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Gli omicidi di Macheda e Marino: rassegna stampa
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giugno 27, 2014 Commenti disabilitati su Gli omicidi di Macheda e Marino: rassegna stampa
La strage di Razzà – i giornali
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aprile 29, 2014 Commenti disabilitati su La strage di Razzà – i giornali
Tolto il segreto sulla strage di Gioia Tauro
GIOIA TAURO (RC) – C’è anche il deragliamento della Freccia del Sud avvenuto nei pressi della Stazione di Gioia Tauro tra i fatti oscuri accaduti in Italia negli ultimi 40 anni che il governo ha deciso di declassare. La direttiva firmata ieri dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, insieme al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla sicurezza della Repubblica Marco Minniti e al Direttore del Dis, Giampiero Massolo, dispone la declassificazione degli atti relativi ai fatti di Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, stazione di Bologna, rapido 904. Adesso sarà possibile visionare le carte classificate come "riservatissime" e capire meglio come andarono le cose. I documenti verranno versati secondo un criterio cronologico (dal più antico ai tempi più recenti), superando l’ostacolo posto dal limite minimo dei 40 anni previsti dalla legge (fatto che vale per tutte le amministrazioni) prima di poter destinare una unità archivistica all’Archivio Centrale. Il deragliamento avvenne alle 17.10 del 22 luglio 1970.
Il treno proveniente da Villa S. Giovanni dopo aver traghettato alle 14:35, stava entrando in stazione a circa 100 km/h quando il macchinista Giovanni Billardi e l’aiuto macchinista Antonio Romeo avvertirono un forte sobbalzo della locomotiva . A quel punto azionarono il freno rapido di emergenza. Il convoglio prese a rallentare comprimendosi mentre i respingenti delle carrozze assorbivano la decelerazione. La frenata avvenne regolarmente per le prime cinque carrozze, finché le sollecitazioni meccaniche spinsero uno dei carrelli della sesta carrozza fuori dalla sede dei binari. Le carrozze successive sviarono anch’esse nel corso dei 500 metri di frenata; durante la brusca decelerazione alcuni ganci di trazione si spezzarono e il convoglio si divise in tre tronconi. Poi l”arrivo dei soccorsi composti dai vigili del fuoco di Palmi, Cittanova e Reggio Calabria, dagli uomini della Celere e dei Carabinieri la locomotiva e le prime cinque carrozze erano ferme sul binario a soli 30 metri dalla stazione Il treno trasportava circa 200 persone, tra cui un gruppo di 50 pellegrini diretti a Lourdes. Il bilancio finale della tragedia fu di 6 morti e più di settanta feriti, di cui molti in gravissime condizioni. Tutti i deceduti si trovavano tra la nona e l’undicesima carrozza.
Il misterioso sobbalzo era avvenuto nel breve tratto tra il cavalcavia delle Ferrovie Calabro Lucane e il gruppo di scambi all’ingresso in stazione di Gioia Tauro, a 750 metri dall’ingresso delle piattaforme di stazione. Il capotreno di allora Francesco Nazza confermò che fino a quel momento la marcia procedeva regolarmente, fatto supportato anche dalla testimonianza di due dei tre uomini in servizio a bordo che avevano percorso tutto il convoglio. Subito dopo l’evento, il capostazione Teodoro Mazzù precisò di aver udito "un botto tremendo" e visto "una colonna di fumo che si è subito innalzata alta dal convoglio deragliato. Una scena apocalittica. Il caos più completo. I passeggeri si buttavano giù dalle vetture, cercavano spasmodicamente di afferrare i loro cari, avevano il viso annerito dal fumo e le carni straziate dalle lamiere. Nonostante dalla ferrovia risultassero mancanti 1,8 metri di binario e nei mesi precedenti si fossero verificati attentati con dinamiche simili, inizialmente si parlò di un guasto meccanico o un errore umano. Il questore Santillo identificò le cause del deragliamento con "lo sbullonamento del carrello n°2 del corpo della nona vettura". Vi furono anche ipotesi riguardanti la pista dell’attentato, che però vennero ignorate in parte per fini politici: Santillo in un’intervista "a caldo" per il Corriere della Sera arrivò a chiedere "Per carità, non diffamiamo la Calabria!".
