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Category — i volti

Cara Alice, ti raccontiamo tuo nonno

Cara Alice,

Oggi sei troppo piccola per capire, ma con il tempo ti insegneremo ad amare il mese di settembre. Crescendo arriverà, infatti, il momento in cui comincerai a chiederci il come ed il perché delle cose. Avrai la curiosità di ogni bambino e pretenderai spiegazioni esaurienti dagli adulti a te più vicini. Faremo del nostro meglio, te lo garantisco. Ma sappiamo già che sarà difficilissimo provare a risponderti quando ci chiederai di nonno Mimmo e nonna Mimma. Per questo oggi, nel venticinquesimo anniversario dell’omicidio di Demetrio Quattrone, tuo nonno, e a qualche settimana dalla tua nascita, abbiamo deciso di regalarti una “foto” di famiglia. Non quella che si mette sulle mensole, ma quella che si porta nella memoria e nel cuore.

Nonno Mimmo era un ingegnere e, a Reggio Calabria, una città che ancora non conosci e che lui amava tanto e nonostante tutto, si occupava anche di difendere i diritti e la dignità del lavoro altrui. Era spigoloso, esigente con sé stesso e con gli altri, inflessibile con i furbi, sempre schierato dalla parte dei lavoratori, nella speranza che riuscissero a portare a casa “pane onesto”. Ci chiedeva il massimo perché il massimo era quello che aveva sempre dato nella vita, lui, figlio di una famiglia non agiata, arrivato al Politecnico di Torino grazie esclusivamente alla sua determinazione. Un giorno ti racconteremo di come non potendosi permettere i libri, dava lezione ad un collega meno “sveglio” di lui ma più facoltoso, studiando la notte dai suoi testi in prestito; ti racconteremo di come, per non addormentarsi, le studiava tutte, perché non aveva davvero tempo da perdere. A casa, a Reggio, lo aspettava la fidanzata, tua nonna. Ti racconteremo di quando, potendo scegliere tra la carriera universitaria al Politecnico ed un lavoro precario a Reggio, fece, come sempre, la scelta meno comoda. Tornò in Calabria. E ti racconteremo di come, giorno dopo giorno, con la stessa tenacia di prima, riuscì a dimostrare professionalità e inflessibilità in una città devastata da palazzinari e guerra di ‘ndrangheta, affarismi e cronica assenza di regole e senso dello Stato. E, infine, quando ce lo chiederai, ti racconteremo che la sera del 28 settembre di 25 anni fa pagò con la vita tutte le sue scelte. Vorremmo poterti dire chi e perché ma purtroppo, Alice, al momento non lo sappiamo neppure noi. Se ne andò senza saperlo anche tua nonna che lo aveva amato tutta la vita e che a 33 anni, nel suo esempio di tenacia, si mise sulle spalle tre figli ed un futuro incerto. Si era laureata, qualche anno prima, incinta di tua madre e, lasciata sola dalla gran parte degli amici di famiglia, e dallo Stato, continuò ad esercitare la libera professione nello stesso contesto che aveva decretato la morte di nonno. Ci ha lasciati nel settembre del 2000. Aveva 42 anni, la stessa età di nonno Mimmo quando fu ucciso.

Ora puoi capire, Alice, cosa significa “settembre” per la tua famiglia. In questo mese Demetrio Quattrone ha pagato con la vita le sue scelte di dignità e serietà; in questo mese Domenica Palamara è stata sopraffatta dallo sforzo compiuto per garantirci comunque una vita “normale”; in questo mese noi abbiamo scelto da che parte stare. Non è stata una scelta difficile. L’esempio quotidiano di vita, e i loro insegnamenti, ci hanno naturalmente indirizzati e continuano a mostrarci la via. Questo non vuol dire, Alice, che la strada sia stata e sia tuttora facile da percorrere. In tutti i traguardi raggiunti, in ogni gioia vissuta – da ultima, immensa, la tua nascita – siamo sempre stati affiancati da due compagni non voluti: il dolore per una mancanza incolmabile e la rabbia, spesso silenziosa e nascosta, in giorni come questo sorda ed invadente. La rabbia per le nostre domande rimaste senza risposte – chi e perché? – la rabbia per una città indifferente al destino amaro dei suoi figli migliori. Faremo di tutto per tenerteli lontani.

Con il tuo arrivo, Alice, ora abbiamo un compito in più. Riempire il vuoto che anche tu sentirai con mille racconti, e fotografie, con la certezza che saresti stata immensamente desiderata e amata, e con l’orgoglio di essere parte di una storia familiare fatta di dignità, libertà e coraggio. Senza mai abbandonare la speranza che un giorno possano arrivare anche giustizia e verità.

settembre 28, 2016   Commenti disabilitati su Cara Alice, ti raccontiamo tuo nonno

