Sono un uomo morto
Rocco Varacalli è di Natile di Careri, centro nevralgico, assieme a San Luca e Platì, della ‘ndrangheta reggina e punto di snodo della ‘ndrangheta da esportazione fuori dai confini regionali. Inevitabile intraprendere la strada criminale, tramandata nella famiglia per parte di madre. Nonostante i tentativi di uno zio di tenerlo lontano dagli affari loschi, una volta trasferitosi a Torino Varacalli inizia a frequentare brutte compagnie che lo iniziano ad una lunga e prosperosa carriera di spaccio. Continuamente fuori e dentro le galere, lo stigma portatosi dietro da Natile è difficile da occultare, come altrettanto difficile è resistere al richiamo dei soldi facili che la ‘ndrangheta gli propone. Guadagni immediati senza sforzo messi sul piatto dalla criminalità organizzata contro il lavoro onesto e la schiena a pezzi che gli offre lo zio: la scelta, per Rocco, è facile ed immediata. Il fiorente traffico di stupefacenti, la scrupolosità con cui porta a termine gli affari, l’osservazione cieca alle regole dell’onorata società fanno di Rocco un ottimo uomo di ‘ndrangheta meritevole di ricevere il "battesimo" e quindi di entrare a far parte in tutto e per tutto della famiglia. Dopo anni di affari, tra la città e la cinta periferica torinese, dopo essere sfuggito, per grazia ricevuta, ad un’esecuzione, dopo aver veduto crescere ed aver partecipato a questo sviluppo del bubbone criminale in seno alla cosa pubblica di Piemonte, Lombardia, Liguria e Valle d’Aosta, Varacalli getta la spugna. Ma il suo non è un pentimento, che le regole dell’onore non lo consentono; è piuttosto una disillusione figlia di un tradimento: "Quella mattina ho capito che la ‘ndrangheta non ha valori. Non segue veramente le regole sottoscritte con il sangue". La decisione di collaborare con la giustizia è di quelle che si fanno sentire. Varacalli non è uno qualunque: è a conoscenza dell’intera trama che la ‘ndrangheta ha costruito nei decenni al nord, la rete delle estorsioni, il traffico di stupefacenti, gli omicidi per regolare i conti, la connessione con la politica e l’avvelenamento dell’economia. Le ditte edili calabresi gestite dalle cosche hanno messo le mani su tutte le grandi opere dalle Olimpiadi invernali di Torino del 2006, al centro commerciale "Le Gru", alla TAV, ai complessi residenziali. I fatti che rivela scoperchiano un calderone in cui per anni ‘ndrangheta e politica sono andati a braccetto ed hanno permesso finalmente di riconoscere quanto le cosche avessero permeato anche il sostrato economico, politico e sociale del nord. Varacalli conosce bene la gravità delle sue rivelazioni. Varacalli sa di essere un uomo morto.
L’inchiesta Minotauro (e le sue collaterali come Colpo di coda) ha portato allo scoperto il patto criminale che era stato firmato tra le cosche e alcuni ambienti politici ed economici in Piemonte, Lombardia e Liguri. È una storia che parte da lontano e che cammina parallela alle forti ondate migratorie che a partire dagli anni Cinquanta portarono tantissimi meridionali a tentare la sorte laddove l’economia era più prospera e laddove le fabbriche avrebbero garantito una costante domanda di manodopera. Assieme agli onesti, partirono pure i cattivi decisi, anche loro, a fare fortuna. Nel sodalizio criminale, le cosche hanno scoperto le loro carte vincenti: la forza dei numeri e la possibilità di orientare i voti della nutrita comunità calabrese in cambio di gare d’appalto inquinate a loro favore, concessioni edilizie e la libertà di scorrazzare indisturbati impadronendosi pezzo per pezzo di quel nord così prospero. Sono un uomo morto è il libro che raccoglie la testimonianza di colui che per primo ha svelato questo connubio e quanto profonda fosse l’infiltrazione della ‘ndrangheta nel sistema economico del nord ovest italiano. Attraverso una lunga scia di storie, nomi, vicende giudiziarie e morti ammazzati, Rocco Varacalli ci porta dietro le quinte di un sistema in cui amministratori, politici, assessori, faccendieri di diversa levatura e imprenditori hanno alimentato la macchina del consenso foraggiando la malavita calabrese. Una lettura disturbante, ma necessaria per conoscere l’ennesima manifestazione torbida del potere, quello che Max Weber interpreta come la capacità di farsi ubbidire attraverso la forza.