>

Category — ricostruzioni

Strage di Razzà: una storia di assenze, misteri e dolore

Undici piatti fondi, sei coltelli, dodici forchette e tovaglioli ricamati. Quasi svuotato, in un angolo, il bidone da 5 litri del vino. Avevano già messo mano al thermos del caffè quando fuori dalla vecchia casa colonica (nella foto) in mezzo agli aranceti era comparso, non invitato, il carabiniere: "Venite fuori con le mani alzate!". Quello che avvenne dopo, nelle campagne di Taurianova, in contrada Razzà, alle 14.00 di venerdì 1 aprile 1977, l’informativa degli investigatori lo fotografa con linguaggio asettico: "Nell’immediatezza del fatto, alle ore 15.45, il procuratore della Repubblica di Palmi ispezionò la località, rinvenendo nella radura antistante la casupola diroccata quattro morti". Due con la divisa da carabiniere, strappata in più punti, macchiata di sangue. Gli altri con il cognome Avignone, la cosca di Taurianova. L’appuntato Stefano Condello e il carabiniere Vincenzo Caruso vengono seppelliti con tricolore sulla bara, picchetto d’onore e funerali solenni. Sul petto di genitori e mogli arriva, a stretto giro, anche una medaglia d’oro al valor militare. "Non sono morti invano", garantisce il comandante generale dell’Arma. Una commossa solerzia che non entrerà mai in tribunale. Tra le parti civili costituite nel processo ai responsabili della strage di Razzà, infatti, fa notare con amarezza lo stesso presidente della Corte d’Assise di Palmi, Saverio Mannino, "non figura lo Stato, malgrado il danno anche economico provocatogli dall’uccisione di due dei suoi uomini migliori". Non è la sola assenza in quel processo. Non è la sola ombra di questa storiaccia. Undici piatti fondi, undici convitati. Il pranzo interrotto da Condello e Caruso, insospettiti dalla strana presenza di auto davanti alla casupola, è un summit. E non vi prendono parte solo latitanti e pregiudicati. Ci sono insospettabili, pezzi delle istituzioni, addirittura uomini che nel cassetto hanno una fascia tricolore, come il sindaco di Canolo, D’Agostino. Gente importante di cui bisogna coprire la fuga, anche a costo della vita. "La ‘ndrangheta è cambiata", fanno notare nelle loro analisi i corrispondenti dei quotidiani nazionali. Ora maneggia appalti, subappalti, connivenze istituzionali, affari fuori dai confini regionali (uno degli Avignone è catturato a Roma). Ma neppure gli "insospettabili" entreranno mai in tribunale. Insomma, assente lo Stato, invisibili i complici istituzionali, in carne, ossa e dolore, a portarsi il peso della strage e dei misteri di Razzà, restano solo i familiari. E qualcuno, sotto quel peso, ci finirà schiacciato. "Vittima della mafia e dello Stato. Ho chiesto aiuto e nessuno me l’ha dato. Non posso più sopportare il male che mi ha fatto questo mondo", lascia scritto Rosaria, prima di uccidersi nel 2005. E’ la sorella di Vincenzo Caruso i cui familiari – il padre Mariano, di 92 anni, la madre, Maria Buccheri, di 85, e la nipote, Lorena Lupo, di 33 anni, figlia di Rosaria – oggi chiedono allo Stato un risarcimento postumo, attraverso il fondo di rotazione, che riconosca al carabiniere il titolo di "vittima dei reati di tipo mafioso". Trentasette anni dopo.

aprile 29, 2014   Commenti disabilitati su Strage di Razzà: una storia di assenze, misteri e dolore

La lunga infamia: i bambini ammazzati dalla ‘ndrangheta

E’ una lunga infamia. Senza interruzioni, senza rimorsi. Un’infamia che non nasce per errore, che non rappresenta una successione di eccezioni alla regola. Semplicemente perché di regole non ce ne sono e non ce ne sono mai state, con buona pace di chi si balocca, per ignavia, ignoranza o cattiva fede dietro il presunto "onore" mafioso. I bambini, dalla ‘ndrangheta, sono stati rapiti, torturati, ammazzati, sfigurati a colpi di lupara in faccia, bruciati, sepolti sotto la calce viva. Ecco un elenco, di certo parziale, di una strage dimenticata, rimossa, negata. Per non dire, e non dover mai più sentire, che la ‘ndrangheta non ha mai toccato i bambini.

Domenica Zucco, 3 anni: colpita all’addome nell’agguato contro il padre. Muore a San Martino di Taurianova il 3 ottobre 1951.

Concetta Lemma, 16 anni: viene ammazzata a colpi di lupara mentre si trova in casa, a Feroleto della Chiesa, l’11 gennaio 1964. E’ vittima di una vendetta di faida.

Cosimo Gioffrè, 12 anni: ucciso nella notte del 18 gennaio 1965 a San’Eufemia d’Aspromonte mentre dorme nel letto con la madre e con altre tre fratelli.

Giuseppe Bruno, 18 mesi: colpito da due pallettoni alla testa nell’agguato contro il padre. Muore l’11 settembre 1974 a Seminara.

Salvatore Feudale, 10 anni: assassinato in piazza Mercato, a Crotone, insieme con il fratello diciannovenne. E’ il 20 settembre 1973.

Michele e Domenico Facchineri, 9 e 10 anni: trucidati a colpi di lupara il 13 aprile 1975 a Cittanova.

Giuseppina Pangallo, 3 anni: ammazzata il 12 dicembre 1975 a San Giovanni di Sambatello mentre si trova in macchina con la madre.

Graziella e Maria Maesano, 9 anni: uccise a Le Castella (Crotone) il 21 settembre 1982 nell’agguato che ha per bersaglio lo zio Gaetano.

Rocco Corica, 7 anni: viene ucciso a Taurianova nell’agguato che il 29 settembre 1976 ha per bersaglio il padre. Il suo volto è sfigurato dai proiettili.

Pasqualino Perri, 12 anni: ammazzato in un ristorante di Rende, il 27 ottobre 1978. Il bersaglio dei killer era il padre.

Giovanni Canturi, 13 anni: il 9 novembre 1982 viene ucciso a Caraffa del Bianco mentre accudisce gli animali insieme con lo zio, vittima designata dei killer.

Domenico Cannatà, 11 anni e Serafino Trifarò, 14 anni: uccisi in un agguato a San Ferdinando la sera del 4 novembre 1983.

Gianluca Canonico, 10 anni: ferito a morte, il 3 luglio 1985, in un conflitto a fuoco mentre sta giocando a pallone nel cortile di casa, a Reggio Calabria.

Michele Arcangelo Tripodi, 12 anni: sequestrato e ucciso a San Ferdinando il 18 marzo 1990. E’ vittima di una vendetta trasversale.

Marcella Tassone, 9 anni: la sera del 22 febbraio 1989 viene trucidata mentre si trova in macchina con il fratello, a Laureana di Borrello. In faccia le sparano sette colpi.

Andrea Bonforte, 15 anni: ucciso all’alba del 2 gennaio 1990 a Catona, nella periferia nord di Reggio. L’obiettivo era il fratello.

Letterio Nettuno, 15 anni: sequestrato, torturato, sgozzato il 5 gennaio 1991 dalla cosca Latella-Ficara.

Domenico Catalano, 16 anni: ucciso in un agguato il 1 settembre 1990 nel quartiere Archi Cep, nella zona nord di Reggio.

Arturo Caputo, 16 anni: sta mangiando una pizza in un locale di Strongoli, nel Crotonese, la sera del 4 luglio 1990. Finisce sulla traiettoria dei killer che hanno per bersaglio un pregiudicato della zona.

Saverio Purita, 11 anni: il 23 febbraio 1990 sparisce da Vibo. Lo troveranno ammazzato e con il corpo semicarbonizzato.

Francesco Pugliese, 13 anni: scomparso da Vibo il 2 gennaio 1983.

Luca Cristello, 14 anni: scomparso da Francica, nel Vibonese, il 17 maggio 2002.

Elisabetta Gagliardi, 9 anni: ammazzata con due colpi di pistola in testa a Palermiti il 7 settembre 1990. I killer cercavano il padre e, in sua assenza, si sono accaniti sulla figlia e la moglie, Maria Marcella, uccisa anche lei.

