettino editore), vincitore del premio letterario "Bruno Chimirri 2010", del premio speciale della giuria del "Città di Siderno" e di una menzione al premio "Fortunato Seminara". Il suo ultimo libro: Io parlo – Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta (Castelvecchi, 2013) racconta le donne che hanno infranto il silenzio preteso dalle cosche e assegnato loro dalla tradizione. Hanno combattuto paura e pudore e raccolto, non in egual misura, disprezzo e solidarietà. Qualcuna ha pagato con la vita. Sono le donne che in Calabria hanno reagito con la forza eversiva della parola alla violenza, al dolore, all’ingiustizia, sfidando la ‘ndrangheta, ma anche un mondo che tace. Io parlo raccoglie e ricostruisce le loro storie, ripercorrendo, dai sequestri di persona e dalle faide degli anni Ottanta, alle più recenti inchieste anti ‘ndrangheta, gli ultimi trent’anni di storia criminale calabrese.
novembre 24, 2014 Commenti disabilitati su In scena a Badolato lo spettacolo “Teresa. Un pranzo di famiglia”
Testimoni di giustizia
Il testimone di giustizia non è il pentito che decide di
collaborare. E’ un comune cittadino, spesso commerciante o imprenditore, che
vessato dalle cosche che controllano il territorio sul quale lavora decide di
non sottostare alle loro logiche criminali. Denuncia i suoi aguzzini
rispondendo al richiamo del senso civico e della dignità personale, ma non
sempre lo Stato è presente ed attento a tutelarlo. I programmi di protezione
sono aleatori ed il testimone – che dal momento in cui decide di denunciare
perde tutto: tranquillità domestica, attività commerciale, spesso la propria
identità – viene lasciato allo sbaraglio senza un sussidio adeguato per vivere, la
possibilità di accedere alle prestazioni sanitarie o di ottenere un lavoro,
spostato continuamente in condizioni abitative inadeguate e spesso in luoghi
dove il rischio di contatto con elementi malavitosi del luogo di origine è alto
e frequente. La legislazione che regola la tutela del testimone è piena di
buchi, a livello concettuale la figura del testimone e quella del collaboratore
(pentiti con gravi crimini alle spalle ed appartenenti a cosche di mafia) spesso
assimilate: chi denuncia vive isolato, considerato alla stregua di un pentito
(un infame, insomma, che ha parlato). Oltre a questo danno subisce anche la
beffa dell’insulto ("Chi te lo ha fatto fare? Se non avessi parlato non ti
troveresti in questa situazione").
Di storie di testimoni abbandonati e dimenticati dallo Stato il
libro di Paolo De Chiara trabocca. Spinti sull’orlo del suicidio (Carmelina Prisco)
o della follia (Giuseppe Varbaro), ridotti a vivere come mendicanti (Luigi
Coppola) o uccisi per negligenza istituzionale (Domenico Noviello), chi compie quello
che è da considerarsi un atto di coraggio – fatto in territori esplosivi in cui
le ramificazioni criminali sanno tutto e possono ordire ritorsioni a vari
livelli ed anche a distanza di tempo (la vendetta, tout court) – si trova a
vivere un calvario senza fine. Siamo davanti ad un’inchiesta-denuncia molto
forte che attraverso la raccolta delle testimonianze dirette (tra cui quelle
positive e piene di forza del calabrese Rocco Mangiardi e della siciliana
Valeria Grasso) e delle interviste ad Angela Napoli, consulente della Commissione
parlamentare antimafia; al Procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo; a Nadia
Furnari dell’Associazione Rita Atria; ad Ignazio Cutrò, Presidente dell’Associazione
Nazionale Testimoni di Giustizia, evidenzia lo squilibrio del sistema che ai
collaboratori – utili alla magistratura per scardinare i meccanismi intrinseci
al potere criminale – garantisce ampi benefit (stipendio e affitto pagato),
mentre ai testimoni – utili fintanto che dicono tutto quello che sanno
nell’ambito circoscritto delle loro denunce – non garantisce nulla, nemmeno l’incolumità.
