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Gli omicidi di Macheda e Marino: rassegna stampa

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giugno 27, 2014   Commenti disabilitati su Gli omicidi di Macheda e Marino: rassegna stampa

La strage di Razzà – i giornali

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aprile 29, 2014   Commenti disabilitati su La strage di Razzà – i giornali

Appello per Rossella uccisa dalla ‘ndrangheta

Non c’è stata giustizia per Rossella Casini, la studentessa fiorentina che scomparve a Palmi, in Calabria, il 22 febbraio 1981 e non è mai stata ritrovata. Non c’è stata giustizia sebbene nel 1994 un pentito, Vincenzo Lo Vecchio, ritenuto per altre circostanze "di sicura attendibilità", avesse raccontato che era stata rapita, violentata, interrogata, uccisa, fatta a pezzi e fatta sparire. Dopo un processo che si è trascinato stancamente per nove anni, gli imputati sono stati assolti. Fra di loro Francesco Frisina, appartenente – secondo le accuse – alla famiglia di ‘ndrangheta dei Gallico – Frisina, già studente di economia a Firenze, già fidanzato di Rossella. Che se ne era innamorata nel ’78 cacciandosi così, inconsapevolmente, in un groviglio di vipere. E che aveva tentato invano di sottrarlo a un destino di faide e di violenza, diventando in tal modo una "mina vagante" per la famiglia mafiosa. Rossella era figlia unica. Era nata il 29 maggio 1956 a Firenze e abitava Borgo la Croce 2. Studiava psicologia all’Università di Firenze. Dopo la sua scomparsa i suoi genitori sono morti di dolore uno dopo l’altra. Di lei non è stata trovata neppure una foto. Francesca Chirico la ricorda nel libro "Io parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta" (Castelvecchi 2013). Libera, la associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti, le ha intitolato il presidio di Viareggio. Ma neppure Libera ha una foto di Rossella. Allora Repubblica Firenze ha deciso di lanciare un appello a tutti coloro che l’hanno conosciuta: trovate una fotografia di Rossella.

aprile 11, 2013   Commenti disabilitati su Appello per Rossella uccisa dalla ‘ndrangheta

Delitto Congiusta, ergastolo confermato in Appello

Anche per i giudici della Corte d’Appello di Reggio Calabria l’omicidio di Gianluca Congiusta, il giovane commerciante di Siderno assassinato nel 2005, porta la firma di Tommaso Costa. Nella serata di ieri, e dopo oltre sette ore di camera di consiglio, il boss di Siderno si è vista confermare la pena dell’ergastolo già comminata dalla Corte d’Assise di Locri il 18 dicembre 2010. Ridotta invece da 25 a 15 anni di reclusione la condanna di Giuseppe Curciarello, giudicato responsabile di associazione a delinquere di stampo mafioso, ma assolto dall’accusa di traffico di droga. “Giustizia è fatta. La condivido con chi non l’ha ancora avuta. Ora la mia speranza è che non si spari più”, le prime parole di Mario Congiusta, il papà di Gianluca, che ha atteso la lettura della sentenza al fianco della moglie Donatella, delle figlie Roberta ed Alessandra, e di decine di rappresentanti del mondo associazionistico convenuti presso il Tribunale di piazza Castello per testimoniare vicinanza e solidarietà ai familiari del ragazzo di Siderno.

Trentadue anni, gestore di alcuni negozi di telefonia mobile, impegnato nello sport e in numerose attività sociali, Gianluca Congiusta fu ucciso la sera del 24 maggio 2005, mentre rientrava a casa dal lavoro. Il ragazzo, completamente estraneo agli ambienti della criminalità organizzata, venne freddato con due colpi di fucile caricato a pallettoni mentre si trovava alla guida della sua Bmw, in una zona periferica della città. La polizia stradale lo trovò riverso sul volante, lo stereo ancora acceso. Un omicidio apparentemente incomprensibile su cui proprio la caparbia battaglia di Mario Congiusta, protagonista di scioperi della fame e manifestazioni di piazza per chiedere verità e giustizia, non ha mai permesso che si spegnessero i riflettori.

Fino alla svolta del 9 gennaio 2007, giorno in cui il quarantottenne Tommaso Costa ha ricevuto in carcere un’ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di essere il mandante e l’esecutore materiale, in concorso con altre persone non ancora identificate, dell’omicidio di Gianluca Congiusta. Tre fratelli uccisi nella lunga faida contro i Commisso per il controllo criminale della città, scarcerato nel marzo 2005 per effetto dell’ “indultino” e poi uccell di bosco per sfuggire ad una condanna divenuta definitiva, Tommaso Costa era stato catturato solo poche settimane prima, mentre si stava freneticamente “spendendo” nel tentativo di rialzare le quotazioni della “famiglia”, ritagliandosi nuovi spazi di influenza.