Nicholas Green, 7 anni: il 29 settembre 1994 viene ferito a morte, in un tentativo di rapina, mentre si trova in auto con la famiglia sulla Sa-Rc.

Mariangela Ansalone, 9 anni: ammazzata l’8 maggio 1998 ad Oppido Mamertina, insieme con il nonno. La macchina su cui si trovavano era stata scambiata dai killer per l’auto dei rivali.

Paolino Rodà, 13 anni: ucciso il 2 novembre 2004 nelle campagne di Ferruzzano, insieme con il padre.

Dodò Gabriele, 11 anni: è il 25 giugno del 2009 a Crotone e Dodò sta giocando a pallone in un campo di calcetto. I killer che entrano in azione sparano all’impazzata. Ferito alla testa, Dodò morirà dopo tre mesi di agonia.

Nicola Campolongo, 3 anni: sparito da Cassano allo Jonio il 15 gennaio 2014, insieme con il nonno, il pregiudicato Giuseppe Iannicelli e la sua compagna Ibtissa Touss. Il suo corpo, insieme a quello dei due adulti, è stato ritrovato il 19 gennaio 2014 all’interno dell’auto del nonno. Carbonizzato.

Per un approfondimento: nomi e storie delle piccole vittime di ‘ndrangheta sono stati pazientemente e dettagliatamente ricostruiti da Danilo Chirico e Alessio Magro in "Dimenticati" (Castelvecchi, Roma 2011) nel capitolo "Troppo piccoli per morire" (pagg. 385-423)

gennaio 19, 2014   Commenti disabilitati su La lunga infamia: i bambini ammazzati dalla ‘ndrangheta

Un’oasi tra abusivismo, degrado e mega-progetti

REGGIO CALABRIA – Il parcheggio adiacente la pineta Zerbi, a Reggio Calabria, è una zona appartata, nascosta da occhi indiscreti; la strada che la costeggia scende a perdersi tra il porto e la vecchia stazione marittima, e sotto le passa la fiumara Annunziata che trascina verso il mare le porcherie della città. Quando fa buio lì dietro ci trovi prostitute, barboni e ubriaconi. Ma soprattutto prostitute. Giovanissime, quasi bambine. Prima che fosse interrata, lì sorgeva la stazione Lido i cui locali, una volta dismessi, sono stati concessi in affitto all’associazione Museo dello Strumento Musicale (MuStruMu) che dal 1996 conserva, valorizza e studia gli strumenti musicali provenienti da ogni parte del mondo. Col tempo si è anche saputo imporre, il Museo, come centro di aggregazione, una piccola oasi di bellezza che ha reso meno duro, con la musica, l’intrattenimento, la cultura e la socialità, il contesto urbano dentro il quale è sorto: un’area sospesa su equilibri delicati, votata al degrado, all’abbandono e sulla quale agli ambiziosi interessi urbanistici della città si stanno incrociando fatti di cronaca che fanno riflettere. All’alba del 4 novembre scorso, infatti, un incendio doloso ha distrutto il Museo e Reggio si è svegliata con un centro di aggregazione in meno e con qualche dubbio in più: che sia, anch’esso, il sintomo del malessere diffuso di un territorio che subisce quattro attentati in poco più di dieci giorni; che il rogo apparentemente inspiegabile non sia soltanto il gesto di balordi annoiati, ma un episodio da inserire in un contesto più ampio di fatti e situazioni che riguardano l’area sul quale sorge il Museo? Andiamo per tappe.

Regium Waterfront: la città del futuro – L’area che va dal porto cittadino al lido comunale si affaccia su uno dei paesaggi più belli del litorale, ma è anche una zona martoriata, architettonicamente anonima e confusa. E’ pieno centro eppure sembra di stare in periferia. Molte le strutture abbandonate o chiuse, altrettanti gli esempi di abusivismo edilizio. Un pezzo di territorio fortemente in degrado quello nel quale è collocato il MuStruMu, al centro di un progetto faraonico promosso nel 2007 dalla Giunta Scopelliti per costruire la città del futuro, un complesso di strutture civili avveniristiche per rilanciare Reggio e ricamarle addosso quel titolo, metropolitana, che oggi fa sorridere. La zona centro/settentrionale, che rappresenta solo una porzione di un piano ben più vasto, dovrà ospitare una serie di interventi riqualificativi della viabilità e il Museo del Mediterraneo, fiore all’occhiello del progetto che avrà forma di stella marina e che però porta insito già sulla carta il germe dell’abusivismo: sorgerà a due metri dalla linea di costa, praticamente sulla battigia. Tutto intorno, il progetto prevede la bonifica della fascia costiera; il recupero della spiaggia per la balneazione; la realizzazione di attrazioni turistiche e culturali; la realizzazione di parcheggi; l’estensione della pineta Zerbi. Un’opera ciclopica e avveneristica, firmata dall’architetto Zaha Hadid, di cui pochi sentono il bisogno e che da più parti è ritenuta inutile, se non addirittura dannosa. I mandati di esproprio sarebbero già pronti a partire per fare spazio ad altro cemento, ad altre speculazioni, alla città futura che non serve a nessuno.

É Hotel: il lusso è un abuso – Lungo lo stesso pezzo di litorale interessato dal Regium Waterfront, ed alle spalle del MuStruMu, c’è quello che resta della fatiscente arena Lido, un bellissimo teatro un tempo annesso al Lido Comunale, palcoscenico di tanti prestigiosi concerti e rappresentazioni ed ormai chiuso da quasi 30 anni. Un ricovero per drogati fasciato di lamiere. È la prima cosa che si incontra prima di imbattersi in una lussuosa struttura alberghiera, messa su in poco tempo, la cui insegna svetta sullo skyline cittadino, guardando verso nord. Si chiama "É Hotel" e da poco è stato raggiunto da un mandato di sequestro in quanto "struttura integralmente e radicalmente abusiva realizzata non solo in violazione di qualsiasi norma dettata dall’ordinamento in materia edilizia ed urbanistica, ma anche in sostanziale difformità del permesso di costruire, anch’esso illegittimo". Questo è emerso dal decreto di sequestro preventivo, firmato dal sostituto procuratore Matteo Centini, coordinatore dell’inchiesta sulla struttura, e totalmente accolto dal gip Massimo Minniti. Cose note, ripetutamente denunciate già dal 2006 da Legambiente Reggio che, nel quadro della campagna "Occhio alle coste", ha spesso sollevato l’attenzione sulle "tante e possibili violazioni di legge sul piano autorizzativo". A sette anni da quelle prime denunce, la magistratura fa i suoi passi apponendo i sigilli alla struttura che occupa – si legge ancora nella richiesta di Centini – "arbitrariamente il demanio marittimo, fluviale, stradale-comunale e ferroviario impedendone altresì l’uso pubblico". Un illecito commesso con l’avallo di funzionari comunali che non si sono fatti scrupoli a firmare le autorizzazioni piegando il loro dovere di amministratori della cosa pubblica agli interessi particolari di un soggetto privato. Per Centini "l’evidente abuso costituisce un atto di accusa ineludibile per le pubbliche amministrazioni coinvolte. L’ennesimo scempio per questo meraviglioso territorio è stato perpetrato con la complicità attiva […] di ogni singolo pubblico funzionario che aveva responsabilità nella gestione e tutela del territorio". Un illecito compiuto anche a scapito della pubblica incolumità in quanto: "tutte le autorizzazioni ottenute sotto il profilo del rispetto della normativa antisismica afferiscono alla realizzazione di una ristrutturazione di edifici già esistenti e non come è nella realtà, alla realizzazione di una nuova costruzione". Il verdetto del pm è schiacciante: quella che si presentava come una struttura di lusso è, in realtà, un ecomostro "da considerare non sanabile, allo stato attuale, e quindi da demolire". Insomma, sembra di essere ritornati agli anni Settanta e Ottanta della "città dolente" quando l’urbanistica reggina finì mani e piedi dentro un pantano di corruzione e collusione, quando i funzionari comunali firmavano autorizzazioni a man bassa in cambio di favori e prebende e intanto la città soccombeva sotto infinite colate di cemento. Da quella stagione, forse, la città non è mai riuscita a venire fuori davvero. Il presente parla chiaro: oggi Reggio sembra una città disorientata, senza punti fermi né riferimenti istituzionali. Un’eterna promessa di progresso rimandata giorno dopo giorno, in caduta libera verso il disordine sociale e verso un abbrutimento estetico, spia e risultato di un abbrutimento morale. Dove la bellezza non si protegge perché, forse, non si è più in grado di distinguerla.