novembre 20, 2014 Commenti disabilitati su Testimoni di giustizia
La scandalosa lezione di Liliana
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1794.pdf
settembre 23, 2014 Commenti disabilitati su La scandalosa lezione di Liliana
Sotto l’albero la Calabria che scrive e resiste
La Calabria è fatta di storie, di eventi che non sempre trovano spazio nell’immaginario collettivo. I calabresi stessi, troppo spesso, non le conoscono, le ignorano pur avendole a due passi da casa. Storie di ‘ndrangheta, ma anche storie di coraggio. Storie di luoghi erosi dal degrado e dall’abusivismo. Esiste, oggi, una generazione di giovani scrittori che si impegnano affinché questa memoria cominci ad essere collettiva, affinché si riscopra la storia dei luoghi e delle persone. I libri diventano i depositari della conoscenza, gli animatori di dibattiti inediti, il movente per una crescita intellettuale consapevole per coloro i quali questa terra la vivono ogni giorno e per quelli, invece, che la guardano da lontano facendosi tante domande e riscuotendo poche risposte. Regalare e regalarsi un libro che racconti la Calabria seguendo questo taglio, allora, può diventare un’ottima occasione per colmare i vuoti, approfondire tematiche, interrogarsi e riflettere, conoscere e fare propri gli avvenimenti che costituiscono una buona parte della storia dimenticata, tralasciata, sottovalutata di questa terra.
Ve ne suggeriamo alcuni
Giuseppe Trimarchi, Calabria ribelle. Storie di ordinaria resistenza (Città del Sole, 2012) -Quelle contenute in questo libro sono le storie di Gaetano Saffioti, Deborah Cartisano, don Pino de Masi, Stefania Grasso, Mario Congiusta, Liliana Carbone, Michele Luccisano che fanno valere il loro status di cittadini liberi opponendosi quotidianamente alla ‘ndrangheta ritrovatisi a "guerreggiare perché costretti dalle drammatiche sequenze di una vita complicata e difficile" alla ricerca costante di verità e giustizia. (Approfondisci)
Lou Palanca, Blocco 52. Una storia scomparsa. Una città perduta (Rubbettino, 2012) – Nell’aprile del 1965, a Catanzaro, moriva, vittima di un agguato, Luigi Silipo, sindacalista dei braccianti ed esponente di spicco del PCI. Nessuno si ricorderà più di lui, la sua lapide è ingoiata insieme alle altre nel blocco 52 del cimitero di Catanzaro. La sua storia, però, relegata nel dimenticatoio dell’opinione pubblica, ritorna in auge grazie al lavoro del collettivo Lou Palanca (Fabio Cuzzola, Valerio De Nardo, Nicola Fiorita, Maura Ranieri, Danilo Colabraro) che, con narrazione da romanzo, cerca di ridare spolvero ad un fatto di sangue ancora privo di una verità giudiziaria certa. Un omicidio senza un chiaro movente, senza mandanti né esecutori.
Giovanni Tizian, La nostra guerra non è mani finita (Mondadori, 2013) – La sera del 23 ottobre del 1989 la panda rossa su cui viaggia Giuseppe Tizian viene fatto oggetto di ripetuti colpi di lupara. Giuseppe muore sul colpo e per Giovanni si aprono le porte di una nuova vita, lontano dagli sguardi compassionevoli della gente. Ma quella ferita, per un padre strappatogli via troppo presto, resta aperta e chiede di essere raccontata. Sotto forma ora di diario, ora di inchiesta Tizian traccia la storia di trenta anni di legami tra la ‘ndrangheta e l’Emilia Romagna dai sequestri di persona fino alle minacce di morte subite.
Katia Colica, Il tacco di Dio. Arghillà e la politica dei ghetti (Città del Sole, 2009) – Arghillà è uno dei quartieri periferici più martoriati e poveri di Reggio Calabria. Un quartiere senza identità, una realtà urbana che assume i contorni del ghetto per l’umanità esplosa che lo abita: zingari, spacciatori, abusivi, extracomunitari, prostitute, barboni. Un non luogo narrato con la vena della romanziera, ma anche con l’occhio tecnico dell’architetto: un mix di storie umane che si sovrappongono all’indagine sociologica su cosa sia ghetto e sul che cosa rappresenti. Una denuncia cruda che punta al cuore della città metropolitana.