Giuseppe Marino, vittima del dovere

Vittima del dovere – Giuseppe Marino ha 43 anni, è vigile urbano a Reggio Calabria e la sera del 16 aprile 1993 sta verificando il rispetto dell’ordinanza comunale che vieta il transito e la sosta di automobili e motocicli lungo il Corso Garibaldi, la principale arteria cittadina. Ribadito dal sindaco democristiano Giuseppe Reale, eletto nel 1993 dopo la tangentopoli che aveva travolto la Giunta Licandro, il provvedimento è entrato in vigore da poco, ha prodotto non pochi mugugni e fatica ad essere accettato dagli automobilisti reggini. Sono circa le 20:00 quando Marino ed il suo collega Orazio Palamara, di pattuglia nei pressi della Villa comunale, vengono raggiunti dai colpi esplosi a bruciapelo da una pistola calibro 9×21, un’arma da guerra che non lascia scampo al primo, morto sul colpo mentre sta salendo in macchina, e solo per un incrocio di casualità risparmia la vita al secondo. Pur senza escludere alcuna pista, gli inquirenti restringono quasi subito il campo delle indagini all’ambiente di lavoro, e nello specifico si concentrano sui bollettari dei due vigili urbani. Sembra plausibile che l’omicidio sia maturato proprio intorno all’attività di Marino in ottemperanza all’ordinanza comunale. Sin da subito, tuttavia, le indagini sbattono contro la difficoltà di ricostruire la dinamica dell’agguato; gli investigatori non riescono ad acquisire testimonianze apprezzabili, nessun testimone diretto che sappia o abbia voglia di fornire informazioni utili nonostante l’omicidio sia avvenuto in un in una zona centralissima della città ed in un orario in cui la strada è ancora molto affollata. Un’incertezza che si rispecchia nelle varie ricostruzioni giornalistiche dell’accaduto: i principali quotidiani locali e nazionali non riescono, infatti, a fornire una versione univoca dei fatti, con lacune che non si riescono a colmare.

Le ricostruzioni – Una primissima ricostruzione tentata da Filippo Veltri sulle colonne di Repubblica riconduce l’omicidio al gesto di un folle, indispettito da una multa elevata ai suoi danni dai due vigili. Secondo questa versione, il killer avrebbe sparato appostandosi dietro la Fiat Ritmo in dotazione alla polizia municipale con lo scopo di uccidere entrambi ma il corpo di Marino, cadendo attinto dai proiettili, avrebbe fatto da scudo a Palamara salvandogli, di fatto, la vita. Qualche dettaglio in più a corredo di questa ricostruzione viene da Diego Minuti, il quale su La Stampa specifica che il killer avrebbe sparato 15 colpi all’impazzata, mentre Marino e Palamara fanno rimuovere dal carro attrezzi la sua auto in sosta vietata. Nessuna ricostruzione, fino ad ora, cita i nomi di eventuali indiziati, né dipinge la vicenda come un agguato a possibile matrice ‘ndranghetista. Sulle pagine del Corriere della Sera, qualche giorno dopo, si inizia a leggere una versione diversa: Marino sarebbe stato ucciso per vendetta dopo aver multato un piccolo boss della ‘ndrangheta. È proprio in questa versione che emergono per la prima volta due particolari importanti: che l’omicidio possa essere ricondotto in un’ottica ‘ndranghetista e che i presunti killer possano avere un nome. I fratelli Antonio e Bartolo Votano, ritenuti affiliati alla cosca dei Libri, sono indiziati di "omicidio, tentato omicidio e detenzione abusiva di pistola", secondo una nota della Procura. All’origine, per gli inquirenti, ci sarebbe sempre una contravvenzione elevata un anno prima ad Antonino Votano, il maggiore dei fratelli. In quel frangente Votano sarebbe stato denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale ed il processo, svoltosi l’8 marzo 1993, un mese prima dell’omicidio, lo ha condannato a due anni e mezzo di detenzione dopo la testimonianza cruciale di Marino. Secondo i magistrati, quindi, l’agguato sarebbe maturato come vendetta eseguita da Bartolo Votano che la sera del 16 aprile, appostato dietro una cabina telefonica nei pressi della Villa Comunale, avrebbe aperto il fuoco contro Marino ed il suo collega. L’accusa però non regge al vaglio del tribunale: entrambi i fratelli Votano vengono assolti in via definitiva per non aver commesso il fatto, mentre ad autoaccusarsi dell’omicidio sarà il pentito Giuseppe Calabrò, condannato come esecutore materiale. Ancora oscuro il movente e senza nome i mandanti.

La famiglia, la città e le istituzioni – Quell’aprile del 1993 la città non sembra quasi accorgersi dell’accaduto. A parte qualche sparuto mazzo di fiori poggiato sul luogo dell’agguato, il resto è silenzio. La giunta Reale, dal canto suo, prova a scuotere l’intorpidita indifferenza della comunità reggina affiggendo un manifesto pubblico per invitare "tutta la popolazione a partecipare ai funerali di Marino come atto di ribellione contro la violenza e come affermazione corale della città a volere cambiare". Ma dopo i funerali ufficiali – chiusa in uno stretto riserbo la famiglia avrebbe preferito una celebrazione più intima e raccolta ad Arangea, dove Marino viveva con la moglie Paola e le due figlie Lavinia e Maria – è l’oblio. Oggi Reggio prova a riprendersi un pezzetto di quella storia, facendone memoria viva, chiedendo che a Giuseppe Marino ed al collega Giuseppe Macheda – un’altra vittima del dovere – venga intitolata la caserma dei vigili urbani della città.

