Category — nazionali
Lo zio di Giusy Pesce: ha bisogno dello psichiatra
ROSARNO – ”Da lunedì che inizierete a sentire mia nipote vi consiglio di munirvi
di uno psichiatra. Si, perché a mia nipote serve lo psichiatra". E’
quanto ha detto Giuseppe Ferraro, zio della collaboratrice di giustizia
Giuseppina Pesce, figlia del boss dell’omonima cosca di Rosarno,
Salvatore. Ferraro, che è detenuto al regime del 41 bis, ha preso la
parola in videoconferenza per fare dichiarazioni spontanee nel corso del
processo nei confronti di presunti capi e gregari della cosca che si
sta svolgendo nel tribunale di Palmi. Il riferimento fatto da Ferraro è
all’interrogatorio di Giuseppina Pesce, previsto nell’ambito del
processo, che si svolgerà dal 21 al 26 maggio nell’aula bunker del
carcere romano di Rebibbia. Dopo avere fatto riferimento alla
deposizione della nipote, Ferraro ha aggiunto che "tanto lo sappiamo
benissimo che siamo in uno stato di polizia e che questo non è un
processo giusto". Mentre il detenuto stava proseguendo il suo intervento
il tribunale, visto il contenuto delle dichiarazioni, ha deciso di
togliergli la parola. Il processo è poi continuato con una raffica di
eccezioni difensive circa l’ammissibilità della testimonianza di
Giuseppina Pesce e sulla nullità degli interrogatori resi dalla
collaboratrice di giustizia nel corso delle indagini preliminari. Dopo
alcune ore di camera di consiglio i giudici hanno rigettato tutte le
eccezioni. Il processo è stato poi aggiornato a lunedì mattina quando
inizierà l’interrogatorio di Giuseppina Pesce.
maggio 19, 2012 Commenti disabilitati su Lo zio di Giusy Pesce: ha bisogno dello psichiatra
“Famiglia addio” – Il dossier di Narcomafie
La ‘ndrangheta è stata l’organizzazione più difficile da penetrare
perché gli stretti vincoli di sangue su cui si fonda hanno reso più
problematiche le collaborazioni. Ma negli ultimi anni molto è cambiato,
soprattutto sul versante femminile. Donne che parlano, per sé e per i
propri figli. Donne che pagano prezzi altissimi per farlo. Le
morti di troppe collaboratrici di giustizia lo dimostrano. Narcomafie
dedica al tema un corposo dossier con i contributi di Marika Demaria,
Francesca Chirico, Alessandra Dino, Michele Prestipino, Nando Dalla
Chiesa, Alessia Candito. Tra i contenuti di questo numero, segnaliamo le
storie positive: una galleria fotografica della XII Giornata della
memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie che si è
tenuta a Genova lo scorso 17 marzo, e il racconto di Raffaella Cosentino
dell’esperienza dei Sikh di Locri: aggrediti da una banda di cui
facevano parte alcuni soggetti legati alla ‘ndrangheta, hanno denunciato
e ottenuto giustizia. In segno di ringraziamento, hanno voluto ristrutturare la cappella del cimitero della città.
marzo 30, 2012 Commenti disabilitati su “Famiglia addio” – Il dossier di Narcomafie
Casablanca/Le Siciliane – Speciale donne ribelli
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1522.pdf
marzo 28, 2012 Commenti disabilitati su Casablanca/Le Siciliane – Speciale donne ribelli
Calabria: stalking dopo lo stupro, la tragedia di Anna Maria
REGGIO CALABRIA – La porta degli uffici giudiziari di Cinquefrondi l’ha varcata, questa mattina, con Nadia alla sua destra e Natalia alla sua sinistra. Lei, Anna Maria Scarfò, piccola e stretta in mezzo, per la prima volta protetta da una scorta che non è quella assegnatale dallo Stato italiano nel febbraio 2010. All’udienza dell’ennesimo processo scaturito dalla sua atroce vicenda, Anna Maria si è ritrovata al fianco una ventina di rappresentanti di associazioni siciliane e calabresi. E ha capito, restandone un po’ incredula, che la battaglia solitaria durata otto anni era finita.
La stazione bianca, con la scritta "San Martino" sulla facciata e lo slargo, davanti all’ingresso, in terra battuta e brecciolino. La strada principale intitolata a Garibaldi incorniciata da case basse, parabole televisive, vestiti appesi ai fili accanto al portone. E attorno, ovunque, gli uliveti e gli aranceti della Piana di Gioia Tauro. Il suo mondo, piccolo e di provincia, Anna Maria l’ha lasciato il 15 luglio 2010, sul sedile posteriore di un’auto dei carabinieri: è la prima donna in Italia ad essere ammessa al regime di protezione previsto dalla nuova legge sullo stalking, ha 24 anni e negli ultimi otto gliel’hanno ripetuto giorno e notte, al telefono, urlandolo dalle macchine in corsa, o appostandosi sotto casa con i fari accesi, che a San Martino di Taurianova non c’è più posto per lei: "Ti faccio passare la voglia di ridere. Ti brucio viva". "E’ inutile che ti rivolgi agli sbirri, la prossima volta che arriva una carta ti faccio volare a te e a chi viene dietro di te". "Ti taglio la testa". "Puttana". Per rafforzare il concetto, le hanno pure ammazzato il cane e imbrattato di sangue i panni stesi fuori ad asciugare.