Romina Arena, Paola Bottero, Francesca Chirico, Cristina Riso, Alessandro Russo, La ‘ndrangheta davanti all’altare (Sabbiarossa ED, 2013) – c’è una chiesa che resiste ed una chiesa che si volta dall’altra parte. Una chiesa che si oppone alla ‘ndrangheta con pratiche quotidiane di legalità ed una chiesa che chiude gli occhi, che preferisce non vedere, che al chiuso dei confessionali impartisce perdono e benedizione ai mafiosi. Questa opera vuole gettare il seme della provocazione rompendo il silenzio che fascia tematiche scottanti come il connubio tra chiesa e criminalità organizzata, raccontando, declinati nei dieci comandamenti, gli episodi nei quali la ‘ndrangheta si è presentata, accolta, davanti all’altare e quelli nei quali, invece, dall’altare la ‘ndrangheta è stata rifiutata. (Approfondisci)
Francesca Chirico, Io parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta (Castelvecchi, 2013) – La donna, nei clan, è una presenza silenziosa per la quale non sono previsti gradi né gerarchie da scalare. Tutto il sistema si alimenta sul silenzio ed infrangerlo non è ammesso. Nelle fitte maglie di questa rete qualcosa sfugge ed è proprio la voce delle donne: quelle dei clan, che parlano; quelle delle figlie delle vittime di mafia che resistono; delle madri caparbiamente aggrappate alla sete di giustizia per il loro figli svaniti nel nulla. Coi toni della narrazione ed il rigore dell’inchiesta, Francesca Chirico restituisce queste storie alla memoria collettiva. (Leggi la recensione)
Danilo Chirico, Alessio Magro, Dimenticati (Castelvecchi, 2010) – La Calabria in cui la vita, per la ‘ndrangheta, vale meno della pallottola usata per portarla via, è raccontata attraverso le storie di uomini e donne, vittime innocenti dimenticate dallo Stato e dall’opinione pubblica. Chirico e Magro si sono presi sulle spalle l’onere di rimettere a fuoco storie inabissate, vicende oscure sulle quali spesso non si è mai giunti a verità giudiziarie. Un mosaico di 300 vittime incolpevoli, trucidate dalla ‘ndrangheta, in cui figurano semplici cittadini, le vittime dei sequestri di persona, magistrati, militanti politici, sindacalisti, imprenditori, commercianti a cui questo corposo volume, ricostruendone le storie, da finalmente un volto. (Approfondisci)
Antonio Nicaso, Nicola Gratteri, Acqua santissima (Mondadori, 2013) – Già dall’Ottocento gli uomini della ‘ndrangheta hanno goduto del silenzio indifferente della chiesa e solamente a partire dagli anni Cinquanta del Novecento si ha conoscenza delle prime denunce e delle lettere pastorali che affrontano chiaramente il problema della ‘ndrangheta. Ma il nodo del rapporto tra la criminalità organizzata e la chiesa non si è mani sciolto, continuamente alimentato da entrambe le parti in un miscuglio di tradizione e devozione distorta, di interessi e indifferenza. Gratteri e Nicaso ricostruiscono questo scandaloso abbraccio tra boss e uomini di chiesa raccontando le storie di coloro che si sono piegati alle logiche criminali e di coloro i quali, invece, le hanno rifiutate.
Rosella Postorino, L’estate che perdemmo Dio (Einaudi, 2009) – una famiglia del profondo sud è costretta a trasferirsi in una località del cantone italiano della Svizzera per sfuggire ad una sentenza irrevocabile di morte. Con ancora nelle orecchie l’esclamazione della zia Nuccia "Chi focu chi ‘ndi vinni", Caterina, figlia di Salvatore su cui pende la condanna, racconta la storia dal suo punto di vista: la fuga, la condanna, l’assoluzione. Il perdono. In un romanzo dove famiglia e malavita si sovrappongono e si confondono, la Postorino riesce ad aprire una breccia nel familismo che è il primo dei muri incrollabili della criminalità organizzata.
