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I killer uccidono due volte, per errore e per affari
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settembre 26, 2011 Commenti disabilitati su I killer uccidono due volte, per errore e per affari
Agguato mafioso a Reggio. Uccisi due professionisti
REGGIO CALABRIA – Nuovo massacro di ‘ndrangheta. Due professionisti, tra cui un ingegnere cugino e socio del segretario regionale della Dc, sono stati assassinati ieri sera a colpi di lupara e di pistola, in una stradina buia della frazione Villa San Giuseppe, nella zona nord della città. Obiettivo del commando mafioso, che ha agito con estrema velocità e precisione, era soltanto l’ingegner Demetrio Quattrone, 42 anni, funzionario dell’Ispettorato del Lavoro, il quale tempo fa ha svolto alcune perizie per conto della Procura di Palmi che indagava su reati mafiosi nella Piana di Gioia Tauro. Assieme a Quattrone, però, i sicari hanno eliminato anche Nicola Soverino, 30 anni, romano, medico omeopata con studio a Reggio nel rione Sbarre, ex ufficiale degli alpini. Gli investigatori della polizia e dei carabinieri non hanno dubbi: il giovane medico è stato trucidato perché il commando della ‘ndrangheta non ha voluto lasciare testimoni. Personaggio molto noto in città e nella regione, professionista apprezzato, l’ingegner Demetrio Quattrone era socio del cugino, onorevole Franco Quattrone, ex sottosegretario agli Interni, attualmente presidente della Camera di commercio di Reggio e segretario regionale della Dc, nella Aurion, una società di consulenza che l’ex parlamentare ha messo sù quando non si è più ricandidato alla Camera. Sposato con Domenica Palamara, architetto, padre di tre figli, l’ingegner Quattrone era impegnato anche nella costruzione di due grossi edifici al rione Arghillà, edifici di proprietà di cooperative edilizie: un attivismo il suo che si è scontrato con gli appetiti delle cosche? E’ molto presto per dirlo. Il sostituto procuratore della Repubblica Vincenzo Pedone, per adesso, sta cercando di ricostruire nei dettagli la dinamica dell’impresa criminale che ha fatto salire a 144 il numero dei morti ammazzati da gennaio a oggi in provincia di Reggio (in Calabria è stato sfondato abbondantemente il muro dei 200 morti). Nel frattempo la squadra mobile della questura e i carabinieri diretti dal maggiore Paolo Fabiano, si stanno dando da fare per ricostruire una "radiografia" degli interessi dell’ingegner Quattrone. Particolare attenzione viene dedicata a quelle perizie commissionate al professionista dal procuratore della Repubblica di Palmi, Agostino Cordova: riguarderebbero appalti mafiosi nell’ area di Gioia Tauro, a quanto pare anche nei lavori per la centrale dell Enel. La strage è avvenuta poco dopo le 21.30. L’ingegner Quattrone voleva far provare la propria nuova Bmw all’amico medico. Per questo i due si erano messi in macchina gironzolando nella zona di un vecchio mulino dove l’ingegner Quattrone ha casa. Il commando, non si sa ancora se in auto o a piedi, ha affrontato l’obiettivo in una stradina stretta e buia. La Bmw è stata investita da una scarica di colpi di lupara (almeno 4 in base ai primi rilievi). Quattrone però ha avuto il tempo di rendersi conto di quello che stava avvenendo. E’ sceso infatti dall’auto, si è buttato per terra e ha cercato riparo e protezione tra la macchina e un muretto che fiancheggia la strada. I sicari erano però dei professionisti con un incarico di morte da portare a termine. Le due vittime, quindi, sono state "finite" con almeno 10 colpi di pistola sparati quasi a bruciapelo.