Sarebbe stato questo scenario criminale fluido e pericoloso a condannare Gianluca Congiusta, deciso ad intervenire in favore del futuro suocero Antonio Scarfò, un imprenditore cui Tommaso Costa aveva indirizzato dal carcere di Palmi una lettera con richieste estorsive. Proprio l'”intromissione” di Congiusta e il timore che i Commisso potessero scoprire il rinato attivismo dei vecchi rivali, scatenando una feroce reazione, avrebbe armato la mano del boss. “L’omicidio di Gianluca Congiusta – spiegavano nelle motivazioni della sentenza di primo grado i giudici della Corte d’Assise di Locri – è stato deciso, organizzato ed eseguito da Costa Tommaso, ed è un delitto tipicamente mafioso non solo per le sue modalità esecutive ma anche e soprattutto per il concorso di pre-elementi (punitivo, estorsivo e strategico), funzionali alla riaffermazione del potere criminale del risorto sodalizio Costa, potere che non poteva prescindere dal manifestarsi e imporsi nei confronti di chi operava economicamente proprio nelle immediate vicinanze delle case dei Costa”. Un impianto accusatorio fatto proprio, evidentemente, anche dalla sentenza di secondo grado.

aprile 11, 2013   Commenti disabilitati su Delitto Congiusta, ergastolo confermato in Appello

Trovati i resti di Lea Garofalo, testimoniò contro la ‘ndrangheta

MILANO – Ci sono storie così drammatiche che anche la scoperta del cadavere
carbonizzato della propria madre può diventare, se non certamente un
lieto fine, un inizio di pacificazione con la vita, un’occasione per
girare pagina e cominciare a guardare al futuro. Questa che raccontiamo è
la storia di Denise, una ragazza calabrese che compirà 21 anni in
dicembre e che, da poche ore, ha saputo che potrà finalmente avere un
funerale per la mamma – che sapeva uccisa da suo padre tre anni fa – e
una tomba sulla quale portare un fiore. È una storia che merita di
essere raccontata anche perché pochi sanno veramente a quale punto di
ferocia arrivi la criminalità organizzata. La ‘ndrangheta, in questo
caso.

Come molte tragedie, anche questa comincia con una storia d’amore.
Quella fra Lea Garofalo e Carlo Cosco, due giovani calabresi. Lei
diventa mamma quando ha solo diciotto anni. La bambina viene chiamata
Denise. Vanno a vivere a Milano. Lui lavora, ma ha pessime compagnie e
diventa in poco tempo un piccolo boss nel mercato dello spaccio di droga
a Quarto Oggiaro, un quartiere popolare. Lea cerca di fargli cambiare
vita. Ma invano. Nel 2002 dopo aver sopportato tutto per amore della
figlia, decide, per coraggio e per disperazione, di collaborare con la
giustizia. Racconta di un omicidio; del traffico di droga nella zona di
piazza Baiamonti; delle trame milanesi del clan dei crotonesi. Entra nel
«programma di protezione»: vive nascosta, con la scorta e sotto falso
nome. Ma gli anni passano senza risultati. Le sue dichiarazioni vengono
quasi dimenticate. Il convivente continua a fare quello che ha sempre
fatto. E a Lea manca Denise, la figlia adorata. Così, rinuncia al
programma di protezione. Torna a vivere allo scoperto.

Il 5 maggio del 2009 Carlo Cosco scopre che lei abita a Campobasso e
manda un suo uomo per ucciderla. Ma Lea è con la figlia, le due donne
reagiscono, il killer fugge. Carlo insiste. È così abile da
riconquistare la fiducia di Lea. La chiama a Milano: «Dobbiamo parlare
della nostra adorata Denise». Lei accetta.

È il 24 novembre del 2009. Lea e Denise arrivano dalla Calabria, e
c’è una telecamera di un impianto di sicurezza che fissa il loro arrivo
all’Arco della Pace, in fondo a corso Sempione, una zona elegante, bei
bar e bei negozi. Carlo Cosco arriva e, con una scusa, separa le due
donne. Denise viene mandata a cena da un parente. Si lascia con la mamma
con un accordo: «Ci vediamo alla stazione centrale alle 23», quando
parte il treno che le deve riportare in Calabria.

Ma Lea alla stazione non arriverà mai. Carlo Cosco, con l’aiuto di
due fratelli, la fa salire su un furgone. La tortura per sapere cosa ha
raccontato ai magistrati. Poi la uccide con un colpo di pistola. Sarà
sempre lui, poche ore dopo, ad andare con la figlia dai carabinieri a
denunciare la scomparsa.

Denise in quel momento ha solo diciassette anni. Torna in Calabria.
Non sa che fine abbia fatto la mamma. Dov’è? Immaginatevi l’angoscia.
Denise cerca il coraggio per continuare a vivere, e lo trova anche in un
ragazzo che la corteggia, le sta vicino, diventa il suo fidanzato. Ma
presto scopre che la barbarie della ‘ndrangheta è inimmaginabile: non
solo suo padre, ma anche quel suo nuovo fidanzato, che in realtà aveva
il compito di controllarla, vengono arrestati per l’omicidio di sua
mamma. Denise, che ormai sospetta anche della propria ombra, scappa al
Nord e va dai magistrati. Adesso è lei a vivere nascosta e sotto falso
nome.

Affiorano particolari dalle indagini, alcuni imputati e testimoni
dicono che Lea Garofalo, dopo essere stata uccisa, è stata sciolta
nell’acido: di lei non esiste più nulla. Il processo (primo grado)
finisce con sei ergastoli. Tutti i condannati, tra cui Carlo Cosco, sono
in carcere.

È di queste ore la svolta. Le indagini sono continuate anche dopo la
sentenza e si è scoperto che Lea Garofalo non è stata sciolta nell’acido
ma bruciata e sepolta in un campo in Brianza. Hanno già trovato le ossa
e alcuni oggetti: si attende l’esame del Dna, ma sembra certo che si
tratti proprio di Lea.