Vins Gallico, Portami rispetto (Rizzoli, 2010) – In una torrida notte di agosto due uomini appiccano fuoco ad un cane che inoltrandosi nel bosco provocherà un incendio di ampie dimensioni. Per gli inquirenti giunti sul posto, però, non si tratta solo di quantificare i danni, ma anche di riconoscere due cadaveri carbonizzati. Tina Romeo, giornalista sportiva inviata sul posto per seguire il caso si troverà al centro di una guerra trasversale tra faide in cui la sua stessa vita è in pericolo. Graffiante ed ironico, Gallico svela l’anima cupa della Calabria tutta infestata dal germe della mafia in cui, forse, le parole sono l’unica salvezza possibile.
Per una bibliografia completa e più approfondita, è possibile consultare la sezione sulla ‘ndrangheta realizzata da Stopndrangheta.it presso la Biblioteca del Consiglio Regionale della Calabria. Centinaia di libri, e-book, dvd, saggi e letteratura straniera, un universo di contenuti a portata di click, un autentico patrimonio di conoscenze a disposizione di tutti (vai al link).
dicembre 9, 2013 Commenti disabilitati su Sotto l’albero la Calabria che scrive e resiste
In città risuona la solidarietà
REGGIO CALABRIA – C’è una parte di Reggio Calabria che non intende abituarsi agli attentati criminali ed, in particolare, agli attacchi che hanno nel mirino gli spazi culturali presenti in città. Lo dice chiaramente la reazione all’incendio del Museo dello Strumento musicale, il 4 novembre scorso: già nel pomeriggio, quando la notizia dell’attentato incendiario subito dalla struttura rimbalzava in rete, un immediato passaparola ha riempito la pineta Zerbi di cittadini e associazioni, convenuti non solo per esprimere solidarietà e segnare fisicamente la distanza da un atto criminale indegno, ma anche per ribadire che spazi culturali come il Mustrumu vanno difesi e valorizzati tutto l’anno e non solo all’indomani di un incendio. Dichiarazioni, prese di posizione, ma non solo. Domenica 10 novembre ci si è rimboccati le maniche: armate di pennelli, guanti e detergenti, sotto le direttive di chi la collezione del Museo la conosce pezzo per pezzo, decine di persone hanno ripulito gli strumenti risparmiati dall’incendio. C’erano studenti di ogni ordine e grado, musicisti appassionati, bambini intenti a pulire strumenti più grandi di loro, fotografi e giornalisti impegnati ad immortalare e raccontare il momento. E l’ondata non accenna a fermarsi. Anzi. Domani, infatti, Reggio sarà chiamata a risuonare per il Mustrumu. L’evento, pensato da un gruppo di musicisti reggini, ha un nome semplice – "Suona Reggio Suona" – ed è rivolto "a tutte le persone per bene", invitate a piazza Italia sabato 16 novembre, a partire dalle 16.00, per riempire il corso Garibaldi con una passeggiata diversa dal solito. Una passeggiata sonora. L’invito, infatti, è quello di portare con sé uno strumento da suonare nel corso del corteo che sfilerà tra le vetrine per dirigersi verso la pineta Zerbi dove si trova la sede del Mustrumu. C’è anche un sito web (www.suonareggiosuona.it/) dove è possibile caricare video di solidarietà per il Museo, in musica ovviamente. Mentre sono arrivate attestazioni di vicinanza e solidarietà dall’estero, la raccolta fondi per il museo continua sul sito ufficiale dell’associazione (www.mustrumu.it), cosi come le operazioni di pulizia e di ripristino della struttura. Intanto è tempo di condividere l’invito degli organizzatori di Suona Reggio Suona: "Scendi in strada e suonagliele per la tua città".
novembre 15, 2013 Commenti disabilitati su In città risuona la solidarietà
Vent’anni di musica nel cuore di Reggio: la storia del Mustrumu
REGGIO CALABRIA – Affiancando all’attività museale un lavoro continuo di ricerca e produzione culturale, il Museo dello strumento musicale di Reggio Calabria è diventato uno spazio culturale aperto che, accanto alla cura delle tradizioni popolari calabresi, ha realizzato attività di livello internazionale, lavorando con passione per rendere il rapporto con la musica una esperienza accessibile a tutti. Angela Spagna, referente per la cultura e l’attività didattica del Mustrumu, ripercorre con noi la storia dell’importante presidio culturale reggino incendiato all’alba del 4 novembre.