giugno 27, 2014   Commenti disabilitati su Giuseppe Marino, vittima del dovere

Il volto ritrovato di Rossella Casini

REGGIO CALABRIA – Occhi azzurri, sguardo malinconico, lunghi capelli chiari. A trentadue anni di distanza dalla sua scomparsa, Rossella Casini, la giovane studentessa universitaria fiorentina fatta sparire a Palmi nel 1981 dalle cosche della ‘ndrangheta, ritrova il suo volto. A lungo dimenticata, rimasta senza una tomba, senza una famiglia che la ricordasse e senza giustizia (i suoi presunti assassini sono stati tutti assolti), di Rossella non era rimasta neppure una fotografia. Franca Selvatici, dalle colonne di La Repubblica, aveva lanciato un appello affinché qualche amico della ragazza ne tirasse fuori la foto.

Ma è l’archivio dell’Università di Firenze, a cui la ragazza era iscritta, ad aver restituito un volto a Rossella. Grazie all’ostinazione delle giornaliste Edi Ferrari e Anna D’Amico, e grazie alla disponibilità dei vertici dell’Ateneo, la ragazza di Firenze, punita per avere spinto alla collaborazione con l’autorità giudiziaria il fidanzato Francesco Frisina, coinvolto nella faida di Palmi tra i Gallico e i Condello, riemerge finalmente, con la sua faccia, dall’oblio indistinto in cui era stata ricacciata.

giugno 17, 2013   Commenti disabilitati su Il volto ritrovato di Rossella Casini

Morire di mattone: la storia di Giuseppe Macheda

Negli anni Ottanta, quelli in cui scoppia la seconda guerra di ‘ndrangheta, quelli in cui le cosche reinvestono i ricavi dei traffici precedenti nella movimentazione terra e in città si preparano a scorrere i fiumi di denaro del Decreto Reggio, in quegli anni, a Reggio Calabria, di mattone si muore. Anche quando il tuo lavoro è proprio quello di tutelarlo il territorio in cui vivi. La sera del 28 febbraio 1985 Giuseppe Macheda partecipa ad una riunione nella sede della Polizia Municipale. Ha 30 anni ed è vigile urbano. L’incontro si prolunga oltre la mezzanotte. Ad attenderlo a casa c’è Domenica, sua moglie. Aspettano un figlio che nascerà da lì a tre mesi. Al citofono le dice: "Sono arrivato. Aprimi il garage". Il killer, appostato sotto casa, aspetta che Giuseppe scenda dalla macchina e parli con Domenica. Poi gli spara due fucilate alle spalle, uccidendolo sul colpo. Sono attimi di concitazione. La moglie sente gli spari, si affaccia al balcone, vede suo marito riverso, urla. Si affacciano i vicini, alcuni scendono per tentare di soccorrerlo. Ma non c’è più niente da fare. Da sei mesi Giuseppe fa parte della squadra per la repressione dell’abusivismo edilizio alle dipendenze del pretore Angelo Giorgianni. Stanno conducendo ispezioni a tappeto su tutta la città e a Macheda sono toccati i controlli nella zona sud di Reggio. Negli ultimi tempi ha denunciato circa 50 persone fra imprenditori e proprietari di stabili che hanno costruito senza permessi anche su zone sottoposte a vincoli. Le attività del gruppo danno fastidio ed è per questo che la prima pista gli inquirenti la trovano nel lavoro di Giuseppe. Spunta anche il nome di un sospettato, quello di Carmelo Ficara, un imprenditore con piccoli precedenti penali per abusivismo che gli inquirenti ritengono essere vicino alle cosche della zona ed impegnato nella costruzione di villette di lusso a Bocale sulle quali più volte si era concentrato l’interesse della squadra antiabusivismo. Dopo tre gradi di giudizio, vissuti in latitanza, nel 1990 l’imprenditore è stato totalmente scagionato assolto dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Giuseppe Macheda che, ad oggi, resta ancora impunito. Senza mandanti né esecutori. La tutela del paesaggio, in Calabria, richiede il suo tributo di sangue e il suo tributo di terra, condannata ad un presente di mattone su mattone, rosicchiata giorno per giorno alla bellezza.

aprile 4, 2013   Commenti disabilitati su Morire di mattone: la storia di Giuseppe Macheda