Le colpe della ragazza? Avere varcato, nel settembre 2002, la soglia della caserma dei carabinieri di Taurianova; avere raccontato che a tredici anni, con il primo bacio da dare ancora, l’avevano attirata con l’inganno e presa con la forza in un casolare di campagna, trattandola per tre anni come un pezzo di carne da usare, scambiarsi o con cui pagare i debiti. Avere denunciato, uno per uno, i suoi dodici stupratori, alcuni con precedenti penali, per impedire che riservassero lo stesso trattamento alla sorellina, oggi con lei in località protetta. Avere, infine, avuto sempre ragione in Tribunale. Sei componenti del branco di San Martino – Domenico Cucinotta, Michele Iannello, Domenico Iannello, Domenico Cutrupi, Serafino Trinci e Vincenzo La Torre – sono stati condannati in via definitiva dalla Cassazione il 6 dicembre 2007. Per gli altri – Antonio Cutrupi, Maurizio Hanaman, Giuseppe Chirico, Fabio Piccolo, Antonio Cianci e Vincenzo Minniti – è arrivata il 25 novembre 2009 la condanna in primo grado.
Le sentenze che l’hanno riconosciuta vittima di fronte alla giustizia non sono bastate, però, a metterla a riparo dalla persecuzione. Ci sono gli uomini che l’hanno violentata, ma anche le loro mogli, fidanzate e sorelle nell’affollato "comitato" locale che dal giorno della denuncia ha reso la vita di Anna Maria e della sua famiglia – la mamma Aurora, il papà, la sorella più piccola – un inferno costellato di minacce, ingiurie e intimidazioni. Vittima due volte, insomma. "A San Martino mi hanno abbandonata tutti…ormai sono la prostituta del paese", dirà amaramente nel libro "Malanova", scritto con la giornalista Cristina Zagaria (Sperling & Kupfler, 2010). Anche contro quest’ennesima violenza, però, Anna Maria, supportata dall’avvocato Rosalba Sciarrone, ha deciso di tirare dritto, denunciando ai carabinieri ogni singolo episodio e facendo scattare l’emissione da parte del questore di Reggio Calabria di sei provvedimenti di ammonimento per stalking nei confronti di altrettanti familiari dei suoi aguzzini. Con l’accusa di minacce, ingiurie e molestie in concorso nei confronti di Anna Maria e della sorella sono finiti in sedici di fronte al giudice monocratico del Tribunale di Palmi (sezione distaccata di Cinquefrondi). Un processo arrivato alle battute finali che oggi ha fatto segnare l’ennesimo rinvio, ma anche, e soprattutto, la fine della battaglia solitaria della ragazza di San Martino di Taurianova.
"Porsi al fianco di Anna Maria significa porsi al fianco di tutte quelle donne che rivendicano il diritto di vivere e di non subire. Non solo in Calabria. Significa far sentire loro che non sono sole. Significa premiare il coraggio della denuncia e invogliare altre persone a non tacere". Con questa certezza alcune associazioni siciliane e calabresi (associazione antimafia "Rita Atria", fondazione "Giovanni Filianoti", Le Siciliane, le autrici di "Non è un paese per donne", Stopndrangheta.it, Libera, associazione Jineca, Udi, Snoq) hanno infatti deciso di affiancare Anna Maria e la sua famiglia, lanciando alla vigilia dell’udienza di questa mattina una lettera-appello. "Anna Maria – si legge nel documento – ha iniziato la sua battaglia per riappropriarsi della sua vita. E l’ha iniziata da sola e contro tutti: contro i suoi stupratori, ma anche contro il suo paese, che l’ha emarginata e giudicata e condannata, anzichè riconoscerne il coraggio e starle vicina. Come fosse lei la colpevole. Come fosse una "malanova" da tenere lontana…Quella vicinanza ora vorremmo regalargliela noi. Partendo da una presenza fisica in aula lunedì mattina e stringendoci attorno a lei, per non farla sentire sola di fronte al branco e di fronte a quei concittadini che l’hanno maltrattata. Sarebbe un bel gesto di civiltà della parte pulita della nostra società e, insieme, un segnale forte proprio nei confronti della parte marcia, l’unica che andrebbe veramente e definitivamente emarginata e allontanata". Il segnale, garantiscono le associazioni, sarà replicato lunedì prossimo, data della nuova udienza del processo.