Vedi la galleria fotografica

novembre 14, 2013   Commenti disabilitati su Un’oasi tra abusivismo, degrado e mega-progetti

Assedio alla cultura: la cronaca di 3 anni di roghi

REGGIO CALABRIA – I cittadini di Reggio Calabria sono abituati al fuoco, quello che divampa nei giorni assolati d’estate sulle colline che circondano la città (uno degli ultimi e più terribili quello che distrusse la meravigliosa – e troppo attenzionata dai gruppi affaristici – collina di Pentimele nell’agosto 2012) e quello che sale di notte, tra le strade cittadine, che brucia, che tenta di annientare. Roghi che vogliono far paura, dare segnali, inviare messaggi. A bruciare, però, negli ultimi tre anni, non sono solo esercizi commerciali o beni immobili confiscati. Almeno dal 2011 a bruciare, in una strana ed inquietante scia che puzza di benzina, sono i luoghi della cultura e della resistenza, spazi reali dove si crea, si condivide, si contesta e si costruisce. Luoghi nodali, evidentemente scomodi.

10 agosto 2011, lido di Bandafalò: il lido da anni era il punto di riferimento per giovani e meno giovani attirati dalla piccola spiaggia in località Porticello di Villa San Giovanni, recuperata e gestita dai ragazzi dell’associazione Bandafalò. Nelle sere d’estate per i giovani della costa tirrenica era facile incontrarsi tra le sdraio riciclate per ascoltare gruppi etnici o affrontare un confronto politico con gli amici di sempre e con gli avventori casuali. Luogo di incontro. Un luogo diverso. Nella notte tra il 10 e l’11 agosto 2011 le strutture del lido, che erano state sottoposte a sequestro dalla magistratura reggina già il 10 giugno dello stesso anno, vanno a fuoco. Un rogo apparentemente indecifrabile, dato che la struttura era stata già praticamente messa fuori gioco dall’indagine giudiziaria. Poche piste. Nessun colpevole.

14 maggio 2012, C.S.O.A. Angelina Cartella: 10 anni, tanto è il tempo che è servito a qualcuno per maturare la convinzione che il Centro Sociale Occupato ed Autogestito "Angelina Cartella" dovesse finirla di occupare, a Gallico, nella zona nord della città, quella villetta che era stata recuperata e riportata a nuova vita culturale. Quel gruppo di attivisti che avevano creato un luogo di incontro in un’area di fresca e costante urbanizzazione, dovevano ricevere un segnale chiaro. La notte del rogo arrivano sui cellulari e presso le utenze private di alcuni di loro delle telefonate anonime. Nelle stesse ore la struttura centrale del C.S.O.A.- diventata sede negli anni di spettacoli teatrali, presentazioni di libri, dibattiti e confronti politici- veniva distrutta dalle fiamme. All’alba, domato l’incendio, si scoprono svastiche e scritte neo fasciste. Il centro sociale, pur privato del suo bene comune, non si ferma. Solo un mese dopo l’incendio saranno centinaia di volontari a ripristinare gli spazi.

9 maggio 2013, Orto Botanico: Per anni i cittadini di Reggio avevano dimenticato di avere un Orto Botanico. Molto più celebre e decantato quello della dirimpettaia Messina. Eppure anche nella zona sud del capoluogo calabrese – sul viale Calabria, di fronte all’aula bunker – esiste una struttura di questo tipo, resa ancora più preziosa dalla presenza al suo interno di una palazzina dei primi del ‘900. Dopo anni di oblio, il 30 luglio 2013, la Camera di Commercio di Reggio Calabria – che detiene la struttura attraverso la sua azienda speciale Stazione sperimentale per le industrie delle essenze e dei derivati dagli agrumi (SSEA) – stipula un protocollo di intesa con l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, al cui dipartimento di Agraria viene affidata la riqualificazione del gioiello naturalistico. La notte tra il 9 ed il 10 maggio però all’interno della struttura si sviluppa un incendio le cui fiamme vengono domate grazie all’intervento dei vigili del fuoco allertati dai vicini. La palazzina Liberty è salva, lo sono anche alcune delle piante più antiche e preziose. A detta dei responsabili i lavori di recupero sono ripresi regolarmente dopo l’accaduto. Anche in questo caso si tratta di una zona delicata della città. Gli interessi sono vari e molteplici. Allo stato attuale – per un incendio presumibilmente di origine dolosa – non vi è notizia di alcuna precisa pista investigativa.

15 maggio 2013, Chiesa Ortodossa di San Paolo dei Greci: A Sbarre, popolare e popoloso quartiere della zona sud della città di Reggio, protagonista a suo tempo della rivolta del ’70 (in quei giorni nascerà tra il rione pescatori ed il rione ferrovieri la Repubblica di Sbarre), sorge da alcuni anni una chiesa ortodossa, costruita per iniziativa del Sacro Monastero del Paracleto (Oropo d’Attica) e di benefattori greci che hanno raccolto i fondi necessari. Il suo parroco, il Protopresbitero Daniele Castrizio, è un uomo che la cultura la fa e la tramanda. Eloquio diretto ed elegante al tempo stesso, riesce con poche parole a trasferirti il senso dei corsi e della memoria storica di questa Calabria. In pieno giorno e durante la funzione della domenica alcuni locali della Chiesa vanno a fuoco (nella foto). ”Questa città è bravissima a gettare fango su sé stessa – il commento di Castrizio – Non vogliamo niente da nessuno ma la città non può lasciare i suoi figli in questo modo nell’ignoranza e nell’anarchia totale. Come si può parlare bene di una città che brucia le chiese? Credo che sia il caso di dare un segno, non per la Chiesa Ortodossa, ma per noi stessi, per i reggini, per avere la possibilità di rialzarci”. Negli anni si erano verificati anche altri piccoli atti di danneggiamento. Tutti segnali che confermerebbero la matrice dolosa dell’accaduto. Anche in questo caso, nonostante le circostanze, poche le piste ed ancora nessun indiziato.

3 novembre 2013, Museo dello strumento musicale: La zona del lungomare Italo Falcomatà di Reggio Calabria è il salotto buono della città. Decantata e celebrata da intellettuali del calibro di D’Annunzio e Pascoli, è anche stata costantemente sotto l’occhio dei riflettori degli affaristi che cercano di sfruttarne al massimo grado le potenzialità economiche in una città che si è riscoperta dalla forte "vocazione" turistica. Il 29 ottobre 2013 la Procura di Reggio Calabria dispone il sequestro dell’E’ Hotel, una lussuosa struttura affacciata direttamente sul mare e costruita – a parere del Gip che convalida il sequestro- in totale difformità rispetto alle prescrizioni normative e al permesso di costruire rilasciato ad una nota ditta cittadina. Dalla pineta Zerbi – un piccolo polmone verde che in orari notturni si trasforma in luogo di traffici e prostituzione – si intravede sullo sfondo la mastodontica insegna del complesso alberghiero. E su quella stessa pineta si affaccia il Museo dello strumento musicale. La struttura ospitata in un edificio di proprietà delle Ferrovie dello Stato era stata assegnata all’associazione culturale "Museo dello strumento musicale", che lì ha dato vita dal 1996 – con fondi esclusivamente privati- ad una collezione di raro pregio che affianca agli strumenti classici antichi quelli provenienti dal mondo globale e quelli della tradizione musicale calabrese. Un autentico tesoro, reso ancora più prezioso dalle attività che Mu.stru.mu realizza all’interno di quello spazio aperto e comune: corsi di musica e di ballo tradizionale, proiezioni cinematografiche, incontri e concerti. Anche questo un luogo di incontro e condivisione. Uno spazio diverso per una città troppo spesso affetta da apatia culturale. Nella notte tra il 3 ed il 4 novembre, ignoti appiccano un incendio che manderà in fumo centinaia di strumenti, alcuni libri antichi conservati nella biblioteca e le foto storiche, oltre a danneggiare seriamente la struttura. Ma il Museo vive. I cittadini accorreranno già all’assemblea che verrà convocata per il 4 novembre nel pomeriggio. Sono presenti anche le realtà che erano state colpite da episodi simili negli anni precedenti. Si fa rete perché si è consapevoli che questi attacchi colpiscono al cuore ogni individuo libero. Viene lanciata la campagna Suona reggio suona che il 16 novembre porterà in piazza i cittadini che amano la musica libera. Ma soprattutto il Museo non ferma nemmeno un giorno le proprie attività: gli strumenti superstiti prendono vita già nelle prime ore dopo l’incendio e decine di volontari si danno il cambio per ripulire i tesori rimasti e ripristinare la struttura. Uno spettacolo vivente, il potere della musica che unisce e resiste.