Il senso della divisa: il brigadiere Marino

Bovalino Superiore fa festa. Tutto il paese è in piazza per la Madonna Immacolata, la chiesa è addobbata, le luci per le strade rendono l’atmosefra speciale. Ma c’è qualcuno che ha un altro motivo per festeggiare. Lui si chiama Nino e ha trentatré anni e lei Vittoria e ne deve compiere trenta. Sono sposati da due anni. Hanno appena saputo che aspettano un bambino. Farà compagnia al loro primo figlio, Francesco, che ha appena un anno e mezzo. Quella sera dell’8 settembre 1990 sono in strada tutti e tre, Nino, Vittoria e Francesco. Chiacchierano con gli amici proprio davanti alla trattoria del padre di Vittoria. C’è confusione, l’allegria tiptica delle feste patronali di un paese meridionale. Nino è arrivato a Bovalino, il paese di Vittoria, da appena ventiquattr’ore. Lui, figlio di artigiani, è origianrio di san Lorenzo e da qualche tempo vive e lavora a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. Ha preso un paio di giorni di ferie: alla festa della Madonna non ci vuole proprio rinunciare. E poi ha appena ritirato le analisi di Vittoria. Non le ha ancora aperte, le vuole leggere assieme a sua moglie. Scoprono insieme che Vittoria aspetta un figlio da tre mesi. Un’emozione che non si può descrivere. Nino è un brigadiee dei carabinieri. Uno di quelli che macinano chilometri e controlli, che scrivono pagine e pagine di informative piene zeppe di di notizie, uno di quelli che la ‘ndrangheta proprio non li può vedere. Ma la sera della festa, di boss e picciotti, traffici e sequestri di persona non vuole sentire parlare. E’ a Bovalino per fare festa con la sua famiglia. Sono lì, uno di fianco all’altro, Nino, Vittoria e Francesco. In mezzo alla gente. A divertirsi. E’ passata da poco la mezzanotte quando all’improvviso un uomo con il volto scoperto si nasconde tra la folla e spara. Otto colpi di una pistola con caricatore doppio. E’ un professionista e mantiene il sangue freddo. Scatena il panico. La gente corre a ripararsi e nascondersi. Ci sono centinaia di persone che corrono. Tutti capiscono presto che l’obiettivo era la famiglia di Nino. Sono tutti a terra, uno accanto all’altro, Nino, Vittoria e Francesco. Sotto gli occhi increduli di mezzo paese. Il silenzio è spettrale, l’aria rarefatta. Il giovane carabiniere è stato colpito all’addome, al torace e alla spalla, Vittoria ha una frattura di tibia e perone, il piccolo Francesco è stato colpito di striscio al ginocchio.
Vengono portati in ospedale a Locri. Nino viene subito operato, i medici tentano di bloccare l’emorragia. Sei ore di intervento sembrano salvargli la vita e nelle prime ore del mattino i medici sono prudenti ma ottimisti. Tutti tirano un cauto sospiro di sollievo. Poco dopo le tredici, la situazione precipia e il brigadiere dei carabinieri Antonio Marino viene dichiarato morto. Danno venticinque giorni di prognosi a sua moglie, Rosa Vittoria Dama, che nonostante il dolore, la paura e la ferita tiene dentro di sé il bambino. Se la cava con dieci punti e viene subito dimesso il piccolo Francesco.
Dalla notte iniziano subito le indagini, partono rastrellamenti, perquisizioni, decine di persone vengono sottoposte all’esame dello stub per vedere se hanno addosso tracce di polvere da sparo. L’attenzione degli inquirenti, guidati dal sostituto procuratore di Locri Ezio Arcadi si concentra subito su Platì. Dal 1983 fino a due anni prima, Nino Marino ha lavorato nel paese dei sequestri e le sue informative sono di quelle dettagliate e pesanti. La cosa deve essere arrivata anche all’orecchio dei boss che – sia sa – hanno entrature dappertutto e che comunque riconoscono subito poliziotti e carabinieri da cui guardarsi. E il lavoro di Marino ha portato i suoi frutti proprio in quei mesi.
Torna subito alla mente l’assassinio del comandante della stazione di San Luca Carmine Tripodi, ma gli investigatori ricordano anche che Marino è stato trasferito da Platì nel 1988, dopo che i militari dell’Arma avevano subito un agguato pesantissimo: una camionetta era stata presa a colpi di lupara per segnare che l’attività investigativa – diretta da Marino – stava dando fastidio. Il trasferimento però non significa che Marino non abbia continuato a dare la caccia ai boss dell’Anonima sequestri, né si può tralasciare San Ferdinando, un paese caldo che sta a metà strada tra Gioia Tauro e Rosarno.