Ciò nonostante, l’ipotesi dell’attentato venne avanzata e sostenuta dalla maggior parte della stampa nazionale: il giornalista Mario Righetti del Corriere della Sera, specialista in tecnica ferroviaria, sostenne questa tesi dopo soli tre giorni, presto supportato anche da altre testate. Su L’Avanti addirittura si arrivò a citare il presunto rinvenimento di altro esplosivo, il 7 agosto. Le indagini preliminari svolte dai marescialli Guido De Claris e Giuseppe Ciliberti quali membri del commissariato di Pubblica Sicurezza della direzione compartimentale delle Ferrovie dello Stato di Reggio Calabria stabilirono in un rapporto del 28 agosto che il fatto era dovuto a questioni tecniche, e considerarono anche la possibilità di responsabilità colpose per il personale in servizio allo scalo cittadino. Ma il 16 giugno del 1993 due pentiti della ‘ndrangheta tra cui Giacomo Ubaldo Lauro davanti al Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia di allora Vincenzo Macrì nell’ambito della maxi inchiesta Olimpia 1, dichiarò che nel 1970 in Calabria si erano formate alleanze strategiche tra criminalità organizzata, eversione nera e altri esponenti di diversi movimenti estremisti. Lauro dichiarò di avere avuto rapporti con Vito Silverini, un fascista esaltato vicino ai vertici del Comitato d’Azione che in quel periodo stava infiammando i moti di Reggio, nonostante fosse analfabeta. Lauro aveva assunto Silverini (noto come "Ciccio il biondo") come operaio tra il 1969 e il 1970 e lo aveva reincontrato in carcere dopo essere stato arrestato per un furto alla Cassa di Risparmio di Reggio. Silverini non era nuovo all’esperienza carceraria, avendo già scontato alcuni mesi per violenze legate all’insurrezione cittadina. Nel carcere reggino Silverini e Lauro avevano condiviso la cella numero 10.
Silverini aveva confessato a Lauro di possedere una somma presso la Banca Nazionale del Lavoro pagatagli dal Comitato proprio per la bomba messa sulla tratta Bagnara – Gioia Tauro, che aveva causato il deragliamento del treno. Silverini aveva portato una carica di dinamite da miniera sul luogo insieme a Giovanni Moro e Vincenzo Caracciolo, nascondendola sull’Ape Piaggio di quest’ultimo, e l’aveva posizionata con un innesco a miccia a lenta combustione. Silverini si vantò con Lauro di essere sul posto sia al momento dell’esplosione ("mi disse che l’attentato era avvenuto in ore diurne e cioè nel pomeriggio, tra le 16 o le 18, e questo aveva consentito a lui e a Caracciolo di osservare senza difficoltà dall’alto la scena") che all’arrivo del questore Santillo, e di aver assistito alle prime fasi dell’inchiesta sul campo: inoltre affermò di aver provocato con quella bomba la distruzione di 70 metri di ferrovia, fatto questo non corrispondente al vero. Lauro in seguito ripeté la sua deposizione a Milano, al giudice istruttore Guido Salvini che stava indagando sull’attività eversiva di Avanguardia Nazionale. Giacomo Ubaldo Lauro in un interrogatorio dell’11 novembre 1994 confessò di aver avuto parte nella vicenda, e di essere stato lui stesso a consegnare l’esplosivo a Silverini, Moro e Caracciolo. In cambio aveva ricevuto alcuni milioni di lire, provenienti dal Comitato d’azione per Reggio capoluogo.