A Denise l’hanno detto l’altro giorno. Da una parte è stato come
veder morire, un’altra volta, la mamma. Dall’altra è stato come
ritrovare un abbraccio, e intravedere la fine del tunnel.

novembre 21, 2012   Commenti disabilitati su Trovati i resti di Lea Garofalo, testimoniò contro la ‘ndrangheta

“Mi appello a voi, uomini della mafia”

“Mi appello a voi, uomini della mafia, come figlio di questa terra ‘grande e amara’. Ai suoi mali antichi si sommano le vostre organizzazioni ‘di cui la ‘ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa’. Una presenza che fa pagare alla nostra terra un prezzo alto a livello sociale, economico e religioso”. Inizia così la riflessione pastorale “Mi appello a voi, uomini della mafia“, scritta dall’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, mons. Salvatore Nunnari, e che sarà consegnata alla diocesi l’8 settembre in occasione della festa patronale della Madonna del Pilerio.

Voi siete parte della morte e della menzogna. “Siete però minoranza e non rappresentate la storia e la civiltà millenaria dei nostri padri”, è l’affermazione dell’arcivescovo, che evidenzia i “segni” che distinguono queste persone: “Arroganza del potere”, “spregiudicatezza del possedere”, “animosità che acceca e annulla i vincoli di sangue” e “mancanza assoluta di rispetto per la vita e la dignità umana”. In questo contesto, spiega, “avere la presunzione di appellarvi a tradizioni religiose, come spesso fate anche cercando di prendere parte alla preparazione di feste patronali, è semplicemente assurdo. Non c’è nulla nel Vangelo di Cristo a cui voi mafiosi potete richiamarvi, anzi la vostra stessa esistenza fatta di violenza e soprusi è una contro-testimonianza allo spirito e alla norma etica della Parola di Dio”. Da qui il monito a non strumentalizzare la devozione alla Madonna e ai Santi “a cui solo cuori purificati e semplici possono accostarsi”: “Voi siete parte della morte e della menzogna” perché nel seminare morte “offendete Dio ogni giorno”.

Una forza imprenditrice del male.
Per mons. Nunnari, se il Mezzogiorno e la Calabria vivono in condizioni di “arretratezza socio-economica che conculca la speranza soprattutto delle nuove generazioni, la vostra colpevolezza è immensa”: “Quando da organizzazione criminale locale avete occupato gli spazi spesso lasciati liberi da uno Stato, a volte poco attento ai nostri problemi, avete superato i vecchi canoni e gli stessi confini nazionali diventando una vera e propria forza imprenditrice del male” che ha provocato “conseguenze deleterie sotto il profilo dell’immagine della nostra terra” e “continua a provocare la fuga degli investimenti”. L’arcivescovo cita le tante aziende costrette a chiudere e i tanti giovani che, impossibilitati a trovare un lavoro nella Regione, emigrano e “l’immagine e la cultura accogliente della Calabria degradata a terra di mafia”. Nella lettera mons. Nunnari “loda” l’azione della società civile” e il lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine che confiscano i loro beni: questo rappresenta una delle scelte di lotta più “significativa” che colpisce il malaffare e restituisce alla società ciò che “avete violentemente e illegalmente usurpato”. Ma questa “non è l’unica strada da percorrere – scrive – anche perché siete diabolicamente capaci di occultare flussi di denaro e investimenti in ogni campo”. Mons. Nunnari cita, quindi, il narcotraffico e ricorda i tanti giovani che muoiono: “La loro morte grida vendetta al cospetto di Dio della vita e dovrebbe pesare come un macigno sulla vostra coscienza”.

Il male non può essere l’assoluto.
L’arcivescovo si dice fiducioso “nell’immensa misericordia di Dio, mai stanco di amore e d’incrociare, magari attendendo, l’essere umano sulle vie tortuose della sua esistenza”. Insomma, spiega, dopo la notte, la luce. E i segnali di rinascita culturale della nostra terra ci fanno ben sperare. Il male non può essere l’assoluto nella vostra vita”: da qui l’invito ad aprire il cuore al messaggio eterno del Vangelo che è annuncio di liberazione e di salvezza e non ha nulla a che fare con le false devozioni. La Bibbia che spesso tenete tra le mani deve diventare fonte di vera riflessione e di cambiamento radicale”. Mons. Nunnari, dopo aver ricordato la figura di don Pino Puglisi, sottolinea che le Chiese meridionali hanno rivolto agli uomini di mafia l’invito alla conversione. Diversi, infatti, i documenti, come quello del 1975, dal titolo “L”Episcopato calabro contro la mafia, disonorante piaga della società”, e quello del 2007, “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”, nei quali viene indicato come primo passo la conversione personale e comunitaria “grazie ad un cambio di mentalità nel cuore e nella vita di ogni uomo e donna, di ogni famiglia, gruppo e istituzione, che permetta di rimuovere le forme di collusione con l’ingiustizia e respingere l’ingannevole fascino del peccato”. E poi l’appello di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi in Sicilia: “Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio”. “Sappiate – conclude mons. Nunnari – che anche la società sta cambiando, anzi è già cambiata e dalle rive del mare e dalle cime dei monti già s’intravede un’alba nuova. A voi scegliere da che parte stare!”.

settembre 4, 2012   Commenti disabilitati su “Mi appello a voi, uomini della mafia”