C’è agitazione nella Locride. Nel giro di pochi giorni c’è stato un attentato fallito all’assessore democristiano del comune di Locri Federico Fazzari, mentre il giorno dopo, con il consiglio in seduta, sono state sparate raffiche di mitra contro il municipio. E se ancora non bastasse per capire che in Calabria c’è un allarme in corso, il resto lo fa il vescovo Antonio Ciliberti – da poco minacciato dai clan, che hanno anche preso a caolpi di fucile caricato a pallettoni la porta dell’episcopio di Locri e dato alle fiamme il cinema adibito a centro sociale dei gesuiti. Ciliberti lancia pesanti parole di accusa contro i clan, poi parla della morte di Marino: "Il sangue dei martiri è sangue di speranza e quindi di liberazione del mondo". Nella chiesetta per i funerali c’è anche Vittoria. E’ uscita dall’ospedale ed è arrivata per l’ultimo saluto a suo marito in sedia a rotelle. Gli fa una promessa: il bambino che porta in grembo si chiamerà Nino, proprio come lui. Decide con gli altri familiari di Nino che serve un geste eclatante per protestare contro lo stato di abbandono in cui vive il Sud e che ha portato alla morte del marito. Per questo decide di rispedire al Quirinale la corona di fiori inviata dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Intanto i carabinieri, ancora una volta, sono costretti a piangere una loro vittima e a promettere giustizia e impegno immutato. Lo fanno con il comandante generale Antonio Viesti, che fuori dalla chiesa, in mezzo a una folla di colleghi e amici di Nino, dice a chiare lettere: "Sia ben chiaro, l’Arma non si arrende, non abbassa la guardia. Siamo qui per testimoniare non solo la solidarietà al dolore dei familiari di Marino, ma anche per ribadire che l’impegno dell’Arma non subirà alcun freno per quanto è accaduto". Alla fine dei funerali, i colleghi commossi di Nino portano la bara a spalla per le vie di Bovalino verso il cimitero del paese.
E mentre le indagini vanno a rilento, una strana polemica si abbatte sulla storia di Nino Marino. La portano in Parlamento quattro radicali. Chiedono ai ministri dell’Interno, della Giustizia e della Sanità se sono a conoscenza di come sono andate le ultime ore di vita del brigadiere. Secondo i deputati ci sarebbero stati ritardi tra il ricovero del graduato nell’ospedale di Locri e l’inizio dell’intervento chirurgico. Ciò perché un ufficiale dei carabinieri, presentatosi in ospedale, "dichiarava, pur informato della necessità di provvedere con la massima urgenza all’operazione, che intendeva trasferire altrove il sottoufficiale ferito". Di fronte all’insistenza dei medici, tra cui il primario Pasquale Tavernese, "l’ufficiale", si legge nell’interrogazione, "presentava ai sanitari il dottor Galasso. primario del reparto chirurgia d’urgenza dell’ospedale di Siderno, sostenendo che il prefetto di Reggio calabria lo aveva designato per fare l’operazione". Tavernese e il suo staff "facevano presente l’evidente illegittimità di tale imposizione", ma di fronte all’urgenza finivano per accettarla. Per i parlamentari, tali fatti avrebbero ritardato l’intervento di un’ora e un quarto.
Oscar Luigi Scalfaro nel 1993 concede la medaglia d’oro al valor civile al brigadiere Marino. È l’unica onorificenza che lo Stato ha riconosciuto a Vittoria, Francesco e Nino. Nello stesso anno, Vittoria – che vive ancora in Calabria – ha ricevuto la visita del nuovo comandante generale dei carabinieri, il generale Luigi Federici. La svolta nelle indagini avviene solo dopo molti anni. E avviene nella lontana Modena. Il 23 ottobre 2006, la DIA arresta Giuseppe Barbaro, di cinquantotto anni, detto «u nigru». È considerato un boss, è considerato il mandante dell’omicidio del brigadiere Nino Marino. L’hanno trovato davanti al centro oncologico insieme alla moglie e alla figlia, dove stava andando da alcune settimane per sottoporsi a delle cure. Con lui, nel processo che si è aperto nel gennaio 2010, sono imputati anche Francesco Barbaro di ottantatré anni, Giuseppe Barbaro di cinquantacinque e Antonio Papalia di cinquantasei. Sono tutti e quattro di Platì. È stato il collaboratore di giustizia Antonio Cuzzola a chiamarli in causa parlando con il pm Mario Andrigo. Addebita al periodo in cui Marino era a Platì le ragioni che hanno portato i boss a decidere la sua morte.