febbraio 21, 2012 Commenti disabilitati su Calabria: stalking dopo lo stupro, la tragedia di Anna Maria
Giornalisti sotto scorta
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1411.pdf
febbraio 16, 2012 Commenti disabilitati su Giornalisti sotto scorta
Maria Concetta, testimone di giustizia e suicida in terra di ‘ndrangheta
ROSARNO – Nell’audio registrato il 12 agosto 2010, per ritrattare le
dichiarazioni rese precendetemente ai magistrati della Dda di Reggio
Calabria, aveva ripetuto due volte «di spontanea volontà mia». Come una
cantilena. Sull’ultima frase del lungo monologo (10 minuti) la voce le
era quasi scomparsa: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre,
mia madre, i miei fratelli, i miei figli e ho riacquistato la serenità
che cercavo. Vorrei lasciata in pace in futuro e non essere chiamata da
nessuno». Otto giorni dopo quella registrazione la testimone di
giustizia Maria Concetta Cacciola, 31 anni e tre figli, si era attaccata
ad un bottiglia rossa piena di acido muriatico.
Da quale inferno avesse deciso di sottrarsi si sono concentrate le indagini
della Procura di Palmi che ha chiesto, e ottenuto dal Gip, l’arresto
dei suoi genitori, Michele Cacciola e Anna Rosalba Lazzaro, mentre si è
reso irreperibile il fratello Giuseppe. L’ipotesi di reato per i tre
familiari della donna è concorso in maltrattamenti in famiglia e
violenza per costringere a commettere un reato. In pratica, «attraverso
reiterati atti di violenza fisica e psicologica», avrebbero costretto
Concetta all’autocalunnia, facendole ritrattare le accuse contro la
‘ndrangheta di Rosarno. E facendole scegliere il suicidio «in
conseguenza dei gravi e reiterati maltrattamenti».
Cugina di Giuseppina Pesce, la pentita dell’omonima cosca rosarnese, Maria
Concetta Cacciola orbitava attorno all’altro clan del grosso centro
della piana di Gioia Tauro: una zia paterna aveva sposato il boss
Gregorio Bellocco, mentre il marito, Salvatore Figliuzzi, era stato
arrestato nel 2003 con l’accusa di far parte proprio del clan Bellocco e
condannato a otto anni per associazione mafiosa. Maria Concetta l’aveva
sposato a 14 anni. A 16 anni era già mamma: «Sognavo un po’ di libertà e
invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo e tu lo
sai», scriverà alla madre, affidandole i tre figli alla vigilia della
sua partenza verso la prima località protetta.
È il maggio 2011 e la sua collaborazione è partita, come uno sfogo, da
qualche giorno. La donna sogna "la liberazione" da una cappa
opprimente: è innamorata di un altro uomo e nel giugno 2010 il padre e
il fratello hanno ricevuto delle lettere anonime che segnalano il
tradimento, la macchia all’onore di famiglia. La reazione, immediata, ha
previsto botte da orbi e minacce. «Questo è il tuo matrimonio e te lo
tieni». Le hanno rotto pure una costola, a Maria Concetta, medicata in
casa da un medico. La donna ha paura di fare, da un giorno all’altro,
una brutta fine: «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di
fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire».
Maria Concetta Cacciola varcherà la soglia della caserma dei carabinieri di
Rosarno con la scusa del sequestro del motorino del figlio. Fuori
l’aspetta il suocero perché da sola non le è permesso di uscire. Dentro
lei comincia a parlare. «Voleva cambiare vita per sé e per i figli, era
una donna forte e determinata», ricordano gli inquirenti.
Ascoltata più volte dai magistrati della Dda di Reggio Calabria sugli
interessi criminali della sua cerchia parentale, fa scoprire due bunker
ed è presto ammessa al regime di protezione. Ma sceglie di lasciare i
tre figli con i nonni e non si accorge di essersi messa, per questo,
sotto ricatto. «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano
perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno
più», si lamenterà al telefono con l’amica del cuore, a cui confesserà
anche il suo travaglio su un possibile ritorno a casa: «Tutti me lo
dicono, renditi conto di quello che ti aspetta, perché ormai lo hai
fatto, il passo lo hai fatto, una cosa e un’altra ti dicono che ti
perdonano però che so nel cuore… Te lo dicono in questo momento e poi
tra un po’ di tempo ti fanno (…). L’onore non lo perdonano (…) Le
sappiamo queste cose come vanno nelle nostre famiglie no?! Almeno nella
famiglia mia».