Ha il cuore di spine la festa di San Rocco

PALMI – S’era bloccata sorpresa e sbigottita di
fronte alle stampelle appese alla parete, alle teste, braccia, gambe,
piedi, mammelle, pezzi anatomici vari, ai pupazzi di bimbi, tutte
riproduzioni in cera, tutti ex voto per grazia ricevuta, tutti a merito e
a decoro della statua miracolosa di San Rocco, con corredo di cane,
accucciato a lato e con la pagnotta in bocca, mantello da viandante,
bastone, sulla gamba la piaga della peste. E alternava occhi incuriositi
tra quegli oggetti e il volto di Alberto, un gaudente un po’ attempato.
Una popolana, avanti negli anni, si frappose ostacolo di un attimo fra
quei loro sguardi. Trascinava un cero lungo una metrata e grosso quanto
il perno della pressa dei frantoi. Arrancava ansimando sotto il peso e
volgeva occhiate stizzite alla comare troppo solerte, che allungava una
mano a soccorrerla nel castigo, di fatica e di soldi, che s’era imposta
per devozione e per gratitudine.

Rosella chiese ad Alberto con uno
scuotere di testa. Alberto allargò il suo miglior sorriso – a esso, a
tante altre attenzioni e alla baldanza fisica delegava il compito di
poter sgualcire entro sera le stesse lenzuola – e "voi padani avete gli
ospedali efficienti e i medici bravi, a noi, per la salute, tocca
affidarci ai Santi, e San Rocco, benché francese, ci ha preso a cuore e
ogni tanto ci accontenta" spiegò, con sfottente ironia. In verità
Rosella con la Padania ci aveva a che fare solo perché vi viveva
dall’età di dieci anni e perché s’era applicata da subito per acquisirne
l’accento. Ma, nata, era nata lì, profondo Sud, sulla tangente alla
curva su cui si consuma il continente dopo aver sputato la Sicilia nel
mare. Ora era tornata da turista, non più Rosina ma Rosella e con quello
sciù sciù con cui, ingannando di lingua, provava a ingannare di origini
– e magari votava Lega, ne era tipo, certi paesani, pur di sbiadire il
passato, tendono a diventare i leghisti più incarogniti.

Rosella, già Rosina, sorrise quel
sorriso da aristocratica con puzza al naso, di chi assorbe le parole
senza pensarle una battuta, una deprimente realtà piuttosto, con medici e
ospedali lì ingiuriati tali, da dover contare davvero più sul Santo per
spuntare guarigioni.

Alberto sapeva forte e radicata la
devozione per San Rocco di Montpellier: sebbene avesse soccorso la peste
dell’altra Italia, era molto più venerato al Sud. Il culto era arrivato
secoli prima assieme ai soldati francesi. Essendo il Santo degli
infermi, delle partorienti, e dei carcerati – che da quelle parti,
modestamente, mai erano mancati, e tuttora non mancano – il buon Rocco
qualche merito se l’è guadagnato, intervenendo sui malati, su puerpere
difficili a sgravarsi, su carcerati con i peli sul cuore e mansi appena
con la sua mano sulla testa. Spesso gli ex voto sono ori, argenti,
preziosi, soldi. Così a Stelitanone di Laureana. E così ad Acquaro di
Cosoleto, dove i gioielli di cui adornano la statua per la processione
pesano più della statua stessa e dove il sedici agosto i devoti giungono
con il buio, a piedi scalzi, da ogni paese del circondario, dalla
Sicilia. Tra loro, i virgineji – le verginelle – carovane di giovani
donne scortate dagli uomini lungo strade asfaltate, mulattiere, viottoli
di campagna, per presentarsi al cospetto del Santo dentro il Santuario
cinquecentesco quando il giorno non ha finito di squagliare la notte e
le rondini sono in attesa che i pipistrelli sgombrino il cielo, per
impadronirsene loro. A Sarazzo, sempre sporco di lingua e non esaudito
nella richiesta di disgrazie su un vicino che troppo progrediva,
mettendo più a nudo le sue miserie, tante lisciate di pelo al Santo non
vanno giù e non salta sedici agosto senza che sbraiti, indicando la
statua, "che Santo dev’essere uno che fa un unico miracolo all’anno, per
giunta al Vescovo che non ne ha bisogno, ora, la sera della festa,
quando quello manda a prendere le offerte dei devoti?". Si guarda però
dal bestemmiarlo. Le invettive, le dirotta sul cane. A cui invece si
affida Peppino, convinto che, stando sempre accucciato ai piedi del
Santo, un po’ di santità gli si è appiccicata addosso e che, non avendo
clientela, magari accontenta lui.