aprile 23, 2014 Commenti disabilitati su Tolto il segreto sulla strage di Gioia Tauro
Appello per Rossella uccisa dalla ‘ndrangheta
Non c’è stata giustizia per Rossella Casini, la studentessa fiorentina che scomparve a Palmi, in Calabria, il 22 febbraio 1981 e non è mai stata ritrovata. Non c’è stata giustizia sebbene nel 1994 un pentito, Vincenzo Lo Vecchio, ritenuto per altre circostanze "di sicura attendibilità", avesse raccontato che era stata rapita, violentata, interrogata, uccisa, fatta a pezzi e fatta sparire. Dopo un processo che si è trascinato stancamente per nove anni, gli imputati sono stati assolti. Fra di loro Francesco Frisina, appartenente – secondo le accuse – alla famiglia di ‘ndrangheta dei Gallico – Frisina, già studente di economia a Firenze, già fidanzato di Rossella. Che se ne era innamorata nel ’78 cacciandosi così, inconsapevolmente, in un groviglio di vipere. E che aveva tentato invano di sottrarlo a un destino di faide e di violenza, diventando in tal modo una "mina vagante" per la famiglia mafiosa. Rossella era figlia unica. Era nata il 29 maggio 1956 a Firenze e abitava Borgo la Croce 2. Studiava psicologia all’Università di Firenze. Dopo la sua scomparsa i suoi genitori sono morti di dolore uno dopo l’altra. Di lei non è stata trovata neppure una foto. Francesca Chirico la ricorda nel libro "Io parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta" (Castelvecchi 2013). Libera, la associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti, le ha intitolato il presidio di Viareggio. Ma neppure Libera ha una foto di Rossella. Allora Repubblica Firenze ha deciso di lanciare un appello a tutti coloro che l’hanno conosciuta: trovate una fotografia di Rossella.
aprile 11, 2013 Commenti disabilitati su Appello per Rossella uccisa dalla ‘ndrangheta
Delitto Congiusta, ergastolo confermato in Appello
Anche per i giudici della Corte d’Appello di Reggio Calabria l’omicidio di Gianluca Congiusta, il giovane commerciante di Siderno assassinato nel 2005, porta la firma di Tommaso Costa. Nella serata di ieri, e dopo oltre sette ore di camera di consiglio, il boss di Siderno si è vista confermare la pena dell’ergastolo già comminata dalla Corte d’Assise di Locri il 18 dicembre 2010. Ridotta invece da 25 a 15 anni di reclusione la condanna di Giuseppe Curciarello, giudicato responsabile di associazione a delinquere di stampo mafioso, ma assolto dall’accusa di traffico di droga. “Giustizia è fatta. La condivido con chi non l’ha ancora avuta. Ora la mia speranza è che non si spari più”, le prime parole di Mario Congiusta, il papà di Gianluca, che ha atteso la lettura della sentenza al fianco della moglie Donatella, delle figlie Roberta ed Alessandra, e di decine di rappresentanti del mondo associazionistico convenuti presso il Tribunale di piazza Castello per testimoniare vicinanza e solidarietà ai familiari del ragazzo di Siderno.
Trentadue anni, gestore di alcuni negozi di telefonia mobile, impegnato nello sport e in numerose attività sociali, Gianluca Congiusta fu ucciso la sera del 24 maggio 2005, mentre rientrava a casa dal lavoro. Il ragazzo, completamente estraneo agli ambienti della criminalità organizzata, venne freddato con due colpi di fucile caricato a pallettoni mentre si trovava alla guida della sua Bmw, in una zona periferica della città. La polizia stradale lo trovò riverso sul volante, lo stereo ancora acceso. Un omicidio apparentemente incomprensibile su cui proprio la caparbia battaglia di Mario Congiusta, protagonista di scioperi della fame e manifestazioni di piazza per chiedere verità e giustizia, non ha mai permesso che si spegnessero i riflettori.
Fino alla svolta del 9 gennaio 2007, giorno in cui il quarantottenne Tommaso Costa ha ricevuto in carcere un’ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di essere il mandante e l’esecutore materiale, in concorso con altre persone non ancora identificate, dell’omicidio di Gianluca Congiusta. Tre fratelli uccisi nella lunga faida contro i Commisso per il controllo criminale della città, scarcerato nel marzo 2005 per effetto dell’ “indultino” e poi uccell di bosco per sfuggire ad una condanna divenuta definitiva, Tommaso Costa era stato catturato solo poche settimane prima, mentre si stava freneticamente “spendendo” nel tentativo di rialzare le quotazioni della “famiglia”, ritagliandosi nuovi spazi di influenza.