Combattuta tra la paura di ritorsioni e la voglia di riabbracciare i propri affetti,
alla fine cederà a quest’ultima. Il 10 agosto 2011 lascia il regime di
protezione e torna a Rosarno, ma di aver peccato di ottimismo lo capisce
subito: «Mi portano avvocati avvocati x farmi ritrattare dirgli che…uso
psicofarmaci e che lo fatto x rabbia… ora mia madre mi fa la loro
freddezza verso di te mi fa paura» si sfoga attraverso un sms con l’uomo
amato. È di nuovo in gabbia e di nuovo vuole uscirne.
Il 17 agosto Maria Concetta Cacciola esprime l’intenzione di riprendere il percorso
di collaborazione: la partenza per la nuova località protetta è già
stata fissata, pronte le valigie, rispolverato il sogno di
"liberazione". Alle 19:00 di sabato 20 agosto, però, la donna si chiude
in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico.
Dopo la sua morte i genitori parleranno di «depressione psichica»,
presentando una denuncia contro ignoti alla Procura di Palmi e
scagliandosi contro i magistrati colpevoli di avere ingannato la figlia
«con la scusa di un’ipotetica protezione per dei problemi personali e
familiari di normale ordinarietà».
febbraio 10, 2012 Commenti disabilitati su Maria Concetta, testimone di giustizia e suicida in terra di ‘ndrangheta
Ndrangheta, false depressioni per uscire dal carcere
Se i muri di casa Pelle “Gambazza” potessero parlare si aprirebbe uno squarcio sulla storia criminale della Calabria. In realtà gli investigatori quei muri li hanno fatti parlare: li hanno tappezzati di microspie, ascoltato ogni parola pronunciata da Peppe Pelle, il figlio del defunto capobastone Antonio Pelle “Gambazza”, reggente dell’omonima cosca di ‘ndrangheta, padrona di San Luca e Bovalino – provincia di Reggio Calabria – e potente espressione del “mandamento jonico” della ‘ndrangheta. Gli affari della cosca si estendono fino in Germania.
Grazie alle intercettazioni ambientali a casa Pelle sono state avviate numerose indagini. Le operazioni Reale 1-2-3, un’indagine sull’università di Architettura di Reggio Calabria, un’altra che ha portato all’arresto del commercialista Giovanni Zumbo, e infine l’inchiesta che oggi è scaturita in 6 ordinanze di custodia cautelare in carcere. Tra i destinatari dei provvedimenti presunti boss e medici che avrebbero ottimi rapporti con la politica.
È una storia di sanità e ‘ndrangheta, che parte dalla Locride e raggiunge la provincia di Cosenza. Il filo conduttore della vicenda? Favori e contro-favori all’ombra della sanità calabrese, anche perché la cosca coinvolta è tra le più potenti della ‘ndrangheta. Il capo carismatico ‘Ntoni “Gambazza” fino al 2009 era al vertice della ‘ndrangheta, con il grado di capo Crimine, che sarebbe stato sostituito, alla sua morte, con Mico Oppedisano, il rosarnese che sarebbe stato eletto nel 2009 dai rappresentanti della “Provincia” – l’organo decisionale della ‘ndrangheta in Calabria – durante la festa della Madonna di Polsi, in Aspromonte.
Secondo la tesi della Dda di Reggio Calabria, i boss, per sfuggire ai rigori della detenzione carceraria, avrebbero denunciato gravi patologie. “Depressione maggiore”, “Agorafobia”, “Claustrofobia”, sono alcune delle patologie più in voga tra gli ‘ndranghetisti. A mettere nero su bianco i disturbi dei boss, erano medici che sarebbero stati pronti a diagnosticare e certificare l’esistenza della patologia psichiatrica. Proprio il boss Peppe Pelle avrebbe utilizzato le certificazioni fasulle. Il boss sulla carta era un “depresso”, e non a causa dei sequestri di beni subiti negli anni, ma perché la folta schiera di medici a cui avrebbe fatto riferimento secondo le indagini avrebbe certificato il suo finto malessere. Il malato immaginario, in passato, è riuscito a ottenere i domiciliari grazie a questi escamotage.
La presunta truffa è stata svelata dagli investigatori anche grazie alla collaborazione del pentito Samuele Lovato, un tempo affiliato ai Forastefano di Sibari. La strategia del boss Pelle era semplice, ma accurata. Aggiornava periodicamente la documentazione sanitaria in suo possesso, in modo da poterne disporre con facilità in caso di arresto, allegandola a una eventuale istanza di scarcerazione per motivi di salute. «Io so che parecchie persone che appartengono alla malavita fanno richiesta … alla ‘ndrangheta. E pilotano la loro uscita dal carcere facendo tramite i loro avvocati, delle richieste per finire a Villa degli Oleandri». A dirigere la clinica citata dal collaboratore, il medico Guglielmo Quartucci, uno degli indagati nell’inchiesta della Dda reggina. Secondo Lovato, «una volta arrivati a Villa degli Oleandri fanno esattamente quello che facevano a Villa Verde cioè gonfiano le patologie, riportano sopra le cartelle farmaci che non vengono assolutamente somministrati, falsificano dei test». La descrizione del presunto “sistema” che il pentito fa ai magistrati si riallaccia a un’altra storia di sanità e ‘ndrangheta, e riporta alla memoria l’indagine di maggio scorso denominata “Villa Verde”, dal nome di una clinica privata cosentina. Anche quell’indagine era basata ancora una volta sulla presunta compiacenza tra medici, dirigenti di strutture sanitarie private e boss.