Anche Alberto avrebbe dovuto chiamarsi
Rocco, come il nonno paterno e come il Santo. Gli era invece toccato
quel nome sofisticato di cui s’era vergognato da ragazzo, tra i tanti
abituali e immutabili Rocco, Pasquale, Peppe, Mico, Ntoni. Non era stato
Rocco perché il Santo non aveva saputo meritarselo quando, nella terra
seccagna, il padre, per non dover attendere il turno dell’acqua –
incanalata dal Comune e che erano più le volte che non giungeva al suo
podere, strozzata da Simiggio, scarso di parole ma facile di coltello –
si era deciso a impiegare i faticosi risparmi per un pozzo. Aveva
attaccato al fusto del fico a ridosso della trivella una grande immagine
del San Rocco d’ordinanza, completo cioè di cane, mantello e bastone,
da non dargli scuse per sottrarsi. Ogni sera, l’uomo di fiducia e di
fatica gli comunicava, già prima di smontare dalla bicicletta, la
profondità a cui erano giunti e il risultato che non arrivava e nemmeno
si faceva immaginare vicino. "Cinquanta metri e acqua niente", "settanta
e acqua niente", "ottanta e acqua niente" porgeva mesto, quasi ci
fossero colpe sue. Ai "cento e acqua niente", il padre di Alberto, ormai
debole di tasche, scoraggiato e vicino alla bestemmia addosso al Santo
indifferente, "ma il quadro di San Rocco è sempre lì, bene in vista?"
chiese. Non gli veniva da credere a un simile tradimento, e non lo
digeriva, dopo una devozione che in famiglia durava da generazioni.
L’uomo, "non è c…zo di San Rocco. A mano sua, acqua non ne troviamo"
sbottò serio. Corresse subito però – non si poteva mai sapere con i
Santi, buoni e cari, miracolosi a volte, ma che, se s’incazzano… – e
"non ci ha competenza. San Rocco è il santo delle partorienti, degli
ammalati, dei carcerati. Che ne può sapere di acqua? Per l’acqua si deve
ricorrere a San Venanzio, non per niente lo chiamano l’acquaiolo"
addolcì.

Poi San Venanzio – ne avevano dovuto
scomodare di preti, monache e paucciane per trovare un’immaginetta! –
certo punto sul vivo per una competenza sua e invece a lungo affidata al
collega, li aveva castigati di altri venti metri di profondità prima di
far gorgogliare l’acqua.

A Palmi, siccome un po’ di sangue greco
scorre ancora nelle vene, qualche ex voto è in terracotta. Uno fu una
grossa catena con le manette alle estremità, in argento, intorno ai due
chili di peso, si mormorò per il miracolo spuntato da una mamma di
vedere assolto il figlio da un omicidio di cui pure gli scarafaggi
merdaioli lo sapevano colpevole.

Anche le donne delle famiglie coinvolte
in faide si rivolgevano al Santo, per farsi preferire. Voti pesanti, i
loro, per le vite dei congiunti e per la morte dei nemici. È capitato
che andassero a chiedere grazia entrambi i gruppi in guerra, confondendo
così il buon San Rocco.

Spettacolo a parte, i penitenti. Nella
processione di Palmi, la più suggestiva, appresso alla statua sfilano
gli spinati, a torso nudo e sotto una cappa di rovi con lunghe spine che
penetrano le carni. Procedono scalzi, talvolta a ginocchioni, per una
grazia già spuntata, e che ha mutato la loro vita da così a così, per
una da ottenere, per sola devozione. È sofferenza, che emula quella del
Santo quando soccorse la peste, contraendola lui stesso e rifugiandosi
in una capanna, dove lo assistette un cane – gli portava ogni giorno un
tozzo di pane sottratto al nobile padrone, apposta la pagnotta in bocca.
La forma a campana dell’involucro spinoso, dalla testa fino alla
cintola, rappresenta la capanna dove riparò.

A Palmi, la processione aveva un obbligo
di fermata davanti al vecchio carcere, dove i detenuti si accalcavano,
da poter spremere olio, dietro le sbarre, per vedere il loro Santo.
Ovunque, per l’onorata società la sfilata di San Rocco era un’occasione
per mettersi in mostra. Gli ‘ndranghetisti a condurre la statua
prendendo a spalla sotto le assi in legno di sostegno, mentre il
capobastone, spalle al prete, faccia al Santo e ai portatori e mani
sulla punta delle travi, esibiva il rango nel compito inutile di non
farla sbandare, di farla procedere diritta e con il giusto ritmo.
Un’indecenza. Che, per fortuna, è finita: non conviene più mostrare
l’appartenenza, i 416 bis fioccano di questi tempi. E tuttavia San Rocco
avrebbe potuto accorgersene lui per tempo e cacciarli invece di lasciar
fare tanto a lungo.

agosto 15, 2012   Commenti disabilitati su Ha il cuore di spine la festa di San Rocco

L’autore delle “Canzoni della malavita” minaccia Francesca Viscone

Reggio Calabria – È entrato nel Museo della ‘ndrangheta di Reggio Calabria in un tardo pomeriggio di fine maggio e ha minacciato gli operatori presenti e la giornalista freelance (e insegnante) Francesca Viscone, che non c’era. «Voi ci state causando un sacco di danni. Vi rovino», ha gridato in tono inequivocabile Francesco Sbano, fotografo calabrese nato a Paola e residente ad Amburgo. Ad ascoltare le urla c’erano tre giovani collaboratori di Claudio La Camera, coordinatore del museo. Come riferisce l’associazione "Libera" in un comunicato di solidarietà, Sbano ha apostrofato Francesca Viscone in tono offensivo, con «il solito epiteto che gli uomini a corto di idee riservano alle donne».

Francesco Sbano non accetta le analisi critiche della giornalista, esperta della materia, che negli ultimi anni ha espresso le sue opinioni negative sul valore della trilogia di Sbano "Canzoni di malavita", prodotta con successo dal fotografo (in Germania sono state vendute circa 150mila copie). E tantomeno Sbano ha gradito il fatto che il Museo usi alcune canzoni della sua trilogia nei laboratori di educazione alla legalità nelle scuole, presentandole come esempio negativo di esaltazione dei valori mafiosi.