Sarebbe stato questo scenario criminale fluido e pericoloso a condannare Gianluca Congiusta, deciso ad intervenire in favore del futuro suocero Antonio Scarfò, un imprenditore cui Tommaso Costa aveva indirizzato dal carcere di Palmi una lettera con richieste estorsive. Proprio l'”intromissione” di Congiusta e il timore che i Commisso potessero scoprire il rinato attivismo dei vecchi rivali, scatenando una feroce reazione, avrebbe armato la mano del boss. “L’omicidio di Gianluca Congiusta – spiegavano nelle motivazioni della sentenza di primo grado i giudici della Corte d’Assise di Locri – è stato deciso, organizzato ed eseguito da Costa Tommaso, ed è un delitto tipicamente mafioso non solo per le sue modalità esecutive ma anche e soprattutto per il concorso di pre-elementi (punitivo, estorsivo e strategico), funzionali alla riaffermazione del potere criminale del risorto sodalizio Costa, potere che non poteva prescindere dal manifestarsi e imporsi nei confronti di chi operava economicamente proprio nelle immediate vicinanze delle case dei Costa”. Un impianto accusatorio fatto proprio, evidentemente, anche dalla sentenza di secondo grado.
aprile 11, 2013 Commenti disabilitati su Delitto Congiusta, ergastolo confermato in Appello
“Quel vescovo ha fatto porcate”
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dicembre 13, 2012 Commenti disabilitati su “Quel vescovo ha fatto porcate”
Trovati i resti di Lea Garofalo, testimoniò contro la ‘ndrangheta
MILANO – Ci sono storie così drammatiche che anche la scoperta del cadavere
carbonizzato della propria madre può diventare, se non certamente un
lieto fine, un inizio di pacificazione con la vita, un’occasione per
girare pagina e cominciare a guardare al futuro. Questa che raccontiamo è
la storia di Denise, una ragazza calabrese che compirà 21 anni in
dicembre e che, da poche ore, ha saputo che potrà finalmente avere un
funerale per la mamma – che sapeva uccisa da suo padre tre anni fa – e
una tomba sulla quale portare un fiore. È una storia che merita di
essere raccontata anche perché pochi sanno veramente a quale punto di
ferocia arrivi la criminalità organizzata. La ‘ndrangheta, in questo
caso.
Come molte tragedie, anche questa comincia con una storia d’amore.
Quella fra Lea Garofalo e Carlo Cosco, due giovani calabresi. Lei
diventa mamma quando ha solo diciotto anni. La bambina viene chiamata
Denise. Vanno a vivere a Milano. Lui lavora, ma ha pessime compagnie e
diventa in poco tempo un piccolo boss nel mercato dello spaccio di droga
a Quarto Oggiaro, un quartiere popolare. Lea cerca di fargli cambiare
vita. Ma invano. Nel 2002 dopo aver sopportato tutto per amore della
figlia, decide, per coraggio e per disperazione, di collaborare con la
giustizia. Racconta di un omicidio; del traffico di droga nella zona di
piazza Baiamonti; delle trame milanesi del clan dei crotonesi. Entra nel
«programma di protezione»: vive nascosta, con la scorta e sotto falso
nome. Ma gli anni passano senza risultati. Le sue dichiarazioni vengono
quasi dimenticate. Il convivente continua a fare quello che ha sempre
fatto. E a Lea manca Denise, la figlia adorata. Così, rinuncia al
programma di protezione. Torna a vivere allo scoperto.
Il 5 maggio del 2009 Carlo Cosco scopre che lei abita a Campobasso e
manda un suo uomo per ucciderla. Ma Lea è con la figlia, le due donne
reagiscono, il killer fugge. Carlo insiste. È così abile da
riconquistare la fiducia di Lea. La chiama a Milano: «Dobbiamo parlare
della nostra adorata Denise». Lei accetta.