Come e quando è nato il Museo dello Strumento Musicale?
"L’associazione Museo dello Strumento Musicale nasce intorno alla gestione di una raccolta di più di ottocento strumenti provenienti da ogni parte del mondo. Ci è sempre piaciuto definire il museo uno spazio multietnico perché nel corso degli anni siamo riusciti ad unire strumenti della tradizione popolare reggina ad altri numerosi pezzi provenienti dal resto d’Europa, Africa, Asia, America, mescolando quindi diverse tradizioni musicali. Ci sono anche strumenti che sono stati acquistati dai musicisti stessi e che possiedono quindi un profondo valore simbolico. La collezione si trovava inizialmente a casa del fondatore Demetrio Spagna, poi è diventata cosi ingente da richiedere una collocazione più adeguata".
Come è avvenuto il passaggio alla sede attuale del museo?
"In una prima fase ci spostavamo con le macchine ed esponevamo gli strumenti nei luoghi dove era possibile farlo, una specie di museo itinerante. Poi nel 1996, grazie all’interessamento del sindaco Falcomatà, è stata data in affitto all’associazione l’attuale struttura delle Ferrovie dello Stato. La condizione dello stabile era abbastanza tragica, di comprensibile abbandono. Ci siamo rimboccati le maniche: abbiamo abbattuto muri e sistemato i locali per renderli adatti a mettere in piedi una prima esposizione. Da subito è stata curata la catalogazione degli strumenti e la scrittura delle didascalie. Gli strumenti sono stati divisi nelle cinque famiglie: idiofoni, membranofoni, cordofoni, aerofoni e meccanico elettrici. Già allora era bello vedere l’accostamento di strumenti indiani, nordafricani, sudamericani sulla base delle famiglie degli strumenti".
L’incendio ha distrutto anche l’archivio del Mustrumu, la parte forse meno nota del museo. Cosa ci puoi dire su questo tesoro nascosto della città?
"Parallelamente all’allestimento museale, è stato curato da subito l’aspetto della ricerca scientifica. L’archivio conteneva tutte le memorie degli studi e dei viaggi realizzati nel corso degli anni. In generale, ci siamo mossi sempre in una duplice direzione: valorizzazione della collezione dal punto di vista espositivo e continuazione nell’ambito della ricerca scientifica, in modo tale da rendere la collezione attuale e poter dare tutte le informazioni necessarie a chi veniva a visitare il museo. A livello personale è stata per me una delle prime reali esperienze di vita: pur non suonando nessun strumento, ho imparato a raccontare la collezione e a spiegarla soprattutto ai bambini riuscendo a vedere la gioia nei loro occhi".
A chi si rivolge principalmente il Museo e quali, tra i tanti progetti realizzati, ne rappresentano al meglio la presenza sul territorio?
"Il target principale è costituito dalle scolaresche di ogni ordine e grado, tantissime in questi vent’anni. Ma ci sono anche studenti universitari che hanno scritto le loro tesi di laurea sul Museo, stagisti che hanno fatto l’esperienza di guida museale e che si sono occupati di ricatalogare gli strumenti. Parallelamente abbiamo dato vita a diversi progetti in favore della diffusione della cultura musicale. L’ultimo in ordine cronologico è il progetto "dall’Arpa alla Zampogna", una rassegna che vuole celebrare tutti gli strumenti musicale dalla A alla Z, non solo dal punto di vista organologico ma convogliando qui a Reggio le case produttrici, l’editoria, ogni settore che può avere una relazione con lo strumento scelto. L’anno scorso c’è stato l’evento "A come arpa" quest’anno "B come Berimbau" e dall’anno prossimo continueremo fino ad arrivare alla Z. Ci piace curare l’aspetto internazionale della rassegna, per portare a Reggio diversi punti di vista sugli strumenti musicali. Posso ricordare il progetto "Cordax" teso a recuperare le musiche e le danze della tradizione popolare reggina; il progetto "Griot" – poeta e cantore orale della tradizione di diversi paesi africani nda – sulle percussioni iniziato con Baba Sissoko, musicista maliano di fama internazionale; dalle visite delle scuole è nato il progetto "Raccontami il museo" col quale gli studenti possono lasciare elaborati sulle impressioni avute dalla visita guidata alla collezione; da anni curiamo lo "Spazio Sonoro Attivo" col quale i musicisti possono sviluppare il loro progetto musicale nell’ambito dello spazio del Mustrumu. Si sono anche formati ensamble nell’ambito del cosiddetto "sound painting", un particolare tipo di espressione musicale che fa ricorso a diversi tipi di performance: teatro, danza, pittura, video. Ma l’elenco completo di tutte le attività realizzate dall’associazione sarebbe davvero lunghissimo".