Dopo l’irruzione di Sbano al Museo della ‘ndrangheta, La Camera ha presentato una denuncia per minacce alla procura antimafia di Reggio. Neppure vuole lasciare correre e sta preparando una memoria per raccontare ai magistrati il suo lavoro degli ultimi dieci anni. «Insegno tedesco a Lamezia Terme, ho vissuto in Germania – spiega la giornalista – e mi sembrava strano che i canti di ‘ndrangheta avessero avuto così tanto successo. Ho approfondito il tema, ho intervistato Sbano e nel 2000 ho scritto un articolo critico per il mensile della Regione Calabria».

Nessuna reazione del fotografo di Paola, fino al 2005, quando Viscone stava per pubblicare con l’editore Rubbettino il libro La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media. «Sbano telefonò a me e alla casa editrice – racconta l’autrice – e chiese che il libro non fosse pubblicato. Si sentiva diffamato. Fece mandare anche una lettera da un avvocato, ma il librò uscì lo stesso. Sbano non l’ho sentito più». Alla fine di maggio una telefonata di La Camera ha informato la giornalista di quanto era accaduto al museo di Reggio.

«Dopo l’uscita degli album e i concerti – dice Viscone – alcune testate giornalistiche europee e americane hanno parlato di questi canti (che ricordano a loro modo anche l’omicidio del generale Dalla Chiesa, ndr) presentandoli come manifestazione della cultura popolare calabrese. Die Zeit, Der Spiegel, Le Monde, Newsweek e il Times hanno inviato corrispondenti in Calabria e intervistato sedicenti boss mafiosi grazie alle conoscenze di Sbano. Nel mio libro ho spiegato che la diffusione delle canzoni di ‘ndrangheta non è un’operazione culturale fine a se stessa, ma fa parte di una strategia comunicativa che ha l’obiettivo di diffondere i valori mafiosi in Germania nascondendo il potere della ‘ndrangheta».

In questi anni Francesca Viscone ha scritto vari saggi sulla questione. Recentemente ha scritto un articolo per Narcomafie. Sbano è un professionista apprezzato in Germania (Der Spiegel pubblica le sue fotografie ed elogia la capacità del fotografo di stabilire contatti con i boss) e anche in Italia: il suo documentario "Uomini d’onore", in cui personaggi incappucciati pronunciano frasi come «se muore l’onorata società muoiono pure i calabresi», è stato distribuito da Cinecittà Luce e premiato nel 2006 dalla fondazione Corrado Alvaro.

I canti di ‘ndrangheta si trovano anche nelle biblioteche di Milano. L’ultima opera del fotografo di Paola è il libro "Giuliano Belfiore. L’onore del silenzio", pubblicato in Germania.«Sbano è bravo nel suo lavoro – dice Viscone – e ha contatti importanti nel mondo del giornalismo europeo. La sua idea che la ‘ndrangheta sia cultura tradizionale e che appartenga solo alla Calabria è molto tranquillizzante all’estero: se si tratta di una cultura tipica, da altre parti non può attecchire. I giornalisti stranieri hanno una grande responsabilità, non capiscono che invece così vengono trasmessi i valori mafiosi. In Italia i miei scritti hanno fatto perdere credibilità al lavoro di Sbano: dopo un forte interesse iniziale, dieci anni fa, i giornalisti non hanno più parlato della sua trilogia».

I canti di ‘ndrangheta però continuano a fare discutere. Il volume fotografico sulla mafia "Malacarne", di Alberto Giuliani, è uscito con allegati gli album prodotti da Sbano. Alle fotografie sono stati accostati interventi di Rita Borsellino, Nicola Gratteri, Roberto Saviano e altre persone che lottano contro la mafia, ignare che insieme ai loro scritti sarebbero state diffuse le canzoni della ‘ndrangheta. Anche di questo Viscone ha scritto, sul Quotidiano della Calabria e nel libro e sul blog Strozzateci Tutti.

«Ho sempre saputo di essermi fatta dei nemici, con tutti questi articoli. Quello che mi colpisce adesso – spiega la giornalista – è l’irrazionalità del comportamento di Sbano: come può pensare di minacciare impunemente delle persone davanti a testimoni e alle telecamere di videosorveglianza? Credo che alla base ci sia la sua convinzione di riuscire a intimorire, di ottenere il silenzio, perché lo stereotipo vuole che in Calabria non si ribelli nessuno e l’epiteto con cui sono stata ingiuriata dimostra che l’ideologia maschilista non tollera reazioni da parte delle donne». «Quando vengono smentiti questi preconcetti su cui si pensava di costruire il successo – conclude – è facile che ci siano reazioni incontrollate. È questo mi preoccupa». Francesca Viscone è la decima giornalista minacciata in Calabria nel 201

Articoli di Francesca Viscone su Stopndrangheta.it:

Cantandrangheta

Cantavi la ndrangheta e i tedeschi ridevano

luglio 26, 2012   Commenti disabilitati su L’autore delle “Canzoni della malavita” minaccia Francesca Viscone

Speranza: “Riaprire le indagini sugli omicidi di Tramonte e Cristiano”

