Io parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta
Rossella a Firenze si innamora di Francesco. Per amore lo segue fino a Palmi, giù in Calabria. Il tempo di rendersi conto di essere entrata nel campo minato della ‘ndrangheta e di convincere Francesco a tirarsene fuori, e di lei non resta più niente. Nemmeno una fotografia, per sapere che faccia avesse. Nell’attesa estenuante di riceverne indietro il corpo, fatto a pezzi e buttato in mare, della sua famiglia non rimane più nessuno e Rossella viene dimenticata. Chi entra inconsapevolmente e chi lotta per uscirne: la Calabria delle donne d’onore è fatta anche di figlie e nipoti che decidono che quella criminale non è più vita, che capiscono che oltre il perimetro di casa e della città in cui vivono c’è altro. C’è libertà, il diritto di amare l’uomo scelto dal proprio cuore e non dalla propria famiglia e c’è la possibilità di permettere ai propri figli di fare il mestiere che vogliono. Anche il poliziotto. Ed è così che Giusy Pesce, Lea Garofalo, Concetta Cacciola, Rosa Ferraro, Tita Buccafusca decidono di averne abbastanza di quella esistenza pedinata, spiata, osservata. Stabiliscono di averne abbastanza di quegli uomini, padri, mariti, fratelli che decidono per loro, ne hanno abbastanza di una vita fatta di paure, botte, ricatti e minacce. E parlano. Concetta, Tita e Lea pagheranno con la vita questa scelta. Da una parte ci sono le donne che con la ‘ndrangheta hanno a che fare per stirpe: dall’altra, però, ci sono le donne che con la ‘ndrangheta non hanno nulla a che vedere, ma alle quali tocca subirne i morsi crudeli. Deborah Cartisano e Stefania Grasso sono figlie di uomini che a scendere a compromessi con la criminalità non ci pensano minimamente. A Lollò Cartisano, fotografo di Bovalino, se lo ingoierà per sempre la montagna; Cecé Grasso, meccanico e concessionario di Locri, lo crivelleranno di colpi davanti alla serranda della sua attività. Deborah e Stefania trasformeranno il dolore in coraggio, in forza. In ribellione. Come faranno Liliana Carbone, Angela Donato, Antonietta Pulitano, Anna Fruci, madri alle quali è toccato l’innaturale compito di sopravvivere ai figli. Massimiliano Carbone, Santo Panzarella, Francesco Aloi, Valentino Galati a casa vivi non ci torneranno mai più. Alle madri, talvolta, non resta che piangere su un osso, un tallone dentro una scarpa da tennis o soltanto davanti alla fotografia su una mensola perché del corpo non se ne trova traccia. Ragazzi, uccisi per un amore sbagliato…
Io parlo. Non è un’ipotesi, né un’esortazione. È uno slancio a riprendersi la vita, la dignità. Storie di donne, quell’altra metà del cielo che per amore (tutte le declinazioni in cui l’amore è possibile), con sacrificio e dolore, spesso pagando con la morte, getta una luce forte in questa notte criminale che avvolge la Calabria. Storie che hanno la potenza abrasiva della carta vetrata. Dalle scarnificazioni che lasciano sulla pelle germinano domande e, forse, un nuovo modo di riflette e scrivere di questa terra e di ‘ndrangheta. Un circuito, quello dei clan, dove il silenzio ha il peso dell’oro. La donna è una presenza silenziosa per la quale non sono previsti gradi né gerarchie da scalare. Nel loro gergo sono "sorelle di omertà": sorelle del silenzio. Dentro e soprattutto fuori dalla famiglia mafiosa. Tutto il sistema si alimenta sul silenzio e sulle sue varie, indefinite coniugazioni. Infrangerlo non è ordinario, tantomeno scontato: è un atto di forza che si paga con la delegittimazione e con la morte. L’emotività femminile diventa lo stratagemma per disinnescare scelte e parole e allora le donne che parlano lo fanno perché depresse, instabili, pazze. Mai per loro scelta e mai consapevolmente. E se poi si ostinano, se minano alle fondamenta la graniticità della struttura maschilista e patriarcale del clan le si colpisce direttamente ancora più in fondo: sono puttane. Eppure, nelle fitte maglie di questa rete di dolore si intravede una speranza ed ha proprio il volto delle donne: quelle dei clan, che parlano; quelle delle figlie delle vittime che resistono; delle madri caparbiamente aggrappate alla sete di giustizia per il loro figli svaniti nel nulla. Francesca Chirico restituisce queste testimonianze alla memoria collettiva (alcune, come la storia di Rossella Casini, addirittura per la prima volta) con una scrittura che non fa sconti sull’orrore ma nemmeno sui sentimenti che alcune storie portano naturalmente incassati dentro. E proprio l’amore è uno dei pilastri fondamentali su cui molte delle storie si reggono. Non è strano né deve sorprendere che sia così. D’amore, per aver amato o voler amare la donna sbagliata, per essere volute fuggire da un matrimonio triste e per aver trovato in questa fuga un sentimento vero, si può morire. E si muore. Ma di amore, per i figli, per la memoria, per la giustizia, per un futuro meno acre si può anche vivere. E si vive. Il coraggio delle donne che parlano e che parlando destabilizzano la ‘ndrangheta è la dimostrazione che la Calabria ha, nonostante tutto, una parte sana che del silenzio e delle bocche cucite non sa che farsene e un’altra parte che non sa più che farsene nemmeno del prestigio (o del timore) che deriva dai loro cognomi criminali.