Perché Reggio Calabria è anche questo. La città dei mille fuochi, degli incendi dolosi senza colpevole e dei pacchi bomba misteriosi spesso sa anche esprimere l’alternativa. Nelle stesse ore in cui i cittadini volontari rispristinano il Museo dello strumento musicale, dall’altra parte della città, l’associazione Pagliacci Clandestini- Freckles – che da anni usa le arti clownistiche come strumento di resistenza culturale- decide di compiere un passo avanti nella valorizzazione dei beni pubblici e nella creazione di spazi comuni. L’emeroteca costruita dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria in via Palmi (zona sud della città nei pressi del già citato Viale Calabria) e mai entrata in funzione, dall’8 novembre scorso è sede delle attività del gruppo a seguito di un’occupazione simbolica. La magia che si sta compiendo parte dal coinvolgimento della comunità che ha affiancato, insieme a decine di realtà cittadine, i pagliacci nelle attività di pulizia esterna dello stabile. In questi giorni la parola passerà nuovamente alle istituzioni: sarà compito della triade commissariale completare la procedura di affidamento del bene. Quello spazio finalmente potrà essere vissuto e reso pubblico. I Pagliacci Clandestini ci metteranno il loro spirito, ma è ai cittadini delle case popolari che circondano il bene comunale che chiederanno di essere protagonisti.

novembre 12, 2013   Commenti disabilitati su Assedio alla cultura: la cronaca di 3 anni di roghi

Boss e funerali, questione di “potere”

Reggio Calabria – I morti di ‘ndrangheta non dormono in collina come quelli raccontati da Edgar Lee Master o cantati da Fabrizio De Andrè. Per una naturale legge del contrappasso le cosche non hanno mai conosciuto il suonatore Jones o quelli che, con lui, riuscissero a diventare esempi di una vita straordinaria nella propria normalità. Chi in vita esercita e si fa scudo del potere criminale muore da miserabile. La storia non lo ricorda, se non come pedina nello strano scacchiere della criminalità organizzata, il tavolo da gioco dove tutti saranno essere vinti ed apparenti vincitori. Anche i capi più potenti, i "supremi" in vita, da morti servono solo a delineare confini, a stabilire equilibri, a sancire cambi al vertice. È successo anche ai boss di ‘ndrangheta.

Antonio Macrì (nella foto accanto) è stato tra gli anni Cinquanta e Sessanta il boss indiscusso della Locride. Un capobastone vecchio stampo che ordinava uccisioni e ordiva intrecci criminali. Non solo, u zzi ‘Ntoni era un capo di caratura internazionale, con contatti in Canada, Stati Uniti e Australia, affiliato a Cosa Nostra e molto attento al rispetto del codice tradizionale della ‘ndrangheta. Fu lui, infatti, ad opporsi strenuamente al cambio di strategia criminale, al passaggio ai nuovi affari dei sequestri di persona e dei traffici internazionali di stupefacenti. Probabilmente anche per questo fu ammazzato. Era il 20 gennaio 1975 quando gli spararono contro decine di colpi di pistola, uccidendolo e ferendo gravemente il suo luogotenente Francesco Commisso. L’agguato, scattato in contrada Zammariti, nella "sua" Siderno, fu ordito all’esterno del suo territorio e segnò il cambiamento di equilibri. Il suo funerale – ricostruiscono le cronache – fu quello di un capo di Stato. Le foto dell’epoca ci raccontano che furono in migliaia ad invadere la città, con un lunghissimo corteo funebre. Gli esercizi commerciali chiusero in segno di lutto. I fiori e le delegazioni diplomatiche della ‘ndrangheta che parla urbi et orbi invasero il "regno" di Macrì, morto come un affiliato qualsiasi. E dopo la sua morte la ‘ndrangheta cambia volto. La strada del "rinnovamento" è spianata. Rimane solo l’ombra del giudice che era stato arbitro in terra del bene e del male. A segnare il passo di un cambiamento.

Il rapporto tra la celebrazione della morte dei boss e l’esercizio del potere è essenziale nel modus operandi delle cosche. Era il 7 novembre del 1976 quando a Gioiosa Jonica il clan degli Ursini decise che in segno di lutto quella mattina non si doveva tenere mercato. Andava vendicata la morte del boss Vincenzo Ursini, ucciso dagli uomini del Capitano Niglio il giorno precedente. Sin dall’alba i fedelissimi del capo circondarono il paese dissuadendo commercianti e venditori ambulanti dall’aprire bottega. Piazza Vittorio Veneto- dove ogni giorno si teneva il mercato- quella mattina rimase deserta. Le saracinesche degli esercizi commerciali abbassate, come in ogni lutto che si rispetti. Tutto il paese era chiamato a celebrare e condannare la morte del boss. Quella mattina, e nei mesi a venire, fu il coraggio di Rocco Gatto ad opporre al silenzio la forza della denuncia ed a consentire ai carabinieri di riportare l’ordine. Ma il segnale il clan lo aveva lanciato forte e chiaro. Le bocche, tranne quella di Rocco, rimasero cucite e vennero ritrattate le prime testimonianze. Quel lutto forzoso aveva colpito nel segno.

Negli stessi anni in cui Antonio Macrì dominava la Locride, Girolamo Piromalli spadroneggiava nella Piana di Gioia Tauro. Anche lui era un capo vecchio stampo, ma la sua visione strategica presupponeva alcune scelte che la ‘ndrangheta fino ad allora non aveva mai compiuto: l’alleanza con le istituzioni tramite la massoneria in vista dell’accaparramento degli appalti pubblici. La svolta, non indolore, fruttò alla malavita calabrese miliardi di lire di incasso in un territorio destinatario di ingenti finanziamenti statali a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Don Mommo, dunque, riuscì a scampare ai colpi del fuoco "amico" della prima guerra di ‘ndrangheta e morì di cirrosi epatica l’11 febbraio del 1979. Se è vero che quando si muore si muore soli, non è dato sapere cosa contenesse il suo testamento. Ma al suo funerale, celebrato a Gioia Tauro in un giorno di pioggia, sembra ci fossero 6.000 persone. Il suo feretro, nelle immagini di repertorio, scivola imponente, intarsiato d’argento e coperto da decine di fiori rossi portato a spalla dai fedelissimi. Il boss che da un letto dell’ospedale di Messina raccontava al giornalista Joe Marrazzo di non essere mafioso ma benvoluto dalla povera gente è accompagnato, fuori dalla chiesa di Sant’Ippolito, il duomo di Gioia Tauro, da uomini e donne di ogni estrazione sociale. Centinaia di corone di fiori sfilano lungo le strade tra le braccia di uomini e ragazzini che si fanno, con piglio orgoglioso, inquadrare dalle telecamere. Dettagli e cifre che fanno impressione. Che ci parlano di complicità diffuse, di responsabilità trasversali.