"Chiedo ai Tribunali e alle Procure di Catanzaro e Lamezia Terme di riaprire il caso dell’omicidio di Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, due lavoratori uccisi a Lamezia Terme il 24 maggio del 1991". Lo ha detto il sindaco di Lamezia Terme, Gianni Speranza, intervenendo a Catanzaro, anche in rappresentanza dell’associazione Avviso Pubblico alla conferenza stampa di presentazione delle tappe calabresi della Carovana Antimafie Internazionale. ”Stamani – ha aggiunto Speranza – abbiamo commemorato questi due concittadini per i quali dopo 21 anni si attende ancora giustizia. Ho colto anche oggi la forte amarezza e il dolore dei loro congiunti, che chiedono si faccia chiarezza su quell’episodio. Il 60% delle vittime di mafia, come ha ricordato ieri don Ciotti a Corleone in occasione dei funerali di Stato di Placido Rizzotto, attendono ancora giustizia e tra queste ci sono anche Pasquale e Francesco”. I due netturbini vennero uccisi in un agguato di stampo mafioso mentre svolgevano il loro lavoro alle dipendenze del Comune.

maggio 25, 2012   Commenti disabilitati su Speranza: “Riaprire le indagini sugli omicidi di Tramonte e Cristiano”

Giovanni Falcone, il giudice stratega che scoperchiò la palude di Palermo

Nel 1979 il «Palazzaccio» di Palermo era una palude tranquilla che niente riusciva a smuovere: neppure i primi omicidi «particolari» che – con una brutta parola – venivano etichettati come «eccellenti», quasi a volerne sottolienare, insieme, la natura politica e la conseguente impossibilità a venirne a capo. Quando Giovanni Falcone spuntò all’orizzonte, la palude non capì immediatamente il terremoto che si approssimava: restò immobile («calati juncu ca passa la china») a scrutarlo, fiduciosa nella tradizione che voleva le sabbie mobili capaci di triturare anche il pasto più indigesto.

Erano già morti il colonnello Giuseppe Russo, abbattuto a Ficuzza insieme con l’amico insegnante Filippo Costa, il cronista giudiziario Mario Francese e il vicequestore Giorgio Boris Giuliano. La mafia di don Tano Badalamenti aveva messo in scena l’ignobile farsa dell’uccisione del militante Peppino Inpastato, contrabbandata per «incidente sul lavoro» di un terrorista rosso, così prospettata da ambigue indagini dei carabinieri e, infine, sottoscritta e rivendicata proprio dalla palude, attenta a che nulla di brutto fosse ascrivibile alla mafia. E così, mentre si raccoglievano i cadaveri e si piangeva quasi in privato, illustri ermellini si interrogavano sull’esistenza o meno della «cosiddetta mafia». Le cose cambiarono quando Giovanni Falcone sbarcò all’Ufficio istruzione, chiamato da Rocco Chinnici.

Non ci mise molto, la palude, a fiutare il pericolo. Quel magistrato di poche parole era una forza della natura, era capace di lavorare senza sosta forse anche per sfuggire al peso della recente delusione coniugale. Dormiva poco e macinava carte: assorbiva notizie e nozioni che presto trasformava in iniziative giudiziarie. Non sempre applaudito, come quando violò le discrete stanze delle banche, inseguendo il ritorno in Italia della valuta data in cambio dell’eroina raffinata a Palermo e spedita negli Usa.

La palude non gradì l’invasione di campo e ben presto le strade di Palermo furono attraversate da cortei sindacali che piangevano la morte dell’economia messa in pericolo da quel giudice troppo curioso ed anche un po’ arrogante, che non si assoggetava alla ragion politica. Ma lui, Falcone, poco si curava della palude. Ne conosceva la pericolosità, ma tirava dritto. Ben attento a mantenere una distanza quasi fisica con quel mondo. Chiuso, barricato nel bunker del seminterrato, guardava fuori attraverso un videocitofono che selezionava i visitatori. «Vorrei parlare con lei, dottor Falcone», «E io no. Non ho tempo» era la risposta più frequente. Pochi cronisti ebbero la costanza che permettesse di superare il filtro. Ma una volta entrati in sintonia, ti parlava. Non per dare notizie sulle inchieste (era davvero impossibile strappargliene una soltanto). No, Falcone ti insegnava a mettere insieme cose apparentamente distanti tra di loro. Ti dava la chiave per cercare e trovare la linea sottile che legava gli avvenimenti della mafia sparsi anche su territori lontani.

Sarà questo, insieme con la «ricerca dei soldi», l’elemento fondante del suo «metodo». La capacità di sintesi, la mente aperta alla strategia lunga piuttosto che al risultato singolo e immediato, la forza di ipotizzare strumenti ancora non sperimentati (Buscetta e il pentitismo mafioso), la capacità di non fermarsi davanti al primo ostacolo e di superarlo con una «trovata» mai conosciuta.

Sono queste le qualità che hanno consentito a Giovanni Falcone di immaginare e realizzare il maxiprocesso contro Costa nostra: già, «u Maxi», il processone che sarà il simbolo indelebile del suo trionfo, ma anche l’inizio della sua fine. La palude non l’aveva messa nel conto, la realizzazione del maxiprocesso. Palermo, rassicurante, giurava che Falcone «lo sceriffo», il «Superman arrogante che si crede cissà chi», alla fine sarebbe naufragato sulle sue infinite carte. E invece no: il giudice riuscì a trovare le alleanze giuste (Gianni De Gennaro, Liliana Ferraro, Claudio Martelli sopratutti) per costruire l’aula bunker e scongiurare così il pericolo di un trasferimento del processo a Roma. Poi, mattone dopo mattone, mise in piedi il «mostro» che assicurava ai cittadini il giusto indennizzo per i lutti subiti: un processo in regola alla mafia intera e rinchiusa nelle gabbie. Quella mafia che, grazie alla sonnolenza della palude, nel frattempo aveva avuto modo di eliminare tutti i suoi peggiori nemici: Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici, Cassarà, Montana, Antiochia, Zucchetto, Libero Grassi, Terranova, Insalaco, Costa, Basile, D’Aleo e tutti gli altri che è quasi impossibile elencare.