ottobre 3, 2011   Commenti disabilitati su Il senso della divisa: il brigadiere Marino

Demetrio Quattrone e Nicola Soverino, un mistero lungo 20 anni

Reggio Calabria – I numeri 143 e 144. Il 29 settembre 1991, scrivendo dell’omicidio dell’ingegnere Demetrio Quattrone e del medico Nicola Soverino, tra una nota biografica e un dettaglio sulle modalità dell’agguato, i giornalisti danno conto anche della loro posizione nell’elenco dei morti ammazzati di quell’anno. Dopo sei anni di guerra di ‘ndrangheta e i circa 700 “caduti”, quella della contabilità delle vittime, e del suo quotidiano aggiornamento, era diventata, a Reggio Calabria, quasi un’incombenza burocratica. In città non lo immagina nessuno che il 9 agosto 1991, poco più di un mese prima, con l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti erano state gettate le basi per la pace tra le cosche reggine. Nel settembre 1991 Reggio resta ancora una città in guerra, emotivamente anestetizzata dall’orrore visto e patito.

I numeri 143 e 144, però, sono numeri strani. Numeri che non ti spieghi dicendo “è la guerra”. L’ingegnere Demetrio Quattrone ha 42 anni, una fama di professionista inflessibile, un importante incarico di funzionario all’Ispettorato provinciale del Lavoro dove coordina la delicata attività di controllo nei cantieri edilizi. Non meno impegnativo il suo compito di consulente tecnico presso i Tribunali di Reggio, Palmi e Locri. Ama le cose fatte bene. E’ rigoroso, puntiglioso. Vive con la moglie Domenica Palamara e i tre figli – Rosa, Antonino e Maria Giovanna – nel mulino di proprietà del suocero ristrutturato tra gli agrumeti di Villa San Giuseppe, nella zona nord di Reggio Calabria. Ha da poco comprato un’auto nuova, una Bmw 520. Ma la sera del 28 settembre 1991, per le strade del quartiere, non la sta guidando lui perché ha mal di denti.
Al volante c’è Nicola Soverino, un medico di 30 anni che a Roma si è specializzato in omeopatia e a Reggio, dov’è nato e tornato, vive con i genitori nel rione Sbarre e presta servizio presso la guardia medica di Gallico. Sono amici da tempo, il medico e l’ingegnere. E, con la barba nera entrambi, si somigliano pure. Quando imboccano via Mulino, una stradina stretta e buia che in mezzo agli aranceti conduce a casa Quattrone, sbagliarsi è facile. I primi colpi di fucile caricato a pallettoni sono indirizzati tutti contro l’autista. Soverino resta fulminato al volante. Di aver sbagliato bersaglio i due killer lo capiscono quando l’ingegnere, tentando una disperata fuga, aprirà lo sportello del passeggero gettandosi a terra tra l’automobile e un muretto basso. I primi ad arrivare, dopo una telefonata allarmata della moglie di Quattrone che ha avvertito il rumore degli spari, lo troveranno disteso in quella posizione, ucciso a colpi di pistola 7,65.

Il vero obiettivo – l’ingegnere – e il “danno collaterale” – l’amico medico. Entrambi incensurati, entrambi lontani da ambienti criminali, entrambi stimati. Il rebus dell’omicidio Quattrone-Soverino appare subito complesso. Tanti i filoni da scandagliare per i sostituti procuratori Vincenzo Pedone e Santi Cutroneo, titolari dell’inchiesta. Ci sono i controlli sui cantieri edilizi coordinati da Quattrone i cui colleghi, in segno di protesta e solidarietà, si asterranno per una settimana dalle missioni in esterno. Ma non solo. Sui titoli di quei giorni campeggia spesso l’Aurion, una società di consulenza e progettazione fondata dal big calabrese della Dc Franco Quattrone, più volte parlamentare e sottosegretario, a quel tempo segretario regionale del partito e cugino di secondo grado dell’ingegnere. Dall’Aurion, di cui deteneva una piccola quota societaria e per la quale aveva svolto anche il ruolo di tecnico, Demetrio Quattrone si era però allontanato negli ultimi mesi, manifestando più volte l’intenzione di risolvere definitivamente il rapporto. Dalla sede in viale Calabria della società (che risponderà piccata tramite comunicato stampa) saranno sequestrati alcuni documenti, ma la pista non porterà a nulla, proprio come gli approfondimenti sugli interessi dell’ingegnere nel campo della cooperative edilizie nelle zone di Arghillà e Pentimele. L’omicido dei due professionisti resta tuttora senza colpevole.

settembre 26, 2011   Commenti disabilitati su Demetrio Quattrone e Nicola Soverino, un mistero lungo 20 anni

Congiusta, verità e giustizia per Gianluca

Una giornata storica per la Calabria: hanno un volto gli assassini di Gianluca Congiusta, il giovane commerciante di Siderno ucciso il 25 maggio 2005. Dopo cinque anni arrivano le condanne di primo grado: ergastolo per Tommaso Costa e 25 anni a Giuseppe Curciarello. Questa è la sentenza letta oggi dal presidente Bruno Muscolo nell’aula del Tribunale di Locri – affollata da tanti amici di Gianluca e della sua famiglia che non resteranno mai soli – che ha accolto la richiesta del pm Antonio De Bernardo.
La sentenza del tribunale di Locri di stasera è una decisione necessaria per la famiglia di Gianluca, che premia la straordinaria battaglia di civiltà condotta dal padre Mario e dai suoi familiari in cinque anni difficili, spesso in solitudine, a chiedere di non dimenticare e di non spegnere la luce. Una sentenza che restituisce forza e vigore al movimento anti-‘ndrangheta, in questo momento difficile per il territorio calabrese, per le istituzioni, per la politica, per le forze sociali, per i cittadini.
Ma la sentenza di oggi a Locri è di straordinaria importanza per tutta la Calabria. Sono davvero troppe le morti dimenticate, che non hanno avuto verità dalla storia, che non hanno avuto giustizia nelle aule dei tribunali. Una vergogna – denunciano ancora una volta daSud e Stopndrangheta.it – che pesa come un macigno insopportabile sulla Calabria e che rappresenta una responsabilità gravissima per le classi dirigenti del Paese. Una situazione indegna: troppi familiari e troppi onesti in questi anni sono stati offesi e umiliati dallo Stato che li avrebbe dovuti tutelare, persino da troppi calabresi colpevolmente distratti o peggio complici. La sentenza di condanna per l’omicidio di Gianluca Congiusta può essere quindi la scossa necessaria e la scintilla che produce un nuovo inizio. Che restituisca finalmente dignità ai calabresi onesti. La serata di oggi dell’associazione daSud e di Stopndrangheta (a Roma, nello Spazio daSud, in via Gentile da Mogliano 170) assume un nuovo significato: saranno dedicati alla memoria di Gianluca Congiusta il concerto del cantautore Carmine Torchia e la festa di Natale. Nasce la serata “Gianluca Congiusta, ragazzo”. Un piccolo gesto per ricordare Gianluca, sottolineare l’importanza della sentenza e ribadire ancora una volta – come è stato fatto oggi in aula del tribunale a Locri e qui a Roma – che la famiglia di Gianluca non resterà mai sola.
daSud onlus – Stopndrangheta.it

dicembre 18, 2010   Commenti disabilitati su Congiusta, verità e giustizia per Gianluca