Perché il raggiro vada a buon fine è necessario fare affidamento su un consulente di parte compiacente, il che, secondo Lovato, avviene praticamente sempre. «Un consulente cui dai tre, cinquemila euro per una perizia non può andarti contro». E il pentito spiega anche il motivo della scelta della malattia da diagnosticare, la depressione. «Chi lo può dire se uno è guarito o meno, tanto più se poi tu hai l’appoggio della clinica che ti fa da supporto, tu puoi stare una vita ad essere depresso». Per essere sicuri che il giudice accetti la richiesta di scarcerazione per cause di salute, agli ‘ndranghetisti consigliano di mettere in pratica «atti non conservativi della persona», ossia di procurarsi lesioni, di non mangiare e di deperire il più possibile. I boss avrebbero detto cosa scrivere ai medici, questa sarebbe stata la prassi, raccontata dal pentito e che sarebbe stata verificata dagli investigatori.
Boss depressi e dirigenti medici che certificano il loro male oscuro. Onorata sanità che si nutre di vicinanze politiche. Come potrebbe essere per il medico Francesco Moro, coinvolto nell’indagine, che svolge la sua attività al 118 di Bianco, nella Locride. Moro la famiglia Pelle “Gambazza” la conosce da «almeno vent’anni». Si sarebbe detto disposto a certificare a Peppe Pelle un grave stato d’ansia. Il boss era sorvegliato speciale, e non poteva allontanarsi da Bovalino. E questo Moro lo sa, per questo gli dice «se eravate libero, ve ne venivate là», da suo nipote, Federico Curatola, attuale sindaco di Bagaladi, piccolo centro dell’area Grecanica, in provincia di Reggio Calabria. Curatola è un nome che ritorna. Nell’indagine precedente Reale 3, in cui è stato coinvolto l’ex consigliere regionale Santi Zappalà, tra i politici in processione a casa Pelle il Ros identifica anche Curatola, che si reca a Bovalino prima di essere eletto sindaco.
Perché Pelle avrebbe chiesto a Moro un ulteriore certificato? Lo scopo era quello di incrementare il numero di certificazioni che per ben due volte, nel 2005 e nel 2008 , gli avevano fatto ottenere la scarcerazione. A redigere i presunti falsi certificati per il boss sarebbe stato, sempre secondo gli investigatori, anche il fratello di Francesco, il dottore Giuseppe Moro. Gli investigatori citano due certificati redatti da quest’ultimo, documenti che diagnosticano tutti i mali psichici possibili: «affetto da depressione, ansia con attacchi di panico, insonnia, claustrofobia, astenia, generale malinconia e molteplici disturbi neurovegetativi», e ancora «sindrome ansiosa depressiva attiva, con insonnia ed molteplici episodi di attacchi di panico con agorafobia». Certificati riportati nella relazione psichiatrica del maggio 2008, grazie alla quale Peppe Pelle ottenne i domiciliari.
A Cosenza cambiano i nomi delle cliniche, ma la storia si ripete. Il medico si chiama Guglielmo Quartucci, responsabile e socio della clinica “Villa degli Oleandri” che veniva gestita dal medico come un suo «esclusivo feudo». Una clinica ereditata dal padre, diretta dalla sorella, ma, come annotano gli investigatori, governata di fatto da Guglielmo. A “Villa degli Oleandri” la depressione va per la maggiore, numerosi presunti malati accorrono da Quartucci allo scopo, secondo gli investigatori, di tentare di ottenere la scarcerazione. Si reca dal medico della “Villa” anche Francesco Cornicello, l’avvocato di un poliziotto accusato dell’omicidio della moglie. La richiesta sarebbe sempre la stessa: redigere certificati fasulli. Dopo il presunto accordo, il medico avrebbe chiesto però all’avvocato il favore di metterlo in contatto con l’Assessore regionale Giuseppe Gentile, con delega alla Infrastrutture e ai Lavori pubblici. Il motivo? Chiedere conto di alcune somme che la Regione Calabria deve sbloccare per la sua clinica. «Sono disperato… qua non ci pagano niente… questo Gentile che non, non, non, non parla con nessuno», implora Quartucci. «Se mi chiama se mi chiama Gentile gli fisso un appuntamento, ti chiamo così mi dai tutti i dati e glieli porto», promette l’avvocato che prende l’impegno di «sensibilizzare il politico».