Il Mustrumu per molti è sempre stato parte della città, altri cittadini invece ne hanno scoperto l’esistenza solo dopo l’incendio. C’è bisogno che la cultura vada in fiamme perché la città impari a conoscere e a riappropriarsi dei suoi spazi culturali?
"È una riflessione amara che hanno fatto in molti. Negli ultimi anni questo spazio è rimasto aperto tutti i giorni nelle ore diurne come prodotto del lavoro di un’associazione culturale, siamo noi che abbiamo avuto l’aspirazione e la passione di renderlo un museo, ma non è proprio la stessa cosa. Sono stati organizzati concerti, eventi, momenti aperti a tutti i cittadini in cui abbiamo cercato di raggiungere diversi target. Nonostante questo, sforzo e aspirazione si scontrano spesso con difficoltà oggettive, considerando tra l’altro che il museo è andato avanti, contando esclusivamente sulle sue forze e grazie soprattutto al supporto del presidente. Questo evento tragico è stato una grande cassa di risonanza, e di questo siamo comunque felici. Sono arrivate attestazioni di solidarietà dalla Città della Scienza, dalla Francia, dagli Stati Uniti, dall’Olanda. Anche se dopo la prima settimana la partecipazione dovesse gradualmente diminuire, c’è tutto il tempo di aiutare il museo, l’effetto traino avrà sicuramente effetti a lungo termine".
Credi che quanto accaduto sia connesso alla zona della città in cui sorge il Museo?
"C’è chi ha riflettuto sulla connessione tra la posizione del museo e l’incendio, sul fatto che ci siano delle pressioni su questa area, ma io su questo non so che dire. So però che la città vuole che il Mustrumu rimanga qui e noi insieme alla città cercheremo di fare in modo che ciò avvenga".
novembre 11, 2013 Commenti disabilitati su Vent’anni di musica nel cuore di Reggio: la storia del Mustrumu
Sono un uomo morto
Rocco Varacalli è di Natile di Careri, centro nevralgico, assieme a San Luca e Platì, della ‘ndrangheta reggina e punto di snodo della ‘ndrangheta da esportazione fuori dai confini regionali. Inevitabile intraprendere la strada criminale, tramandata nella famiglia per parte di madre. Nonostante i tentativi di uno zio di tenerlo lontano dagli affari loschi, una volta trasferitosi a Torino Varacalli inizia a frequentare brutte compagnie che lo iniziano ad una lunga e prosperosa carriera di spaccio. Continuamente fuori e dentro le galere, lo stigma portatosi dietro da Natile è difficile da occultare, come altrettanto difficile è resistere al richiamo dei soldi facili che la ‘ndrangheta gli propone. Guadagni immediati senza sforzo messi sul piatto dalla criminalità organizzata contro il lavoro onesto e la schiena a pezzi che gli offre lo zio: la scelta, per Rocco, è facile ed immediata. Il fiorente traffico di stupefacenti, la scrupolosità con cui porta a termine gli affari, l’osservazione cieca alle regole dell’onorata società fanno di Rocco un ottimo uomo di ‘ndrangheta meritevole di ricevere il "battesimo" e quindi di entrare a far parte in tutto e per tutto della famiglia. Dopo anni di affari, tra la città e la cinta periferica torinese, dopo essere sfuggito, per grazia ricevuta, ad un’esecuzione, dopo aver veduto crescere ed aver partecipato a questo sviluppo del bubbone criminale in seno alla cosa pubblica di Piemonte, Lombardia, Liguria e Valle d’Aosta, Varacalli getta la spugna. Ma il suo non è un pentimento, che le regole dell’onore non lo consentono; è piuttosto una disillusione figlia di un tradimento: "Quella mattina ho capito che la ‘ndrangheta non ha valori. Non segue veramente le regole sottoscritte con il sangue". La decisione di collaborare con la giustizia è di quelle che si fanno sentire. Varacalli non è uno qualunque: è a conoscenza dell’intera trama che la ‘ndrangheta ha costruito nei decenni al nord, la rete delle estorsioni, il traffico di stupefacenti, gli omicidi per regolare i conti, la connessione con la politica e l’avvelenamento dell’economia. Le ditte edili calabresi gestite dalle cosche hanno messo le mani su tutte le grandi opere dalle Olimpiadi invernali di Torino del 2006, al centro commerciale "Le Gru", alla TAV, ai complessi residenziali. I fatti che rivela scoperchiano un calderone in cui per anni ‘ndrangheta e politica sono andati a braccetto ed hanno permesso finalmente di riconoscere quanto le cosche avessero permeato anche il sostrato economico, politico e sociale del nord. Varacalli conosce bene la gravità delle sue rivelazioni. Varacalli sa di essere un uomo morto.