Ma gli anni passano ed i tempi cambiano. Damiano Vallelunga, il presunto boss del clan dei Viperari di Serra San Bruno, viene ucciso a Riace durante la festa dei Santi Cosma e Damiano il 27 settembre 2009. Per i suoi funerali niente cortei o corone di fiori né chiese matrici. Ad accompagnare le esequie, celebrate all’alba presso il cimitero del centro del Vibonese, sono stati gli sguardi vigili delle forze dell’ordine, gli odiati "sbirri". Il suo fu un funerale ritenuto rischioso per l’ordine pubblico ed il questore di Vibo Valentia ordinò di celebrarlo in forma "privata". Nessuno vi si oppose e nessuno fu più disposto ad occupare le strade per un boss. Perché oggi in Calabria ci sono anche preti che rifiutano le esequie solenni, tracciando con nettezza il confine tra il bene ed il male, e ci sono soprattutto cittadini che di certe morti hanno vergogna. Sempre più consapevoli della nudità dei re.

ottobre 28, 2013   Commenti disabilitati su Boss e funerali, questione di “potere”

Celestino Fava, vittima innocente e senza giustizia

PALIZZI – C’è e ha visto. La mattina del 29 novembre 1996, nelle campagne di Palizzi, Celestino Fava è colpevole di esistere. Di essere spuntato come un elemento inatteso tra i piani di chi, quel giorno e quell’ora, li aveva scelti da tempo per ammazzare Nino Moio, l’amico che per un caso sta accompagnando. E’ una "variabile" umana che non merita ripensamenti, che non riceve salvacondotti o sconti. Lo troveranno ad un centinaio di metri di distanza da Moio, uccisi entrambi a colpi di fucile. A sommarli, gli anni che si portavano addosso, non erano neppure cinquanta.

In quei giorni il balletto delle "colpe" si accompagna, come sempre, allo sconcerto e alla solidarietà. Nelle ricostruzioni dei giornali e nel chiacchiericcio delle case le ipotesi si rincorrono: sgarro, questioni di donne, vendetta trasversale, pascolo abusivo. Un copione frequente in Calabria, dove sul banco degli imputati, nell’attesa, troppe volte delusa, di trascinarci gli assassini, ci finiscono prima le vittime e i loro familiari. Solo che a casa Fava, se ti metti a scavare, trovi solo sudore e dignità. Lo capiscono subito i carabinieri. Lo capisce subito il giovane sostituto procuratore di Locri, Francesco Cascini, appena arrivato in Calabria. I 22 anni di vita di Celestino non hanno ombre. Sono un album di foto di famiglia in cui tutti sorridono: papà Totò che fa il ferroviere, mamma Anna e Antonino, il gemello di Celestino. Due gocce d’acqua. Gli amici, con il tempo, hanno imparato a distinguerli da un piccolo neo che Celestino ha sul mento. Gli studi superiori a Brancaleone, il servizio militare, l’iscrizione all’università, il volontariato. La vita del ragazzo scorre come un fiume tranquillo. Ha acque cristalline. Fino alla mattina del 29 novembre 1996.

Nino Moio suona il campanello di casa Fava. Ha 27 anni, nessun precedente e aiuta il padre nel lavoro dei campi. Come ogni mattina deve raggiungere la porcilaia in contrada Guni, nelle campagne di Palizzi, e cerca un amico che gli faccia compagnia. Celestino salta dal letto. Pochi istanti e i due ragazzi sono in macchina, costeggiano i campi, si allontanano dal centro abitato. Sul posto Nino scende e va ad accudire gli animali. Celestino resta vicino all’auto. Le indagini parleranno di una jeep con a bordo due persone. Di certo l’agguato era stato studiato da tempo. Studiate le abitudini e i tempi della vittima designata. Il primo a morire è Nino Moio, fulminato vicino al recinto della porcilaia. Poi il killer, forse tornando sui propri passi, si accorge di Celestino. Un testimone scomodo. Un testimone da neutralizzare. Fa fuoco e uccide una seconda volta.

Per Celestino e Nino sarà proclamato il lutto cittadino. In memoria di Celestino e Nino il 2 dicembre scenderanno in strada anche gli studenti dell’istituto tecnico commerciale di Brancaleone frequentato dal ragazzo. Con il trascorrere dei mesi, degli anni, lo sdegno e il ricordo, però, si stempereranno fino a scomparire. "Manca solo l’ultimo tassello, ormai abbiamo il quadro chiaro", garantisce Cascini a Totò e Anna che per mesi frequenteranno solo la tomba del figlio, nel cimitero di Palizzi, e le scale del tribunale di Locri. L’ultimo tassello non è mai arrivato. Le indagini sul duplice omicidio di Celestino Fava e Antonino Moio sono state archiviate. Ai Fava non è rimasto che il cimitero. E per anni da casa ci usciranno solo per trascinare il dolore davanti alla lapide di Celestino. Due, tre volte al giorno. Qualche volta anche di notte. Cancellati alla vita. Fino alla breccia aperta dall’incontro con altri familiari di vittime innocenti della Locride. Fino al cammino di condivisione e testimonianza che Anna e Totò Fava, nel nome di Celestino, hanno intrapreso e stanno percorrendo a fianco di Libera. In tenace attesa che alla memoria possa unirsi, un giorno o l’altro, anche la giustizia.

marzo 21, 2013   Commenti disabilitati su Celestino Fava, vittima innocente e senza giustizia

‘Ndrine e narcotraffico, prossima fermata: Cuba

È unica, Cuba. Lo è per la sua bellezza e per la sua lussureggiante natura. Lo è anche per il carattere battagliero dei suoi abitanti. È unica e irripetibile, anche e soprattutto per le sue controverse dinamiche storiche, per la sua trasformazione sociale, economica, politica e culturale. È unica, addirittura, per l’intermittente e singolare presenza delle organizzazioni mafiose sul suo suolo scaldato dal sole e ombreggiato dalla Sierra Maestra. Incrociare questi due aspetti, presenza criminale ed evoluzione di un modello socio-economico che non conosce eguali al mondo, potrebbe rivelarsi un esercizio ricco di interesse e di sorprese.

Partiamo da un presupposto: l’intero continente sudamericano costituisce la zona più calda per il traffico di droga, e la mafia, in particolare quella calabrese, ha, oggi, in questo scorcio di mondo, i suoi feudi più importanti: Colombia, Ecuador, Paraguay, Cile, Uruguay, Bolivia, Antille Olandesi, Perù, Brasile e Argentina. Aggiungiamo un secondo presupposto: a Cuba, oggi, le ‘ndrine non dispongono di filiali né di plenipotenziari. Almeno non ufficialmente. Eppure, storicamente, si hanno delle tracce importanti di calabresi dal doppio battesimo che hanno messo piede e lupara sull’Isola, anche se, inizialmente e per lungo tempo, dipendenti e subordinati alla potente mafia siculo-americana. Frank Costello e Albert Anastasia, entrambi mafiosi ed entrambi di origine calabrese, ad esempio, erano molto temuti negli States, e furono proprio loro, i primi boss dal sangue calabro a mettere piede sull’isola caraibica. Lo fecero in grande stile, nel migliore dei modi, prendendo parte al famoso summit di mafia che si tenne presso l’hotel Nacional, a L’Havana, capitale cubana, nel giugno del 1946 e che venne raccontato magistralmente nel film capolavoro di Coppola, Il Padrino.

A quel vertice, presieduto dal superboss Lucky Luciano, che ai tempi coltivava amicali rapporti con il dittatore Batista e il suo establishment governativo, presero parte anche Joe Adonis, Tom Lucchese, Willie Moretti, Toni Accardi, i fratelli Fiaschetti (parenti di Al Capone) e Santo Trafficante, potentissimo capomafia della Florida, oltre a Giuseppe Bonanno e Vito Genovese. Durante quel summit, venne definita la divisione de L’Havana in zone per il gioco d’azzardo e per gli altri vizi delle famiglie di mala italo-americane. Compreso il traffico di droga che in quegli anni iniziava a muovere i primi passi nel commercio internazionale, e l’Isola era ormai diventata uno dei principali mercati e il luogo di transito preferito verso gli Stati Uniti. In quell’occasione, i capi-mafia decisero di investire enormi capitali in quella meravigliosa isola, e decisero di farlo nel settore turistico. Tanto a L’Havana quanto a Varadero si iniziarono a costruire nuovi hotels, tutti con i rispettivi casinò e sale da gioco. Tutti luoghi ideali dove soddisfare gli stravizi degli esigenti americani: sesso, droga, alcool, gioco d’azzardo.