Sanità che cerca la politica e politici dalle frequentazioni pericolose. È il caso di Vincenzo Cesareo, direttore sanitario del presidio ospedaliero di Praia a mara, Cosenza, e figlio di Carlo, ex sindaco di Cetraro negli anni ’80, processato, poi assolto, per associazione mafiosa insieme a Franco Muto, il boss di Cetraro conosciuto come il “Re del pesce”. I Cesareo «storicamente, risultano intranei al sodalizio criminale dei Muto», scrivono i magistrati. Uno dei Cesareo è stato coinvolto nel processo per l’omicidio di Giannino Losardo, assessore Pci di Cetraro negli anni ’80. Infatti insieme ai Muto è finito a processo Giuseppe Cesareo, figlio di Carlo. Un processo finito nel nulla, un omicidio senza colpevoli.
Una lunga carriere politica quella di Vincenzo Cesareo. Ha seguito le orme del padre. Il medico è stato consigliere e assessore di Cetraro, poi consigliere provinciale di Cosenza, già coordinatore di “Forza Italia” per il Comune di Cetraro ed ex consigliere regionale nello stesso partito. Nel 2005 è passato nel centro-sinistra, ma non è stato ricandidato alle regionali. Nel 2006, si è presentato come capolista in Calabria per la Camera dei Deputati per la “Lega Nord-Mpa”. Alle elezioni regionali del 2010, si è candidato nella “Lista Socialisti Uniti – P.S.I. per Scopelliti Presidente”, senza però raggiungere il numero di preferenze necessarie.
Vincenzo Cesareo e il boss Peppe Pelle sono «legatissimi».Si sente uno di famiglia Cesareo, lo avrebbe ammesso lui stesso davanti a casa del boss: «Io mi sento come uno, tu lo sai, della famiglia». Cesareo come tanti altri politici locali si recano da Pelle per chiedere voti, per cercare il consenso della ‘ndrangheta. Per convincere Pelle dell’utilità di votarlo, Cesareo gli dice «noi siamo la forza…ci troviamo a livello di amministrazione». I due hanno un comune amico: Guglielmo Qaurtucci.
Tra Cesareo e Quartucci intercorrono numerose telefonate. La clinica di Quartucci versa in condizioni economiche pessime, e il medico cerca una soluzione politica. L’Asp di Cosenza non pagava, e Quartuccio è nervoso, in una telefonata avrebbe offeso la dirigente. Ma a questo punto si muove Cesareo, che mette a disposizione i suoi contatti all’interno della struttura. Quartucci oltre che sul piano economico è in crisi anche sul piano politico, infatti non gli va giù la riduzione dei posti letto delle strutture sanitarie accreditare. E chiede aiuto al suo mentore che non si tira indietro e propone alcuni contatti: «È un amico intimo di Scopelliti di tempi di An … è uno che fa politica … ha un movimento che là a Milano … era, prima era con la Santanchè … ora è con Fini di nuovo … non … non ci sono problemi. Ok?”. Cesareo confida all’amico e collega che a quel politico chiederà di essere nominato dirigente generale di altre strutture.
Alcuni uomini del Pdl cosentino sarebbero d’accordo nel nominare Cesareo dirigente in qualche struttura. Cesareo fa il nome dei fratelli Gentile. L’obiettivo è scalare i vertici dell’Asp di Cosenza così da eliminare chi si mette di traverso, «che ce li togliamo a tutti a questo turno va», non utilizza mezzi termini Cesareo. Il dialogo è avvenuto il 26 maggio 2010, un anno dopo Cesareo, che non è coinvolto nell’indagine, diventerà dirigente dell’ospedale di Cetraro, mantenendo anche l’incarico di dirigente del presidio di Praia a mare. Pochi giorni dopo la nomina gli revocano l’incarico. Le motivazioni? Riorganizzazione della struttura provinciale cosentina.