L’inchiesta Minotauro (e le sue collaterali come Colpo di coda) ha portato allo scoperto il patto criminale che era stato firmato tra le cosche e alcuni ambienti politici ed economici in Piemonte, Lombardia e Liguri. È una storia che parte da lontano e che cammina parallela alle forti ondate migratorie che a partire dagli anni Cinquanta portarono tantissimi meridionali a tentare la sorte laddove l’economia era più prospera e laddove le fabbriche avrebbero garantito una costante domanda di manodopera. Assieme agli onesti, partirono pure i cattivi decisi, anche loro, a fare fortuna. Nel sodalizio criminale, le cosche hanno scoperto le loro carte vincenti: la forza dei numeri e la possibilità di orientare i voti della nutrita comunità calabrese in cambio di gare d’appalto inquinate a loro favore, concessioni edilizie e la libertà di scorrazzare indisturbati impadronendosi pezzo per pezzo di quel nord così prospero. Sono un uomo morto è il libro che raccoglie la testimonianza di colui che per primo ha svelato questo connubio e quanto profonda fosse l’infiltrazione della ‘ndrangheta nel sistema economico del nord ovest italiano. Attraverso una lunga scia di storie, nomi, vicende giudiziarie e morti ammazzati, Rocco Varacalli ci porta dietro le quinte di un sistema in cui amministratori, politici, assessori, faccendieri di diversa levatura e imprenditori hanno alimentato la macchina del consenso foraggiando la malavita calabrese. Una lettura disturbante, ma necessaria per conoscere l’ennesima manifestazione torbida del potere, quello che Max Weber interpreta come la capacità di farsi ubbidire attraverso la forza.
novembre 6, 2013 Commenti disabilitati su Sono un uomo morto
Io parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta
Rossella a Firenze si innamora di Francesco. Per amore lo segue fino a Palmi, giù in Calabria. Il tempo di rendersi conto di essere entrata nel campo minato della ‘ndrangheta e di convincere Francesco a tirarsene fuori, e di lei non resta più niente. Nemmeno una fotografia, per sapere che faccia avesse. Nell’attesa estenuante di riceverne indietro il corpo, fatto a pezzi e buttato in mare, della sua famiglia non rimane più nessuno e Rossella viene dimenticata. Chi entra inconsapevolmente e chi lotta per uscirne: la Calabria delle donne d’onore è fatta anche di figlie e nipoti che decidono che quella criminale non è più vita, che capiscono che oltre il perimetro di casa e della città in cui vivono c’è altro. C’è libertà, il diritto di amare l’uomo scelto dal proprio cuore e non dalla propria famiglia e c’è la possibilità di permettere ai propri figli di fare il mestiere che vogliono. Anche il poliziotto. Ed è così che Giusy Pesce, Lea Garofalo, Concetta Cacciola, Rosa Ferraro, Tita Buccafusca decidono di averne abbastanza di quella esistenza pedinata, spiata, osservata. Stabiliscono di averne abbastanza di quegli uomini, padri, mariti, fratelli che decidono per loro, ne hanno abbastanza di una vita fatta di paure, botte, ricatti e minacce. E parlano. Concetta, Tita e Lea pagheranno con la vita questa scelta. Da una parte ci sono le donne che con la ‘ndrangheta hanno a che fare per stirpe: dall’altra, però, ci sono le donne che con la ‘ndrangheta non hanno nulla a che vedere, ma alle quali tocca subirne i morsi crudeli. Deborah Cartisano e Stefania Grasso sono figlie di uomini che a scendere a compromessi con la criminalità non ci pensano minimamente. A Lollò Cartisano, fotografo di Bovalino, se lo ingoierà per sempre la montagna; Cecé Grasso, meccanico e concessionario di Locri, lo