Poi, qualcosa cambiò, irrimediabilmente. Era il 1 gennaio del 1959 quando i barbudos guidati da Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos entrarono vittoriosi a L’Havana con Fidel Castro che nel frattempo espugnava Santiago de Cuba, costringendo il colluso dittatore Fulgencio Batista a riparare a Santo Domingo, nella Repubblica Domenicana. Con il trionfo della Rivoluzione, oltre a tutti i risvolti politico-diplomatici che ne seguirono, vennero anche sradicate tutte le distorsioni sociali generate dal regime: prostituzione, traffico di droga, latifondismo e il gioco d’azzardo. Furono espulsi anche tutti i mafiosi e i loro beni nazionalizzati. Non deve quindi stupire che la Cia abbia cercato, più volte, la cooperazione della specializzata manodopera mafiosa per organizzare gli attentati ai fratelli Castro e a Che Guevara. Con l’arrivo dei ribelli al governo, crollò, però, anche il nascituro settore turistico. A causa delle restrizioni imposte dal governo di Washington, il turismo per anni si azzerò completamente. Ma non fu un dramma irreparabile. La produzione della canna da zucchero e il sostegno politico-commerciale di Mosca, alla quale Cuba si era allineata, permisero al direttivo comunista di far ripartire il paese. Poi tutto mutò di nuovo. Ancora.

Era il 1989 e il crollo sovietico, colpì, come un domino, anche la fragile economia isolana. Iniziò la crisi. Período Especial lo chiamarono i cubani. In questa fase, il turismo e l’apertura a nuovi capitali stranieri appariva l’unica soluzione. La scelta si rivelò profetica: nonostante i primi complicati momenti, in pochi anni il settore turistico divenne il traino dell’economia nazionale. Ma senza non pochi effetti collaterali. Da quando la nazione si è aperta ai flussi turistici internazionali e, di conseguenza, agli investimenti stranieri e, quindi, a politiche di embrionale stampo neo-liberista, è innanzitutto riapparsa con prepotenza la prostituzione, lo jineterismo, come lo chiamano i cubani. Ufficialmente condannata dal regime, il mestiere più antico del mondo viene di fatto tollerato dalle autorità, visto che costituisce una delle principali voci dell’economia nazionale e fonte di sostentamento per migliaia di famiglie, perché è proprio in quell’elementare commercio che si alza il livello della ricchezza pro capite. Ma soprattutto l’utilizzo e il commercio di sostante stupefacenti, prima inesistenti, hanno iniziato a registrare una crescita considerevole. Ed è questo il passaggio fondamentale della nostra analisi, perché dove c’è polverina bianca ci sono soldi e dove ci sono soldi, presto o tardi, arrivano anche loro, i pungiuti di Calabria.

Procediamo con ordine. Nel 1989, quattro funzionari cubani, tra cui il rispettato e osannato generale Arnaldo Ochoa, vennero giustiziati perché accusati di essere in contatto e in affari con il narco-cartello colombiano di Pablo Escobar. I servizi di controspionaggio parlarono di contrabbando di 6 tonnellate di cocaina tra Colombia e Stati Uniti, per un totale di 3,5 milioni di dollari. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1998 fu intercettata una spedizione di 7,2 tonnellate di coca diretta a Cuba, facendo immaginare che la via fosse stata già percorsa da altri ingenti carichi. Secondo le fonti ufficiali del governo cubano, nel solo 2011 sono state sequestrate nove tonnellate di sostanze stupefacenti, tre in più rispetto all’anno precedente. Ovviamente, con l’aumento degli affari, i narco-cartelli vengono spinti a trovare nuove rotte e a forzare con tutti i mezzi gli ostacoli che Cuba pone tra la Colombia e il più grande consumatore mondiale di cocaina, gli Stati Uniti, dove la ‘ndrangheta ha scavallato ampiamente Cosa Nostra, tanto da essere inserita nella black list dell’Fbi, come una delle 75 organizzazioni criminali dedite al narcotraffico. A ciò si aggiunga che gli alti livelli di coesione sociale, garantiti dall’impalcatura istituzionale di tipo socialista, iniziano a calare a causa della penetrazione di questi mali tipici delle società capitaliste. Il reinserimento dell’economia cubana nei mercati internazionali, dove prevalgono le regole della globalizzazione neoliberale, ha infatti innescato una ristrutturazione economica, che privilegia attività e spazi produttivi che garantiscono maggiori possibilità di rispondere efficacemente alle esigenze del mercato. Ciò ha generato un processo di eterogenizzazione degli attori e delle società locali, differenziazione inter-territoriale, moltiplicazione dei rapporti tra il locale e il globale, alterando di conseguenza i tratti della struttura socio-territoriale e il suo ruolo nella riproduzione delle relazioni sociali.

Ora il quadro è completo: prostituzione, disgregazione sociale, neo-liberismo e potenzialità enormi per il narco-traffico. In altre parole Cuba potrebbe divenire nei prossimi anni un gigantesco affare per gli affamati broker delle ‘ndrine calabresi. Certo Castro non è Batista, ma certo è anche che le ‘ndrine calabresi sono altra cosa rispetto alla vecchia mafia siculo-newyorkese di Lucky Luciano, visto che per la Casa Bianca figura al quarto posto tra le organizzazioni mondiali più pericolose, dopo Al Qaeda, il Pkk e i narcos messicani. Proprio con questi ultimi, che controllano ormai l’intera fornitura di cocaina negli Stati Uniti, gli ‘ndranghetisti sono in affari e in combutta per estendere i loro loschi progetti di dominio criminale. Cuba compresa.

dicembre 4, 2012   Commenti disabilitati su ‘Ndrine e narcotraffico, prossima fermata: Cuba

Calabria, i “pretacci” di frontiera odiati dalle cosche

Dove c’è una frontiera c’è sempre un avamposto. È un luogo di resistenza e ripartenza. L’avamposto non è mai statico, cambia in meglio o in peggio la storia degli uomini. La Calabria non è frontiera, i suoi paesi e le sue città non sono frontiera. Le sue persone, a volte, sì. Lo sono quando giurano fedeltà a un’organizzazione mafiosa, lo diventano quando si girano dall’altra parte. Sono frontiere della violenza e della libertà negata. In Calabria anche le persone diventano avamposti quando, giorno dopo giorno, con il loro essere cercano di strappare la libertà a chi l’ha rubata per restituirla alle persone. In “senza targa” li abbiamo chiamati apostoli di buonavita, ne abbiamo raccontati dodici. Tre di loro sono sacerdoti, la ‘ndrangheta li ha eletti come propri nemici. Sono don Pino Demasi, referente di Libera nella Piana di Gioia Tauro, parroco nel Duomo di Polistena e punto di riferimento della resistenza antimafia, don Giacomo Panizza, che ha voluto emigrare al contrario per fondare la comunità Progetto Sud a Lamezia Terme, don Ennio Stamile, parroco della parrocchia di San Benedetto a Cetraro, un prete che proprio non sa stare zitto.

Don Pino Demasi si racconta così in “senza targa”: «Mi porto dietro due icone. Mio padre che prende la valigia con lo spago per emigrare e la situazione economica e sociale della mia cittadina d’origine, con una faida che ha lasciato morti per le strade. Immagini che mi hanno spinto a fare sì il prete, ma in una logica diversa». Una logica diversa e semplice: il Vangelo è incompatibile con la mafia, il percorso di un sacerdote non si può scindere dall’impegno antimafia. Impegno che ha tante facce. Quella della cooperativa Valle del Marro, che lavora nei terreni confiscati ai clan e che per questo subisce attentati e intimidazioni continue. Quella dei giovani che vogliono affrancarsi dalle famiglie d’origine e che in don Pino trovano una fune alla quale aggrapparsi. Quella della Nazionale di Calcio, arrivata a Rizziconi, ad allenarsi in un campetto costruito su un terreno confiscato alle cosche che nessuno aveva avuto il coraggio di utilizzare. Nato a Cittanova il 27 settembre 1951, i suoi inizi come sacerdote coincidono con la fase di attuazione del “pacchetto Colombo”, la chimera di migliaia e migliaia di posti di lavoro, che nella Piana di Gioia Tauro significherà la scarnificazione di un’area ricca di uliveti e agrumeti per far posto al nulla. Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta si fa impresa con la gestione del movimento terra, sono gli anni in cui don Pino vede, a Polistena, cento giovani portare 200 corone di fiori ai funerali dei boss. Boss che, negli anni successivi, per la forte presa di posizione del sacerdote, non potranno più avere un funerale in Chiesa. Almeno da queste parti.