Don Giuseppe Giovinazzo, morte all’ombra di Polsi

Potrebbe essere legata al rapimento Casella la morte di don Giuseppe Giovinazzo. Il parroco di Moschetta di Locri è stato decapitato a colpi di fucile e pistola il 1° giugno 1989 nei pressi del santuari di Polsi (San Luca d’Aspromonte), luogo di culto religioso e ritrovo annuale del summit ‘ndranghetista. Don Giovinazzo si occupava della processione rituale che si celebra ogni anno nel settembre (era economo aiutante del responsabile del santuario don Giosafatte Trimboli), e che vede migliaia di pellegrini, ma anche decine di boss, affluire in pellegrinaggio in Aspromonte per rendere omaggio alla Madonna della Montagna. Il 31 ottobre 1985 aveva celebrato le nozze dell’allora latitante Giuseppe Cataldo di Locri. Intervistato dalla «Gazzetta del Sud» sulla vicenda, aveva detto che «non sono tenuto a sapere i carichi pendenti e chiedere il cartellino penale a chi si sposa. Non rientra nella missione sacerdotale». Don Giovinazzo insegnava religione alle medie di Locri e, sposalizio del latitante a parte, non aveva mai fatto parlare di sé. La pista principale seguita dagli inquirenti, senza però frutto, è quella dei sequestri di persona: grazie al suo ruolo a Polsi, si sarebbe adoperato per la liberazione di Cesare Casella. Don Giovinazzo aveva incontrato la madre di Casella durante il suo viaggio calabrese. Il suo omicidio è rimasto impunito. Non è il primo prete fatto fuori in Calabria: il 4 luglio del ’66 a Cirella fu ammazzato il parroco di Ciminà don Antonio Esposito, originario di San Luca, probabilmente nell’ambito di una faida. Era un prete molto attivo politicamente, imparentato con la famiglia Strangio. Avrebbe dovuto celebrare quel giorno una messa in ricordo del boss Francesco Barillaro, eliminato un mese prima. Don Esposito possedeva regolarmente una pistola, e la portava sempre con sé.

settembre 16, 2010   Commenti disabilitati su Don Giuseppe Giovinazzo, morte all’ombra di Polsi

Carmine Tripodi, 24 anni, carabiniere a San Luca

SAN LUCA – La lista comprende due monsignori, un avvocato e un medico. Poi spunta Carmine Tripodi, con la licenza media e la divisa indossata a 17 anni forse più per avere un mestiere che per seguire una vocazione. Quando a 20 anni lo spediscono in Calabria, non se lo immagina neppure che un giorno finirà infilato pure lui tra i personaggi illustri di Torre Orsaia, il suo paese piccolo piccolo nelle campagne del Salernitano. A come verrà ricordato da morto, un ventenne di solito non pensa, soprattutto quando c’è da lavorare e poco tempo per pensare. Nel 1980 a Bianco, dove sbarca fresco di scuola allievi sottoufficiali, è già tanto se si riesce a mangiare e dormire. Il giovane brigadiere è capo equipaggio del Nucleo operativo e radiomobile. In pratica è sempre sulla strada, lungo la statale 106 che unisce i paesi della costa jonica reggina, e poi lungo le provinciali, le comunali e pure le mulattiere ché per raggiungere Casignana, Motticella, Ferruzzano e Caraffa del Bianco il tragitto non sempre è facile, specie d’inverno quando il cielo la manda di santa ragione e pure i paesi sembrano scivolare a mare. Solo che le prigioni dei sequestrati li devi cercare per forza lì, in mezzo agli ovili, dentro le grotte scavate nella terra dura dell’Aspromonte e non sempre le trovi vuote. Carmine Tripodi lo impara presto. E’ in Calabria da 5 mesi quando il pensionato 76enne Silvio De Francesco, rapito a Bovalino il 7 ottobre 1980, viene trovato morto quattro giorni dopo il sequestro. E poi c’è il pensiero tormentoso dei bambini: di Giovanni Furci, 9 anni, la famiglia di Locri non ha notizie da mesi (la sua prigionia durerà 213 giorni); il piccolo Alfredo Battaglia, 13 anni, alla sua casa di Bovalino è tornato dopo 115 giorni. La lista dei desaparecidos, a scorrerla con attenzione, è praticamente infinita: ci sono i sequestrati calabresi (11 nella sola Bovalino) e ci sono i sequestrati che potrebbero essere finiti in Calabria. Insomma, se nel 1980 sei brigadiere dei carabinieri a Bianco, hai in una mano l’elenco degli scomparsi e nell’altra quello delle famiglie di ‘ndrangheta e ci provi a non confonderti tra Morabito, Palamara, Strangio, Pelle e Vottari. L’8 gennaio 1982, il giorno in cui entra nella caserma di San Luca come comandante interinale, Carmine le idee le ha già un po’ schiarite: qualcuno vedendolo passare per le vie del paese di Corrado Alvaro pensa che il ragazzo è stato mandato come una pecora in mezzo ai lupi, ma lui pecora non ci si sente.