Pochi aiutarono Giovanni Falcone. Molti, soprattutto colleghi frustrati dalla visibilità di quel giudice e politici non del tutto disinteressati, lo isolarono e lo avversarono. Lo etichettarono come comunista, lo indicarono democristiano amico di Andreotti, poi socialista, quando accettò di lavorare col ministro Martelli. Dissero che era persino pericoloso per la democrazia, con la sua ambizione sfrenata che lo portava anche ad inventarsi una superprocura tagliata su di sé. Lo criticarono pure quando scrisse un libro, definito ulteriore sintomo di narcisismo.

Questo dicevano di lui in vita, le stesse persone che, da morto, ne rivendicavano una inesistente amicizia. Per mettere le cose in chiaro, per separare gli amici veri dai falsi, la sorella Maria scrisse un libro («Storia di Giovanni Falcone») e un altro ne ha scritto a vent’anni dalla morte («Giovanni Falcone un eroe solo»).

Antonino Caponnetto, il capo dell’ufficio succeduto a Chinnici, e poi Paolo Borsellino, Pietro Grasso, Leonardo Guarnotta, Peppino Di Lello, Giacomo Conte, Ignazio De Francisci, Giuseppe Ayala e Alfonso Giordano: questi i protagonisti che resero possibile l’impresa del maxiprocesso. Uomini che non si risparmiarono e non esitarono ad affrontare, da pionieri, insieme con Falcone, la strada impervia della lotta alla mafia, prima mai intrapresa. Ecco, se c’è una certezza nell’ambito della storia recente dell’antimafia è che Giovanni Falcone rappresenta la linea di confine tra il prima e il dopo la palude, una linea tracciata anche col sangue di Salvo Lima, l’eurodeputato andreottiano ucciso quando Cosa nostra decise di lasciare i vecchi amici politici per cercare nuove strade e nuove alleanze.

E il dopo è una battaglia condotta fino al sacrificio della propria vita, per il bene comune: Falcone e Borsellino, due eroi racchiusi in un solo nome. Amici nella battaglia, nelle delusioni e nelle vittorie esaltanti, uniti nel sacrificio finale. C’è da commuoversi ancora, ricordando Paolo Borsellino che rifiuta la via di fuga perchè «Lo devo a Giovanni e a tutti quei cittadini che credono in noi».

Ma chi li ha uccisi, Giovanni e Paolo? C’entra l’avversione della palude, l’ottusa difesa dei privilegi racchiusi nella via breve del «quieto vivere»? Certo, è stata la mafia, è stato Totò Riina e la sua accolita di assassini: non v’è brandello di indagine che non confermi questa paternità. E basta? Sono stati i «viddani» di Corleone a farsi terroristi più efficienti dei macellai di Bin Laden? Quale maestro ha insegnato loro a sventrare autostrade ed interi quartieri?

Sappiamo per certo che Falcone doveva essere assassinato a Roma, in un «normale» agguato mafioso, a colpi di arma da fuoco. Lo racconta il pentito Spatuzza che gli facevano la posta al ristorante «sbagliato»: lo cercavano al «Matriciano» mentre il giudice era solito cenare alla «Carbonara», in Campo dei Fiori. Ma all’improvviso Riina chiama la ritirata ed annuncia: «Si fa a Palermo e si fa con l’esplosivo». Perché questo cambiamento che dà all’azione il sapore, non più di una vendetta mafiosa, ma di una vera e propria intimidazione «politica» all’intero paese? Questa è la domanda che dovrà avere risposta. E Borsellino che muore, 57 giorni dopo, in piena «trattativa» fra Stato e mafia? Pure lui con l’esplosivo, perchè non si perdesse la continuità con Capaci. Borsellino muore e lo Stato tratta sul 41 bis e sulla possibilità di instaurare una tregua con Cosa nostra.

Poi c’è la mostruosità delle indagini su via D’Amelio: due pentiti assolutamente inventati depistano e raccontano un film inesistente. Uno di questi, Enzo Scarantino, si autoaccusa della strage. Perché? Chi gli suggerisce la versione sbagliata? Gli investigatori, certo. Uno di essi, Arnaldo La Barbera, il capo, è morto. Altri tre, o quattro, sono indagati ma si sa già che andranno in prescrizione. Rimarranno, dunque, inevase le domande: chi ha depistato e perché? Sono passati vent’anni e il risultato più eclatante è un processo (via D’Amelio) da rifare, seppure quello precedente fosse stato già archiviato con una sentenza della Cassazione. Ma forse sarebbe più giusto dire che di anni ne sono passati 23, perchè l’inizio di questo mattatoio risale al giungo del 1989 quando Cosa nostra lasciò un borsone pieno di esplosivo sotto la villa al mare di Giovanni Falcone, all’Addaura. Fu il giudice a sentenziare che era intervenuto il «gioco grande»: «Si è creata la convergenza di interessi tra mafia e oscuri ambienti…. Menti raffinatissime…». La palude stava sempre immobile e osservava.

maggio 23, 2012   Commenti disabilitati su Giovanni Falcone, il giudice stratega che scoperchiò la palude di Palermo