Don Giacomo Panizza a Lamezia Terme è il “noi”. Un noi rappresentato dalla comunità Progetto Sud, dalla comunità “Pensieri e parole”, che ha sede in un immobile confiscato al potente clan Torcasio, da un universo di associazioni, comunità, cooperative che ruotano attorno al nucleo originario. I disabili che si autogestiscono e producono ciò che serve al loro sostentamento, i tossicodipendenti, gli emarginati, i malati di Aids, gli immigrati, gli omosessuali discriminati: è questa la famiglia di don Giacomo. Un sacerdote che è un’ossessione per la ‘ndrangheta, soprattutto da quando ha deciso di sfidare i clan prendendosi le loro case. Un mafioso lo aveva minacciato di morte, davanti alla polizia: il caso ha voluto che quello stesso uomo, appena uscito dal carcere, fosse assassinato prima di poter mantenere la sua promessa. Ma le pressioni non si sono mai fermate. Dal 2002 vive con un programma di protezione e, da allora, la comunità è sotto tiro con continui attentati e intimidazioni. Don Panizza è diventato un caso nazionale dopo essere finito nel 2010 da Fazio e Saviano a “Vieni via con me”. Molti gli hanno chiesto: “Fai da simbolo, fai da traino”. Ma lui è un tipo pratico. È uomo di pensiero, innamorato dell’azione. Nato il 4 febbraio 1947 a Pontoglio, in provincia di Brescia, dopo la quinta elementare è andato in fabbrica. Da seminarista frequentava il bar “Ai Miracoli”. «Da lì vedevo di tutto: studenti, barboni, prostitute», racconta. Ma dopo la strage di Piazza della Loggia il bar è messo sotto sopra per il sospetto di collegamenti con le frange anarchiche. Non tira un’aria buona e Giacomo Panizza, non ancora sacerdote, va via da Brescia e finisce nelle Marche, dove incontra il mondo dell’handicap nella comunità di Capodarco. Un’esperienza che sarà esportata a Lamezia, in quest’emigrazione al contrario che si nutre, ogni giorno, di giustizia, uguaglianza e, come lui raccomanda, della capacità di “fare bene il bene”.

Don Ennio Stamile è un sacerdote simbolo in un paese simbolo, Cetraro. Una perla del mare Tirreno, nel Cosentino, che tra la fine degli Anni ’70 e la fine degli ’80 è stata teatro di numerosi omicidi, di una cruenta faida. Una perla il cui nome è stato abbinato alle navi dei veleni e a un martire della legalità, Giannino Losardo. Don Ennio è il prete. Don Ennio è l’amico, è il compagno di mangiate, è il punto di riferimento della comunità quando si devono affrontare gli argomenti più importanti. Nato il 15 novembre 1964 a San Giacomo di Cerzeto, in provincia di Cosenza, è il parroco di San Benedetto. Dal 2006 al 2011 è stato il delegato regionale della Caritas calabrese. Autore di numerose pubblicazioni, scrive sulla stampa locale.
Nella notte tra venerdì 27 e sabato 28 gennaio 2012 qualcuno si è introdotto nella casa canonica in cui abita, lasciando sul cancello del cortile una testa di maiale mozzata con un lembo di stoffa in bocca, per simboleggiare un macabro bavaglio. La domenica precedente la sua autovettura era stata sfregiata con oggetti appuntiti. Don Ennio si era molto esposto nelle proprie omelie, parlando di legge della giungla a Cetraro: maltrattamenti e rapine agli anziani, tangenti agli autisti dei pullman che portano le badanti, furti nelle case, psicolabili massacrati di botte. La reazione è stata eclatante e quello che gli ha messo la testa di maiale si è presentato qualche giorno dopo in confessionale. «Mi perdoni?». «Sì». «Mi confessi?». «No». «Sono buono, non sono fesso. Vorresti dirmi delle cose, in confessionale, che non potrei ripetere all’autorità giudiziaria. Ma io sono sottoposto alle leggi dello Stato italiano, oltre che alle leggi di Dio. Vatti a confessare da un altro sacerdote». È buono ma non è fesso, don Ennio. E non riesce a stare zitto quando si ritrova una famiglia mafiosa in Chiesa: quelle sì che sono omelie che tutti dovrebbero sentire.

settembre 6, 2012   Commenti disabilitati su Calabria, i “pretacci” di frontiera odiati dalle cosche

Mafia, le “linee guida” della Chiesa calabrese

REGGIO CALABRIA – Cominciato con un’analisi cauta della piaga mafiosa nell’ambito di una lettura ad ampio raggio dei problemi meridionali, la posizione ufficiale della
Chiesa nei confronti della ‘ndrangheta, restituita da decenni di documenti, note, lettere pastorali, sembra seguire la traiettoria precisa di un crescendo, con prese di posizioni sempre più dettagliate, avanzate e marcate nel segno di un impegno contro "la piaga disonorante della società".

"La carenza di moralità è coerente conseguenza di un deficit di spiritualità". È quello che l’intero episcopato meridionale (17 arcivescovi, 55 vescovi, 2 prelati e 3 abati) afferma il 25 gennaio 1948 in una lettera collettiva dal titolo I problemi del Mezzogiorno. Nel documento compaiono diverse prese di posizione che segnano un primo passo verso il riconoscimento del peso del fenomeno mafioso all’interno della situazione sociale del Sud. «L’arretratezza culturale […] non è dovuta tanto alle deficienze della scuola quanto a fenomeni [… come] il clientelismo, l’individualismo esasperato ed il disinteresse per il bene comune e per la cosa pubblica, uno scarso spirito di intraprendenza e di rischio, il rifuggire da impegni e responsabilità troppo gravose, la tendenza a tutto attendere dallo Stato, ad addossare a esso anche colpe e responsabilità che non sono sue, uno spirito di fatalistica rassegnazione, una certa tendenza al parassitismo sociale (…). Questi fenomeni sono in gran parte reazioni di difesa contro le angherie, i soprusi, gli inganni, e lo sfruttamento cui sono state sottoposte per secoli le popolazioni del Sud e, nello stesso tempo, sono il frutto dello stato di passività, di inerzia e di abbandono in cui il Mezzogiorno è stato tenuto da tutti coloro che avrebbero dovuto adoperarsi per crearvi condizioni di crescita culturale e umana».

Quasi trent’anni dopo, nel 1975, la Conferenza Episcopale della Calabria, con il contributo fondamentale dell’arcivescovo di Reggio, monsignor Giovanni Ferro, precisa l’obiettivo ed esprime una durissima condanna del crimine organizzato nella lettera "L’Episcopato calabro contro la mafia, disonorante piaga della società". I vescovi calabresi dunque, per la prima volta in modo corale e determinato, «levano la voce» contro il «doloroso e triste fenomeno della mafia, disonorante piaga della società, segno di arretratezza socio economica e culturale e di involuzione morale e civica, che oramai si estende sempre più audace con collegamenti e collaborazione multiformi tra gruppi di perfidi avventurieri del Meridione ed esponenti della più spregiudicata delinquenza del Nord». Il fenomeno mafioso viene definito senza esitazione «cancro esiziale e soprastruttura parassitaria che rode la nostra compagine sociale, succhia con i taglieggiamenti il frutto di onesto lavoro, dissolve i gangli della vita civile; con sequestri […] e con uccisioni cinicamente consumate, irride e calpesta i valori più alti, gli affetti più sacri della vita». Crisi di valori, fame del denaro, sete del potere, bramosia del successo sono indicate come la causa di tutto. Cosa può fare la Chiesa? Ancora una volta si sottolinea la convinzione che «la formazione delle coscienze è il contributo più prezioso della Chiesa nella lotta contro la mafia e per l’effettivo decollo della Regione». L’obiettivo è raggiungere l’unità tra vita individuale e vita sociale. Se la devozione popolare si discosta dalla fede autentica che è ascolto esistenziale della volontà divina, rischia di scadere in "vuoto sentimentalismo che si nutre di pratiche pietistiche. La devozione, se autentica, invece trasforma la vita".