È il 24 novembre del 2009. Lea e Denise arrivano dalla Calabria, e
c’è una telecamera di un impianto di sicurezza che fissa il loro arrivo
all’Arco della Pace, in fondo a corso Sempione, una zona elegante, bei
bar e bei negozi. Carlo Cosco arriva e, con una scusa, separa le due
donne. Denise viene mandata a cena da un parente. Si lascia con la mamma
con un accordo: «Ci vediamo alla stazione centrale alle 23», quando
parte il treno che le deve riportare in Calabria.
Ma Lea alla stazione non arriverà mai. Carlo Cosco, con l’aiuto di
due fratelli, la fa salire su un furgone. La tortura per sapere cosa ha
raccontato ai magistrati. Poi la uccide con un colpo di pistola. Sarà
sempre lui, poche ore dopo, ad andare con la figlia dai carabinieri a
denunciare la scomparsa.
Denise in quel momento ha solo diciassette anni. Torna in Calabria.
Non sa che fine abbia fatto la mamma. Dov’è? Immaginatevi l’angoscia.
Denise cerca il coraggio per continuare a vivere, e lo trova anche in un
ragazzo che la corteggia, le sta vicino, diventa il suo fidanzato. Ma
presto scopre che la barbarie della ‘ndrangheta è inimmaginabile: non
solo suo padre, ma anche quel suo nuovo fidanzato, che in realtà aveva
il compito di controllarla, vengono arrestati per l’omicidio di sua
mamma. Denise, che ormai sospetta anche della propria ombra, scappa al
Nord e va dai magistrati. Adesso è lei a vivere nascosta e sotto falso
nome.
Affiorano particolari dalle indagini, alcuni imputati e testimoni
dicono che Lea Garofalo, dopo essere stata uccisa, è stata sciolta
nell’acido: di lei non esiste più nulla. Il processo (primo grado)
finisce con sei ergastoli. Tutti i condannati, tra cui Carlo Cosco, sono
in carcere.
È di queste ore la svolta. Le indagini sono continuate anche dopo la
sentenza e si è scoperto che Lea Garofalo non è stata sciolta nell’acido
ma bruciata e sepolta in un campo in Brianza. Hanno già trovato le ossa
e alcuni oggetti: si attende l’esame del Dna, ma sembra certo che si
tratti proprio di Lea.
A Denise l’hanno detto l’altro giorno. Da una parte è stato come
veder morire, un’altra volta, la mamma. Dall’altra è stato come
ritrovare un abbraccio, e intravedere la fine del tunnel.
novembre 21, 2012 Commenti disabilitati su Trovati i resti di Lea Garofalo, testimoniò contro la ‘ndrangheta
“Mi appello a voi, uomini della mafia”
“Mi appello a voi, uomini della mafia, come figlio di questa terra ‘grande e amara’. Ai suoi mali antichi si sommano le vostre organizzazioni ‘di cui la ‘ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa’. Una presenza che fa pagare alla nostra terra un prezzo alto a livello sociale, economico e religioso”. Inizia così la riflessione pastorale “Mi appello a voi, uomini della mafia“, scritta dall’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, mons. Salvatore Nunnari, e che sarà consegnata alla diocesi l’8 settembre in occasione della festa patronale della Madonna del Pilerio.
Voi siete parte della morte e della menzogna. “Siete però minoranza e non rappresentate la storia e la civiltà millenaria dei nostri padri”, è l’affermazione dell’arcivescovo, che evidenzia i “segni” che distinguono queste persone: “Arroganza del potere”, “spregiudicatezza del possedere”, “animosità che acceca e annulla i vincoli di sangue” e “mancanza assoluta di rispetto per la vita e la dignità umana”. In questo contesto, spiega, “avere la presunzione di appellarvi a tradizioni religiose, come spesso fate anche cercando di prendere parte alla preparazione di feste patronali, è semplicemente assurdo. Non c’è nulla nel Vangelo di Cristo a cui voi mafiosi potete richiamarvi, anzi la vostra stessa esistenza fatta di violenza e soprusi è una contro-testimonianza allo spirito e alla norma etica della Parola di Dio”. Da qui il monito a non strumentalizzare la devozione alla Madonna e ai Santi “a cui solo cuori purificati e semplici possono accostarsi”: “Voi siete parte della morte e della menzogna” perché nel seminare morte “offendete Dio ogni giorno”.