Il mestiere è mestiere, e la cosa non cambia pure se ti sbattono a San Luca dove, se porti una divisa da carabiniere, fingono di non vederti e poi sputano a terra dopo passi, e dove nella faccenda dei sequestri ti sembrano implicati pure donne, vecchi e bambini. Sul tavolo di Carmine i fascicoli sono tanti: c’è la storia di quell’ingegnere napoletano, Carlo De Feo, rapito a Casavatore nel gennaio del 1983 e liberato un anno dopo a Oppido Mamertina, ci sono le nuove indagini sul sequestro del "re delle pellicce", Giuliano Ravizza, c’è la sensazione, forte, che tutti sappiano e ci guadagnino su. Il brigadiere fa sopralluoghi, sorveglia, indaga. Tiene d’occhio soprattutto l’universo multiforme degli Strangio, con particolare riguardo per i figli di quel "Ciccio Barritta" in carcere per il sequestro Ravizza. Quando nel giugno del 1984 a San Luca scatta la retata contro i presunti responsabili del rapimento di Carlo De Feo, sono i poliziotti ad ammanettare, tra gli altri, Antonio, Domenico, Sebastiano e Salvatore Strangio (gli indagati per il sequestro sono 39) ma che dietro il blitz ci siano le indagini del brigadiere nessuno lo ignora. Stessa storia per i nuovi arresti sul sequestro Ravizza. Il 5 febbraio 1985 Carlo De Feo torna a San Luca con il magistrato napoletano Armando Lancuba, il giudice istruttore Guglielmo Oalmeri e gli avvocati di parte. "Eravamo con una piccola colonna di camionette dei carabinieri, i nostri spostamenti facevano fracasso e sollevavano polverone. Ma era come se non ci fossimo", ricorderà qualche anno dopo Lancuba. L’ingegnere riconosce luoghi, ricorda situazioni. Vengono sequestrato ovili e arrestati presunti fiancheggiatori. Carmine è in testa alla colonna, al fianco di De Feo.

Forse la sera del 6 febbraio 1985, sulla provinciale che da San Luca porta alla marina, il brigadiere non sta pensando al mestiere. Tra un mese si sposa. La sua fidanzata, una maestra di Bianco, lo sta aspettando a casa. Altro che sequestri, Strangio e ‘ndrangheta. Sono le 21.00 e Carmine pensa al futuro. Quando qualcuno lo blocca sulla provinciale, forse capisce di non averne più. Ma il mestiere è mestiere, pure se in trappola dentro la Fiat 132 gli sparano addosso con un fucile caricato a pallettoni e una pistola, e allora il brigadiere afferra l’arma d’ordinanza e risponde, e magari prima di morire fa pure in tempo a vedere che ne ha ferito uno. Fortunatamente è già morto quando per spregio gli urinano addosso e i pochi al suo funerale attraversano il paese come "fantasmi".

Per Carmine non paga nessuno. Qualche giorno dopo l’agguato vengono sottoposti a fermo di polizia giudiziaria il 18enne Domenico Strangio (ancora minorenne all’epoca dell’omicidio), il 23enne Rocco Marrapodi e il 25enne Salvatore Romeo (nel 1990 sarà ucciso nella strage di Luino). Per gli inquirenti sono i componenti del commando che ha ammazzato il brigadiere Tripodi. Altre 8 persone vengono indagate per favoreggiamento. Tra l’86 e l’89 tutti verranno assolti dalle accuse contestate mentre la lapide che la fidanzata ha voluto eretta sul luogo dell’agguato, a 3 chilometri dal centro di San Luca, sarà ripetutamente danneggiata. A Torre Orsaia, invece, il 24enne torna in una bara con la medaglia d’oro al valore militare che lo spedisce di diritto nell’elenco dei cittadini illustri. "Comandante di Stazione distaccata, già distintosi in precedenti operazioni di servizio contro agguerrite cosche mafiose, conduceva prolungate, complesse e rischiose indagini che portavano all’arresto di numerosi temibili associati ad organizzazioni criminose, responsabili di gravissimi delitti. Fatto segno a colpi di fucile da parte di almeno tre malviventi, sebbene mortalmente ferito, trovava la forza di reagire al proditorio agguato riuscendo a colpirne uno, dileguatosi poi con i complici. Esempio di elette virtù militari e di dedizione al servizio spinto fino al sacrificio della vita". Se potesse, Carmine, lo spiegherebbe che stava facendo solo il suo mestiere.

novembre 9, 2009   Commenti disabilitati su Carmine Tripodi, 24 anni, carabiniere a San Luca

“Navi a perdere, riaprire le indagini sulla morte di Natale De Grazia”

http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_572.pdf

ottobre 2, 2009   Commenti disabilitati su “Navi a perdere, riaprire le indagini sulla morte di Natale De Grazia”