Altra tappa fondamentale, quella segnata nel 2007 a Falerna dal convegno "E’ cosa nostra" organizzato dalla Caritas Calabria: "La ‘ndrangheta è un fenomeno umiliante e mortificante per la società, ma anche per lo Stato nel quale viviamo", dichiara mons. Domenico Tarcisio Cortese, delegato della Conferenza episcopale calabra per la Caritas. Il testo è ricco di affermazioni forti, che adeguano la linea ufficiale al percorso pratico seguito da chi svolge da decenni la propria parte contro la ‘ndrangheta nei territori dove la scelta di campo è netta e non priva di rischi, neanche per gli uomini di chiesa. È questa chiesa che si impegna assieme a famiglia e scuola, a "svuotare la mentalità mafiosa nelle nuove generazioni, che rappresentano il futuro della nostra terra". Viene fuori l’immagine di una Chiesa calabrese sempre più consapevole del proprio territorio e delle interazioni tra le sue problematiche: "Più volte abbiamo affrontato temi come la tratta, il mancato sviluppo, la disoccupazione, la mala sanità ecc. ma ci siamo accorti che non si può intervenire in modo radicale su questi problemi della società calabrese e non solo, se non si capisce e non si aggredisce il fenomeno mafioso".

Sempre nel 2007 viene elaborato il documento della Conferenza Episcopale Calabra dal titolo "Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo". Nel testo viene ribadita la necessità di "individuare i passi da compiere per costruire una società più giusta e solidale, tale proprio perché finalmente sciolta dalle catene del peccato e del male imposte dalle organizzazioni criminali". Bisogna chiedersi che tipo di cultura della vita e della legalità viene percepita oggi dai cristiani, dalle famiglie, dai gruppi e dalle comunità parrocchiali? "Le mafie, di cui la ‘ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa, costituiscono un nemico per il presente e l’avvenire della nostra Calabria. Noi dobbiamo contrastarle, perché nemiche del Vangelo e della comunità umana".

Infine, a Cosenza pochi giorni fa l’arcivescovo di Cosenza – Bisignano, monsignor Salvatore Nunnari, celebrando l’eucarestia per i 30 anni della morte del generale Carlo Alberto Della Chiesa, ha annunciato la distribuzione una sua riflessione pastorale dal titolo ”Mi appello a voi, uomini della mafia” che denuncia la ”devastante presenza” di un’organizzazione che ”alla terra calabrese fa pagare un altissimo prezzo a livello sociale, economico e religioso in termini di arretratezza, di serenità e di sviluppo".

settembre 6, 2012   Commenti disabilitati su Mafia, le “linee guida” della Chiesa calabrese

I guai di don Nuccio, imputato per falsa testimonianza

REGGIO CALABRIA – "Qualche giorno dopo don Nuccio, vedendo passare mia moglie, la fermò […] dicendole che continuare nella associazione avrebbe comportato il rischio di subire un altro incendio alla nostra attività…”.

Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino titolare della sanitaria "Sant’Elia”, racconta così agli inquirenti della Dda reggina il ruolo che don Nuccio Cannizzaro avrebbe avuto nella vicenda che lo portò a subire, nell’arco di pochi anni, due incendi dolosi alla propria attività commerciale e un attentato alla propria vita. Don Nuccio Cannizzaro non è un anonimo prete di periferia.Cappellano della Polizia municipale e gran cerimoniere del vescovo di Reggio, Vittorio Mondello, è un sacerdote molto noto a Reggio Calabria, che però non ha mai smesso di interessarsi della propria parrocchia di Condera. "Lavorare in una parrocchia come quella mia – dichiara il sacerdote interrogato dai pm reggini nell’aprile 2011 – è difficile! Il problema di fondo è che noi siamo persone fondamentalmente sole che dobbiamo combattere con una mentalità mafiosa difficile da sradicare e quello che dobbiamo fare noi come preti è quello di cercare intanto di ascoltare tutti”.

Ma questo "ascoltare tutti”, secondo la procura di Reggio e secondo il Gup che lo ha rinviato a giudizio per falsa testimonianza, comprenderebbe anche le voci di Santo Crucitti e Salvatore Mario Chilà, ritenuti rispettivamente ”capolocale” e luogotenente della ‘ndrina di Condera, orbitante attorno alla ”galassia” criminale Tegano-Condello, dedita soprattutto all’edilizia e, come risulterà dalle stesse intercettazioni dell’operazione ”Raccordo-Sistema”, non priva di frequentazioni politiche. La vicenda, però, merita di essere ricostruita con ordine.

L’inchiesta – L’11 aprile 2011 don Nuccio Cannizzaro viene indagato nell’operazione ”Raccordo” nella quale finiscono in manette, tra gli altri, proprio Crucitti e Chilà. Per i due l’accusa è di estorsione e associazione mafiosa (Crucitti ha già subito una condanna definitiva) perchè ”avvalendosi della forza di intimidazione che scaturisce dal vincolo associativo – recita il dispositivo emanato dai pm – e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà" avrebbero conseguito alcuni importanti vantaggi. In particolare "patrimoniali dalle attività economiche che si svolgevano sul territorio, o attraverso la partecipazione alle stesse, ovvero con la riscossione di somme di danaro a titolo di compendio estorsivo”. L’accusa contro il sacerdote è quella di avere rilasciato falsa testimonianza nella sede processuale in cui, nel 2010, era stato condannato lo stesso Crucitti (e la testimonianza del prelato dichiarata inattendibile), allo scopo di favorire la posizione giudiziaria del boss di Condera.

Nel processo che condanna Santo Crucitti per associazione a delinquere di stampo mafioso, però, non testimonia soltanto il sacerdote, ma anche Consolato Marcianò. Anche le sue dichiarazioni verranno definite ”chiaramente compiacenti” e colui che doveva essere il promotore assieme a Tiberio Bentivoglio dell’iniziativa sociale sgradita ai boss, va a sfogare la paura di ritorsioni da parte di Crucitti proprio dal prete del rione: ”(…) sapete come è andata a finire? (inc…) – dice Marcianò a Don Nuccio – …che Santo mi ha chiamato e ni vittimo (e ci siamo visti ndr) a piazza Carmine, pigghiau e mi dissi (e mi ha detto ndr): La DEVI PAGARE TU SE MI AZZICCANO, MI ATTACCANO INTRA (mi arrestano ndr) .Ci dissi; vai, vai leggiti i cosi (vai a leggerti le cose ndr)…vai a leggerti i cosi, come ti ho testimoniato tre volte a favore tuo (…)”. "…ma io gli ho detto che quando sei venuto tu, gli ho fatto le dichiarazioni per lui, per aiutarlo…lo aiutai…" – risponde don Nuccio – "(…) è venuto, è venuto a dirmi, tu, che, che Crucitti si è incontrava ….inc… chi è sta cosa? E tu ci dicisti e va bo’, basta finiu u film, non ti ha minacciato e non ti ha fatto niente. Io gliel’ho detto(le voci si accavallano Consolato tenta di intervenire)non ti ha minacciato(…)ti ha minacciato?..no! non ti ha minacciato(…)". Secondo gli inquirenti, è chiaro l’intento del sacerdote di mettere ”pace” e di proteggere l’operato del boss nonostante avesse saputo delle nuove minacce subite da Marcianò per avere tentato di avviare della attività sociali e ricreative nel proprio quartiere attraverso l’associazione ”Harmos”.

Oggi don Cannizzaro attende giudizio per quello che, per un uomo di Chiesa, sarebbe un peccato mortale, oltre che un reato gravissimo: falsa testimonianza. Se le accuse dovessero essere confermate, significherebbe che il noto sacerdote sarebbe andato ben oltre l’omertà, assicurando un sostegno fattivo a un uomo che tutti i pentiti, e una sentenza di primo grado del Tribunale di Reggio Calabria, riconoscono unanimemente come estorsore e ‘ndranghetista.

settembre 3, 2012   Commenti disabilitati su I guai di don Nuccio, imputato per falsa testimonianza