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Giovanni Falcone, il giudice stratega che scoperchiò la palude di Palermo

Nel 1979 il «Palazzaccio» di Palermo era una palude tranquilla che niente riusciva a smuovere: neppure i primi omicidi «particolari» che – con una brutta parola – venivano etichettati come «eccellenti», quasi a volerne sottolienare, insieme, la natura politica e la conseguente impossibilità a venirne a capo. Quando Giovanni Falcone spuntò all’orizzonte, la palude non capì immediatamente il terremoto che si approssimava: restò immobile («calati juncu ca passa la china») a scrutarlo, fiduciosa nella tradizione che voleva le sabbie mobili capaci di triturare anche il pasto più indigesto.

Erano già morti il colonnello Giuseppe Russo, abbattuto a Ficuzza insieme con l’amico insegnante Filippo Costa, il cronista giudiziario Mario Francese e il vicequestore Giorgio Boris Giuliano. La mafia di don Tano Badalamenti aveva messo in scena l’ignobile farsa dell’uccisione del militante Peppino Inpastato, contrabbandata per «incidente sul lavoro» di un terrorista rosso, così prospettata da ambigue indagini dei carabinieri e, infine, sottoscritta e rivendicata proprio dalla palude, attenta a che nulla di brutto fosse ascrivibile alla mafia. E così, mentre si raccoglievano i cadaveri e si piangeva quasi in privato, illustri ermellini si interrogavano sull’esistenza o meno della «cosiddetta mafia». Le cose cambiarono quando Giovanni Falcone sbarcò all’Ufficio istruzione, chiamato da Rocco Chinnici.

Non ci mise molto, la palude, a fiutare il pericolo. Quel magistrato di poche parole era una forza della natura, era capace di lavorare senza sosta forse anche per sfuggire al peso della recente delusione coniugale. Dormiva poco e macinava carte: assorbiva notizie e nozioni che presto trasformava in iniziative giudiziarie. Non sempre applaudito, come quando violò le discrete stanze delle banche, inseguendo il ritorno in Italia della valuta data in cambio dell’eroina raffinata a Palermo e spedita negli Usa.

La palude non gradì l’invasione di campo e ben presto le strade di Palermo furono attraversate da cortei sindacali che piangevano la morte dell’economia messa in pericolo da quel giudice troppo curioso ed anche un po’ arrogante, che non si assoggetava alla ragion politica. Ma lui, Falcone, poco si curava della palude. Ne conosceva la pericolosità, ma tirava dritto. Ben attento a mantenere una distanza quasi fisica con quel mondo. Chiuso, barricato nel bunker del seminterrato, guardava fuori attraverso un videocitofono che selezionava i visitatori. «Vorrei parlare con lei, dottor Falcone», «E io no. Non ho tempo» era la risposta più frequente. Pochi cronisti ebbero la costanza che permettesse di superare il filtro. Ma una volta entrati in sintonia, ti parlava. Non per dare notizie sulle inchieste (era davvero impossibile strappargliene una soltanto). No, Falcone ti insegnava a mettere insieme cose apparentamente distanti tra di loro. Ti dava la chiave per cercare e trovare la linea sottile che legava gli avvenimenti della mafia sparsi anche su territori lontani.

Sarà questo, insieme con la «ricerca dei soldi», l’elemento fondante del suo «metodo». La capacità di sintesi, la mente aperta alla strategia lunga piuttosto che al risultato singolo e immediato, la forza di ipotizzare strumenti ancora non sperimentati (Buscetta e il pentitismo mafioso), la capacità di non fermarsi davanti al primo ostacolo e di superarlo con una «trovata» mai conosciuta.

Sono queste le qualità che hanno consentito a Giovanni Falcone di immaginare e realizzare il maxiprocesso contro Costa nostra: già, «u Maxi», il processone che sarà il simbolo indelebile del suo trionfo, ma anche l’inizio della sua fine. La palude non l’aveva messa nel conto, la realizzazione del maxiprocesso. Palermo, rassicurante, giurava che Falcone «lo sceriffo», il «Superman arrogante che si crede cissà chi», alla fine sarebbe naufragato sulle sue infinite carte. E invece no: il giudice riuscì a trovare le alleanze giuste (Gianni De Gennaro, Liliana Ferraro, Claudio Martelli sopratutti) per costruire l’aula bunker e scongiurare così il pericolo di un trasferimento del processo a Roma. Poi, mattone dopo mattone, mise in piedi il «mostro» che assicurava ai cittadini il giusto indennizzo per i lutti subiti: un processo in regola alla mafia intera e rinchiusa nelle gabbie. Quella mafia che, grazie alla sonnolenza della palude, nel frattempo aveva avuto modo di eliminare tutti i suoi peggiori nemici: Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici, Cassarà, Montana, Antiochia, Zucchetto, Libero Grassi, Terranova, Insalaco, Costa, Basile, D’Aleo e tutti gli altri che è quasi impossibile elencare.