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/operazione-ros-ndrangheta-sanita#ixzz1k53osrbk
gennaio 20, 2012 Commenti disabilitati su Ndrangheta, false depressioni per uscire dal carcere
Salviamo il cronista Tizian
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1307.pdf
gennaio 13, 2012 Commenti disabilitati su Salviamo il cronista Tizian
L’importanza di chiamarsi Tizian
Un giorno come tanti, caffè, rassegna stampa e la solita corsa per chiudere il pezzo e guadagnarmi la giornata. Ma poi arriva una telefonata, ero fuori città. «Abbiamo deciso di tutelarti», il giorno dopo avevo già la scorta assegnata. È diventata fissa pochi giorni fa. Stai tranquillo, mi hanno detto, fai quello che ti dicono e segui le nostre direttive. Cambia la quotidianità, nelle piccole cose di ogni giorno si avverte il cambiamento. Dalla spesa all´organizzazione del lavoro, programmare le interviste, pianificare la propria vita con minuziosa attenzione. Ma la voglia di andare avanti è più forte. Raccontare il potere delle mafie al Nord vuol dire raccontare il lato oscuro del Paese. Da anni collaboro con la Gazzetta di Modena, da anni mi occupo di mafie al Nord. Delle cosche d´Emilia. Quelle stesse cosche che negli anni in cui emigravo verso Modena raccoglievano quanto seminato decenni prima. Un raccolto fatto di patrimoni enormi, un fiume di denaro accumulato sulla pelle degli onesti. Erano gli anni ´90 quando ci trasferimmo in Emilia, qui ho iniziato a scrivere. A raccontare di come i clan si muovono e impongono servizi alle imprese, obbligano commercianti e imprenditori a pagare il pizzo. È quanto racconto nel libro appena pubblicato da Round Robin editrice dal titolo Gotica. ‘Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea. Un libro-inchiesta in cui raccolgo la mia attività di cronista di giudiziaria e di inchieste giornalistiche realizzata anche con il mensile Narcomafie e Linkiesta.it.
Era il 1989 quando mio padre venne ucciso a Locri mentre tornava a casa dal lavoro. Era un funzionario di banca, a sparargli mani ignote, ma armate dalla ‘ndrangheta. Il suo omicidio è rimasto irrisolto, come tanti in Calabria. Io avevo sette anni e lo aspettavo come tutte le sere. Da quel 23 ottobre non tornò più.
Da quando lavoro a Modena ho scoperto che clan dei casalesi, ‘ndrangheta e Cosa nostra, operano in Emilia Romagna come se fossero a casa loro. Nell´ultimo anno le indagini che hanno riguardato il territorio emiliano-romagnolo sono state numerose. Arresti, sequestri, processi. Da Rimini a Piacenza le cosche corrono rapide di cantiere in cantiere e consolidano il loro potere. Autotrasporto, edilizia, gioco d´azzardo legale e illegale, facchinaggio. Parlare di narcotraffico e di pizzo è parlare, sostanzialmente, di una questione di ordine pubblico. Ricostruire i percorsi del fiume sotterraneo di denaro mafioso vuol dire toccare un nervo scoperto, significa iniziare a demolire la facciata di legalità creata dai boss in anni di lavorio discreto, sottotraccia, con la complicità di insospettabili professionisti come avvocati, commercialisti, notai, consulenti: i cosiddetti colletti bianchi.
Rapporti che rendono i boss invisibili e socialmente accettati. E succede così che l´apertura di un negozio etnico suscita più allarme sociale rispetto alla colonizzazione dei territori del Nord da parte delle cosche. Che in questi territori, oltre la linea Gotica, si sentono forti, e protette. Talmente protette che vorrebbero con le loro intimidazioni bloccare i giornalisti che fanno inchieste sui loro affari. Giovani giornalisti, precari ma con una passione immensa. Che rischiano e amano il proprio lavoro, che per pochi euro, al Sud come al Nord, mettono in gioco la propria vita per far conoscere a tutti il grado raggiunto da ‘ndrangheta, mafia e camorra. Giovani cronisti che vivono una doppia vulnerabilità, fisica ed economica. Per questo uno degli attestati di solidarietà che mi ha commosso maggiormente è la campagna lanciata dall´associazione daSud e da Stop´ndrangheta.it, “Io mi chiamo Giovanni Tizian”. Un appello per tutelare me, ma anche tutti i giovani giornalisti precari di questo strano Paese.
gennaio 12, 2012 Commenti disabilitati su L’importanza di chiamarsi Tizian
Minacciato dalla mafia ora vive sotto scorta
MODENA. Giovanni Tizian fa il giornalista, ha meno di trent’anni e la sua vita è cambiata. Da qualche tempo vive con la scorta, da mattina a sera. Due agenti armati e in borghese lo accompagnano tutto il giorno, ovunque, anche quando deve fare la spesa. Per lui è diventato un problema condurre quella che prima era un’esistenza normale. Lo prelevano alla porta di casa e ce lo riportano. Gli affetti, gli amici, anche una banale visita in libreria sono cose diventate, all’improvviso, difficili da gestire nella sua situazione.
La scorta gli è stata assegnata dagli inquirenti una quindicina di giorni fa. Uno di quei regali di Natale di cui avrebbe fatto volentieri a meno. «Stavo per pranzare – ricorda – quando mi hanno chiamato sul cellulare dicendomi che ero esposto a un rischio e che per tutelarmi, e permettermi di proseguire nel mio lavoro, avrei avuto la protezione delle forze dell’ordine. Sul momento non mi sono reso conto di cosa avrebbe significato. Poi già verso sera ho cominciato a capire». Gli agenti gli devono, per così dire, "coprire le spalle" fino a quando le acque non si saranno calmate. Il motivo è semplice: Tizian parla di mafia, i mafiosi parlano di lui.