Una forza imprenditrice del male. Per mons. Nunnari, se il Mezzogiorno e la Calabria vivono in condizioni di “arretratezza socio-economica che conculca la speranza soprattutto delle nuove generazioni, la vostra colpevolezza è immensa”: “Quando da organizzazione criminale locale avete occupato gli spazi spesso lasciati liberi da uno Stato, a volte poco attento ai nostri problemi, avete superato i vecchi canoni e gli stessi confini nazionali diventando una vera e propria forza imprenditrice del male” che ha provocato “conseguenze deleterie sotto il profilo dell’immagine della nostra terra” e “continua a provocare la fuga degli investimenti”. L’arcivescovo cita le tante aziende costrette a chiudere e i tanti giovani che, impossibilitati a trovare un lavoro nella Regione, emigrano e “l’immagine e la cultura accogliente della Calabria degradata a terra di mafia”. Nella lettera mons. Nunnari “loda” l’azione della società civile” e il lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine che confiscano i loro beni: questo rappresenta una delle scelte di lotta più “significativa” che colpisce il malaffare e restituisce alla società ciò che “avete violentemente e illegalmente usurpato”. Ma questa “non è l’unica strada da percorrere – scrive – anche perché siete diabolicamente capaci di occultare flussi di denaro e investimenti in ogni campo”. Mons. Nunnari cita, quindi, il narcotraffico e ricorda i tanti giovani che muoiono: “La loro morte grida vendetta al cospetto di Dio della vita e dovrebbe pesare come un macigno sulla vostra coscienza”.
Il male non può essere l’assoluto. L’arcivescovo si dice fiducioso “nell’immensa misericordia di Dio, mai stanco di amore e d’incrociare, magari attendendo, l’essere umano sulle vie tortuose della sua esistenza”. Insomma, spiega, dopo la notte, la luce. E i segnali di rinascita culturale della nostra terra ci fanno ben sperare. Il male non può essere l’assoluto nella vostra vita”: da qui l’invito ad aprire il cuore al messaggio eterno del Vangelo che è annuncio di liberazione e di salvezza e non ha nulla a che fare con le false devozioni. La Bibbia che spesso tenete tra le mani deve diventare fonte di vera riflessione e di cambiamento radicale”. Mons. Nunnari, dopo aver ricordato la figura di don Pino Puglisi, sottolinea che le Chiese meridionali hanno rivolto agli uomini di mafia l’invito alla conversione. Diversi, infatti, i documenti, come quello del 1975, dal titolo “L”Episcopato calabro contro la mafia, disonorante piaga della società”, e quello del 2007, “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”, nei quali viene indicato come primo passo la conversione personale e comunitaria “grazie ad un cambio di mentalità nel cuore e nella vita di ogni uomo e donna, di ogni famiglia, gruppo e istituzione, che permetta di rimuovere le forme di collusione con l’ingiustizia e respingere l’ingannevole fascino del peccato”. E poi l’appello di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi in Sicilia: “Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio”. “Sappiate – conclude mons. Nunnari – che anche la società sta cambiando, anzi è già cambiata e dalle rive del mare e dalle cime dei monti già s’intravede un’alba nuova. A voi scegliere da che parte stare!”.
settembre 4, 2012 Commenti disabilitati su “Mi appello a voi, uomini della mafia”
“Ma la Chiesa ha il diritto di perdonare?”