Pochi aiutarono Giovanni Falcone. Molti, soprattutto colleghi frustrati dalla visibilità di quel giudice e politici non del tutto disinteressati, lo isolarono e lo avversarono. Lo etichettarono come comunista, lo indicarono democristiano amico di Andreotti, poi socialista, quando accettò di lavorare col ministro Martelli. Dissero che era persino pericoloso per la democrazia, con la sua ambizione sfrenata che lo portava anche ad inventarsi una superprocura tagliata su di sé. Lo criticarono pure quando scrisse un libro, definito ulteriore sintomo di narcisismo.

Questo dicevano di lui in vita, le stesse persone che, da morto, ne rivendicavano una inesistente amicizia. Per mettere le cose in chiaro, per separare gli amici veri dai falsi, la sorella Maria scrisse un libro («Storia di Giovanni Falcone») e un altro ne ha scritto a vent’anni dalla morte («Giovanni Falcone un eroe solo»).

Antonino Caponnetto, il capo dell’ufficio succeduto a Chinnici, e poi Paolo Borsellino, Pietro Grasso, Leonardo Guarnotta, Peppino Di Lello, Giacomo Conte, Ignazio De Francisci, Giuseppe Ayala e Alfonso Giordano: questi i protagonisti che resero possibile l’impresa del maxiprocesso. Uomini che non si risparmiarono e non esitarono ad affrontare, da pionieri, insieme con Falcone, la strada impervia della lotta alla mafia, prima mai intrapresa. Ecco, se c’è una certezza nell’ambito della storia recente dell’antimafia è che Giovanni Falcone rappresenta la linea di confine tra il prima e il dopo la palude, una linea tracciata anche col sangue di Salvo Lima, l’eurodeputato andreottiano ucciso quando Cosa nostra decise di lasciare i vecchi amici politici per cercare nuove strade e nuove alleanze.

E il dopo è una battaglia condotta fino al sacrificio della propria vita, per il bene comune: Falcone e Borsellino, due eroi racchiusi in un solo nome. Amici nella battaglia, nelle delusioni e nelle vittorie esaltanti, uniti nel sacrificio finale. C’è da commuoversi ancora, ricordando Paolo Borsellino che rifiuta la via di fuga perchè «Lo devo a Giovanni e a tutti quei cittadini che credono in noi».

Ma chi li ha uccisi, Giovanni e Paolo? C’entra l’avversione della palude, l’ottusa difesa dei privilegi racchiusi nella via breve del «quieto vivere»? Certo, è stata la mafia, è stato Totò Riina e la sua accolita di assassini: non v’è brandello di indagine che non confermi questa paternità. E basta? Sono stati i «viddani» di Corleone a farsi terroristi più efficienti dei macellai di Bin Laden? Quale maestro ha insegnato loro a sventrare autostrade ed interi quartieri?

Sappiamo per certo che Falcone doveva essere assassinato a Roma, in un «normale» agguato mafioso, a colpi di arma da fuoco. Lo racconta il pentito Spatuzza che gli facevano la posta al ristorante «sbagliato»: lo cercavano al «Matriciano» mentre il giudice era solito cenare alla «Carbonara», in Campo dei Fiori. Ma all’improvviso Riina chiama la ritirata ed annuncia: «Si fa a Palermo e si fa con l’esplosivo». Perché questo cambiamento che dà all’azione il sapore, non più di una vendetta mafiosa, ma di una vera e propria intimidazione «politica» all’intero paese? Questa è la domanda che dovrà avere risposta. E Borsellino che muore, 57 giorni dopo, in piena «trattativa» fra Stato e mafia? Pure lui con l’esplosivo, perchè non si perdesse la continuità con Capaci. Borsellino muore e lo Stato tratta sul 41 bis e sulla possibilità di instaurare una tregua con Cosa nostra.

Poi c’è la mostruosità delle indagini su via D’Amelio: due pentiti assolutamente inventati depistano e raccontano un film inesistente. Uno di questi, Enzo Scarantino, si autoaccusa della strage. Perché? Chi gli suggerisce la versione sbagliata? Gli investigatori, certo. Uno di essi, Arnaldo La Barbera, il capo, è morto. Altri tre, o quattro, sono indagati ma si sa già che andranno in prescrizione. Rimarranno, dunque, inevase le domande: chi ha depistato e perché? Sono passati vent’anni e il risultato più eclatante è un processo (via D’Amelio) da rifare, seppure quello precedente fosse stato già archiviato con una sentenza della Cassazione. Ma forse sarebbe più giusto dire che di anni ne sono passati 23, perchè l’inizio di questo mattatoio risale al giungo del 1989 quando Cosa nostra lasciò un borsone pieno di esplosivo sotto la villa al mare di Giovanni Falcone, all’Addaura. Fu il giudice a sentenziare che era intervenuto il «gioco grande»: «Si è creata la convergenza di interessi tra mafia e oscuri ambienti…. Menti raffinatissime…». La palude stava sempre immobile e osservava.