Che cosa dice Giovanni Tizian della mafia non è un segreto. I suoi articoli su cosche e clan sono comparsi numerosi sulla Gazzetta di Modena dal 2006, anno in cui ha iniziato l’attività pubblicistica. L’argomento lo conosce bene, la tesi di laurea in Criminologia l’ha scritta sulle ramificazioni internazionali della ‘ndrangheta. Oltre che con la Gazzetta, collabora con il sito internet Linkiesta e con Narcomafie, la rivista del gruppo Abele di don Luigi Ciotti.
In dicembre ha pubblicato un libro sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’economia del Nord. Si intitola "Gotica" e sono trecento pagine con nomi e cognomi, citazioni di atti, documenti e testimonianze su come Camorra, Ndrangheta e Cosa nostra abbiano scelto – da anni, non da ieri – il Settentrione per fare affari con i proventi della droga, delle estorsioni, del pizzo, del gioco d’azzardo. Si citano, nel libro, anche fatti di sangue. Ma il filo conduttore nell’inchiesta è un altro: sono i soldi, come vengono investiti, quali settori sono più esposti al riciclaggio, quali metodi e strategie sono adottate per ripulire il denaro sporco. Una realtà le cui dimensioni sono state spesso sottovalutate e che viene descritta con dovizia di particolari.
Cosa dicono i mafiosi di Tizian è facile immaginarlo. Parlare di narcotraffico e di pizzo è parlare, sostanzialmente, di una questione di ordine pubblico. Ricostruire i percorsi carsici del fiume di denaro mafioso vuol dire toccare un nervo scoperto, significa iniziare a demolire la facciata di legalità creata dai boss in anni di lavorio discreto, sottotraccia, con la complicità di insospettabili professionisti come avvocati, commercialisti, notai, consulenti: i cosiddetti "colletti bianchi". Lì corrono i fili dell’alta tensione criminale e la faccenda si fa seria. In ogni caso, è impossibile sapere, vista la mole di articoli prodotti dal giornalista negli ultimi anni, cosa sia stato in particolare ad esporlo alla minaccia. Di certo, fare giornalismo d’inchiesta in Italia su questi argomenti diventa pericoloso, ancora oggi, come lo era negli anni ’80, al Sud come al Nord. Segno di una fenomeno mafioso che è questione nazionale, che riguarda Modena come Casal di Principe, Milano come Reggio Calabria.
Ora Tizian deve comunicare in anticipo i suoi spostamenti, di fatto deve programmare le giornate per evitare problemi. A lui, agli agenti della scorta, ai suoi cari. È la seconda volta che la mafia sconvolge la sua vita. La prima volta era bambino. Aveva 7 anni quando a Bovalino, nella Locride, venne ucciso suo padre a colpi di lupara. Era funzionario di banca e gli spararono mentre tornava a casa. «Io lo aspettavo, era ormai ora di cena, ma non arrivava. Mia madre mi disse che aveva avuto un incidente, in qualche modo cercava di attutire il colpo… Dopo cinque anni ci siamo trasferiti a Modena, per cercare di ricostruire la tranquillità e la serenità che non avevamo avuto in Calabria».
Al momento, nelle giornate di Tizian non c’è molta serenità. Neppure nelle piccole cose, quelle che scandiscono le ore dei suoi coetanei. «Si creano situazioni strane. Se vado al market, mi accorgo di avere fretta inspiegabile. Non riesco neppure a pensare alle cose che devo comprare… A volte poi ho la sensazione di abusare dei ragazzi della scorta, che sono bravissimi. Però se voglio andare a mangiare una pizza con la fidanzata o gli amici, io devo viaggiare su una macchina, loro su un’altra… In famiglia cercano di starmi vicino e di non farmi pesare questa situazione. Mia madre… Lei è perfettamente consapevole di ciò che mi sta accadendo, anche per quello che ha già passato. Ha una grande forza e cerca di trasmettermi tranquillità. Lo ha sempre fatto».
Il mondo di Tizian si è improvvisamente ristretto. Confinato fra casa, auto e pochi posti da frequentare. Nessuna sorpresa, possibilmente nessun imprevisto. «Cerco di trovare il modo di continuare a fare questo mestiere, e sono sicuro che lo troverò. Non ho quella libertà di movimento che mi servirebbe, ma mica ci rinuncio. Non penso che un giornalista possa cambiare il mondo, ma credo nell’utilità sociale del mestiere di giornalista». La scorta non durerà in eterno, una bella mattina arriverà una telefonata con l’annuncio di cessato allarme. Sarà come uscire da un incubo, per Giovanni Tizian. Per adesso ne sente il peso schiacciante, ma continua determinato.
gennaio 11, 2012 Commenti disabilitati su Minacciato dalla mafia ora vive sotto scorta