Egregio Direttore,
dopo aver attentamente ascoltato l’omelia del vescovo della Diocesi di Locri-Gerace, monsignor Fiorini Morosini, in occasione della celebrazione della Festa della Madonna di Polsi, mi sorgono spontanee delle considerazioni, degli interrogativi, ma anche una certa delusione, forse rabbia e forse indignazione, sui concetti di perdono, assoluzione e i diversi modi di interpretarli ed applicarli. Mi riferisco in particolare al passaggio dell’omelia in cui il vescovo apre al perdono anche ai mafiosi, dichiarando che: «La Chiesa predica il perdono di tutti e lo fa in nome di Gesù Cristo, la Chiesa annuncia il perdono anche per i mafiosi, non ci faremo intimorire dalla stampa che aspetta da noi sacerdoti parole di disprezzo, noi queste parole non le diremo mai, ma chiameremo a conversione tutti». Ed ancora aggiunge: «È certo che la Chiesa non concede il perdono con tre Ave Maria a buon mercato, e continuerà a predicare sempre ai peccatori di cambiare vita e, solo quando si avrà la garanzia della conversione del cuore, la Chiesa alzerà la mano e concederà il perdono, anche se gli uomini sanno che poi dovranno saldare il conto con la giustizia terrena».
Ricordo che, in occasione del suo insediamento, il vescovo dichiarò che la ‘ndrangheta era al di fuori della Chiesa, in quanto tra di loro c’erano assassini e criminali e, quindi, l’omelia che mi sarei aspettato a Polsi sarebbe stata di condanna verso chi si arroga il diritto di spegnere vite umane. Ed invece, ora, il suo messaggio mi sembra più di difesa dalla stampa e verso un’apertura delle porte delle Chiese della Locride a chi che sia, sia esso "ladro di marmellata" o assassino. Mi chiedo: il vescovo Morosini, ovvero la Chiesa, ha diritto di perdonare gli assassini delle tante vittime innocenti di mafia, essendo prerogativa della Chiesa solo assolvere, rimanendo il diritto del perdono prerogativa di chi il torto lo ha subito, cioè le vittime?
In occasione di una mia visita ai detenuti delle carceri di Opera a Milano, un killer dei Casalesi, mi chiese se ero disposto a perdonarlo per le morti che aveva seminato, ben ventitré, gli risposi che sarebbe stato troppo facile per me perdonarlo, che da lui non avevo ricevuto alcun torto. Non era a me che doveva chiedere il perdono, ma ai familiari delle vittime, ammesso che anche loro abbiano il diritto a concederlo. Ritenevo allora, come oggi, che prima di chiedere il perdono è necessario confessare il crimine commesso, pentirsi, espiare la pena e non aspettarselo, perché non dovuto. È qualcosa che può arrivare o meno, ma non un diritto ad averlo. Se mi chiedono se sono disposto a perdonare chi ha ucciso mio figlio Gianluca, rispondo di non avere alcune delega in merito e non me la sento di assumermi un diritto che non credo mio, ma solo di mio figlio, come della generalità delle vittime innocenti. Eppure sono il padre!
Gli aspetti che accomunano la maggior parte dei familiari di vittime innocenti, ne conosco moltissimi, sono la mancanza di odio e il grande dolore che scandisce la quotidianità, con l’unico e primario obiettivo di avere giustizia, prima di tutto attraverso l’espiazione della pena. Da quello che ho potuto percepire dalle parole dell’omelia, l’espiazione della pena assume secondaria importanza, non gestendo la Chiesa la giustizia terrena. (Per fortuna)! Il vescovo Morosini, si arroga il diritto in nome di Gesù Cristo, di perdonare chiunque e chi che sia, essendogli sufficiente la garanzia di una conversione del cuore, non si capisce bene se tale garanzia sia scritta o data verbalmente attraverso il confessionale. E se questa è l’interpretazione giusta che ho dato all’omelia, mi rimane solo la scelta di non frequentare più le Chiese della Locride, evitando così di sedermi accanto ad uno "spegnitore di vita" e "accenditore di candele", continuando, quando vorrò comunicarmi, a recarmi a piedi, finché il mio già provato fisico, me lo consentirà, una volta l’anno, a Pietra Cappa sul "Sentiero della memoria", dissestato, più di quello di Polsi, dove sono stati ritrovati i resti di Lollò Cartisano, forse ucciso da chi a Polsi per anni si è recato a piedi o magari in ginocchio. Lollò che, come gli altri, ascoltando il vescovo Morosini, si starà rivoltando nella tomba.
settembre 4, 2012 Commenti disabilitati su “Ma la Chiesa ha il diritto di perdonare?”