crivelleranno di colpi davanti alla serranda della sua attività. Deborah e Stefania trasformeranno il dolore in coraggio, in forza. In ribellione. Come faranno Liliana Carbone, Angela Donato, Antonietta Pulitano, Anna Fruci, madri alle quali è toccato l’innaturale compito di sopravvivere ai figli. Massimiliano Carbone, Santo Panzarella, Francesco Aloi, Valentino Galati a casa vivi non ci torneranno mai più. Alle madri, talvolta, non resta che piangere su un osso, un tallone dentro una scarpa da tennis o soltanto davanti alla fotografia su una mensola perché del corpo non se ne trova traccia. Ragazzi, uccisi per un amore sbagliato…
Io parlo. Non è un’ipotesi, né un’esortazione. È uno slancio a riprendersi la vita, la dignità. Storie di donne, quell’altra metà del cielo che per amore (tutte le declinazioni in cui l’amore è possibile), con sacrificio e dolore, spesso pagando con la morte, getta una luce forte in questa notte criminale che avvolge la Calabria. Storie che hanno la potenza abrasiva della carta vetrata. Dalle scarnificazioni che lasciano sulla pelle germinano domande e, forse, un nuovo modo di riflette e scrivere di questa terra e di ‘ndrangheta. Un circuito, quello dei clan, dove il silenzio ha il peso dell’oro. La donna è una presenza silenziosa per la quale non sono previsti gradi né gerarchie da scalare. Nel loro gergo sono "sorelle di omertà": sorelle del silenzio. Dentro e soprattutto fuori dalla famiglia mafiosa. Tutto il sistema si alimenta sul silenzio e sulle sue varie, indefinite coniugazioni. Infrangerlo non è ordinario, tantomeno scontato: è un atto di forza che si paga con la delegittimazione e con la morte. L’emotività femminile diventa lo stratagemma per disinnescare scelte e parole e allora le donne che parlano lo fanno perché depresse, instabili, pazze. Mai per loro scelta e mai consapevolmente. E se poi si ostinano, se minano alle fondamenta la graniticità della struttura maschilista e patriarcale del clan le si colpisce direttamente ancora più in fondo: sono puttane. Eppure, nelle fitte maglie di questa rete di dolore si intravede una speranza ed ha proprio il volto delle donne: quelle dei clan, che parlano; quelle delle figlie delle vittime che resistono; delle madri caparbiamente aggrappate alla sete di giustizia per il loro figli svaniti nel nulla. Francesca Chirico restituisce queste testimonianze alla memoria collettiva (alcune, come la storia di Rossella Casini, addirittura per la prima volta) con una scrittura che non fa sconti sull’orrore ma nemmeno sui sentimenti che alcune storie portano naturalmente incassati dentro. E proprio l’amore è uno dei pilastri fondamentali su cui molte delle storie si reggono. Non è strano né deve sorprendere che sia così. D’amore, per aver amato o voler amare la donna sbagliata, per essere volute fuggire da un matrimonio triste e per aver trovato in questa fuga un sentimento vero, si può morire. E si muore. Ma di amore, per i figli, per la memoria, per la giustizia, per un futuro meno acre si può anche vivere. E si vive. Il coraggio delle donne che parlano e che parlando destabilizzano la ‘ndrangheta è la dimostrazione che la Calabria ha, nonostante tutto, una parte sana che del silenzio e delle bocche cucite non sa che farsene e un’altra parte che non sa più che farsene nemmeno del prestigio (o del timore) che deriva dai loro cognomi criminali.
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Antologia ru cimiteru ‘i Cundera
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1743.pdf
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