Vescovo a Polsi, perdono ai mafiosi se c’è vera conversione
POLSI (REGGIO CALABRIA), 2 SET – La Chiesa perdona tutti, anche i mafiosi, ma la conversione deve essere autentica. E’ fermo nelle sue parole mons. Giuseppe Fiorini Morosini, pastore della diocesi di Locri-Gerace, dalla Festa della Madonna della Montagna a Polsi luogo divenuto tristemente famoso per i summit che, secondo diverse inchieste della magistratura, le cosche di ‘ndrangheta del reggino vi tenevano in coincidenza della festa per decidere strategie e affari. Il tema e’ quello della redenzione. E davanti a migliaia di pellegrini giunti da tutta la regione e anche dalla Sicilia da alcuni giorni sui contrafforti aspromontani, non lontano da San Luca, il presule, prima dello scambio del segno della pace, impugna il microfono per sottolineare con forza alcuni concetti: ‘Certa stampa – dice – ha esaurito le sue cartucce accusando la Chiesa di tacere dinanzi ai problemi della ‘ndrangheta e sostenendo che se essa prolifica e’ perche’ la Chiesa tace. Hanno finito di dire questo. Si sono caricati di altre cartucce e adesso dicono: la ‘ndrangheta, la mafia, la delinquenza organizzata prolificano perche la Chiesa annuncia un perdono facile. Noi siamo seguaci di Cristo e, quindi, diciamo che c’e’ perdono per tutti. Certamente il perdono non viene dato a buon mercato. Non sono le tre Ave Maria che ci rimettono i peccati”. Applausi per i passaggi piu’ vibranti dell’intervento fuori omelia nell’anfiteatro davanti al santuario. ”Noi, come ha fatto Cristo – aggiunge – chiameremo tutti alla conversione. Certamente prima di alzare la mano e dire ti sono perdonati i tuoi peccati, faremo e diremo come Gesu’: cambia vita, convertiti. E solo quando avremo la garanzia del cuore convertito, diremo i peccati ti sono perdonati anche se poi devi saldare il conto con la giustizia terrena, che e’ cosa diversa dal perdono cristiano e dalla riconciliazione con Dio”. In migliaia i pellegrini – e tra questi anche rappresentanti istituzionali e politici – hanno partecipato alla celebrazione che si e’ conclusa con la tradizionale processione e la consegna ai giovani della Croce che, come ricorda il rettore del santuario, don Pino Strangio ”e’ simbolo di salvezza e di resurrezione”. Giovani, famiglie e tanti anziani, alcuni con decine e decine di pellegrinaggi alle spalle per due giorni hanno vissuto intensamente, com’e’ consuetudine secolare, momenti di raccoglimento ma anche sprazzi di festa, cimentandosi nel ballo al suono incessante di tamburelli e organetti. Nell’omelia il vescovo che ha piu’ volte ribadito come questo luogo non possa essere ritenuto ”covo delle cosche”, si e’ rivolto proprio ai fedeli: ”Polsi e’ gia’ se stessa perche’ Polsi siete voi e la vostra fede, che non vogliamo barattare con le fredde elucubrazioni della ragione, che non sempre danno forza e coraggio alla vita. Portate da questo santuario le bellissima esperienza di fede e fiducia in Dio. Raccontate alla gente la gioia e la pace che qui si sperimentano, la forza che si ottiene per riprendere il cammino della vita”.
settembre 2, 2012 Commenti disabilitati su Vescovo a Polsi, perdono ai mafiosi se c’è vera conversione