settembre 22, 2011 Commenti disabilitati su Agguato mafioso a Reggio. Uccisi due professionisti
Sangue e affari: così si muore in Calabria
REGGIO CALABRIA – Affari, ‘ndrangheta, politica. E morte. Lo scenario dei delitti eccellenti di mafia si ripresenta per il massacro di sabato scorso nel quale sono caduti sotto la tempesta di piombo due professionisti: l’ingegner Demetrio Quattrone, 42 anni, un tecnico dalle riconosciute qualità cresciuto però accanto al potere dc, che era l’obiettivo dei sicari, e il medico omeopata Nicola Soverino, 30 anni, trucidato perché – gli inquirenti ne sono più che convinti – era un testimone pericoloso dell’agguato. Il magistrato punta deciso sugli affari di Quattrone. Ci sono progetti che impegnano cifre a nove zeri, un vorticoso giro di consulenze e progettazioni che vanno dai lavori miliardari del decreto Reggio per la ricostruzione e riqualificazione urbana, ai progetti per l’occupazione giovanile, dai giacimenti culturali agli schemi idrici, dalla tutela dell’ambiente alla costruzione di porti e porticcioli, alla realizzazione di case in cooperativa per professionisti. A Reggio di grandi affari dunque si muore. Il delitto di Lodovico Ligato è stato il primo sicuramente eccellente in questo campo. Ma la guerra di ‘ndrangheta nasce in questa stessa cornice. Le cosche vogliono fare affari. Li fanno anche con protezioni politiche. E tutto ciò accade mentre le denunce cadono nel vuoto e nessuno si premura neppure di vedere cosa ci sia di vero quando il sindaco dc Agatino Licandro confessa di nutrire timori perché in consiglio siedono uomini che sono espressione elettorale delle cosche, e un consigliere, pure dc, afferma pubblicamente che quando si è discusso della destinazione dei miliardi del decreto per Reggio, in municipio arrivavano persone con valige piene di danaro che portavano indietro, vuote. Il nuovo massacro di ‘ndrangheta avvenuto sabato sera nella frazione Villa San Giuseppe, comunque, non scuote più di tanto una città che mostra di poter digerire tutto. I politici tacciono. C’è forse imbarazzo, perché il sostituto procuratore Vincenzo Pedone, subito dopo il delitto dell’ingegner Quattrone, ha mandato i carabinieri nella prestigiosa sede della Aurion con una richiesta di esibire tutti i documenti e le carte che erano del professionista ucciso. L’Aurion è una società di consulenza di cui è socio di maggioranza l’onorevole Franco Quattrone, segretario regionale della Dc, presidente della camera di commercio. Soci dei Quattrone sono alcuni nomi importanti dell’economia locale, da Giovanni Capua, industriale, a Pino Benedetto, presidente del Reggina Calcio. La società era stata al centro di polemiche per una contestata convenzione di 6 miliardi con la Provincia, poi annullata. Ma per quel che risulta per il resto aveva concluso buoni e tranquilli affari con la progettazione, per esempio, dell’università e del centro direzionale da finanziare proprio con i miliardi del decreto Reggio. Perché l’imbarazzo del mondo politico? Ma perché, se veramente la chiave del duplice omicidio sta nelle carte dell’ingegner Quattrone prelevate nell’ ufficio dell’Aurion, c’è il rischio che un po’ tutti si sporchino, in quanto tra i consulenti e i progettisti della società ci sarebbero professionisti di tutte le aree politiche, Pds compreso. Senza trascurare le nuove attività dell’ingegner Quattrone che aveva spostato parte del proprio interesse sulle cooperative edilizie, le indagini sembrano privilegiare proprio l’attività di consulenza. I carabinieri non trascurano, neanche, di scrutare tra gli altri impegni di Quattrone, quelli di funzionario dell’ispettorato del lavoro, ligio e rompiscatole, che potrebbe aver dato fastidio a qualche impresa mafiosa, e quelli di consulente dei magistrati di Reggio e di Palmi. In ogni caso è certo che con l’Aurion, creata dal cugino Franco Quattrone, deputato per tre legislature e più volte sottosegretario, l’ingegner Quattrone aveva troncato i rapporti, rimanendo solo socio di capitali pronto per altro a cedere la propria quota. Lo ha confermato, con una nota diffusa in serata, Rosario Chinè, amministratore delegato della società, lamentando il collegamento arbitrario che è stato fatto tra l’Aurion e il delitto. Chinè ha tenuto a precisare poi che l’Aurion e i suoi uffici non sono stati sottoposti a sequestro da parte dell’autorità giudiziaria penale. Ieri, intanto, a Villa San Giuseppe, la frazione in cui l’ingegner Quattrone abitava, si sono svolti i funerali. C’era tanta gente e tanta commozione. L’autopsia ha confermato l’accanimento dei sicari contro il professionista, come era avvenuto con Ligato.
settembre 22, 2011 Commenti disabilitati su Sangue e affari: così si muore in Calabria
Calabria, massacrati due professionisti
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settembre 22, 2011 Commenti disabilitati su Calabria, massacrati due professionisti
“La verità per Totò”
"Il senso della presente intervista è da ricercare nella sete di giustizia e, quindi, di libertà per me e per la mia famiglia, che ci siamo visti strappare la vita ed i sogni di Totò. In vero, la sete di giustizia riguarda non solo noi, ma tutta la Locride, anzi tutta la Calabria, meglio l’Italia intera. Si, perché la prospettiva di rinascita del Sud Italia in generale e della Provincia di Reggio Calabria in particolare, non può che passare dal corretto e civile funzionamento delle Istituzioni e del potere giudiziario soprattutto. Purtroppo non posso non evidenziare, con pessimismo, che se le condizioni sociali, politiche ed economiche del territorio interessato persistono nello stato attuale, le prospettive della popolazione locale sono senza futuro".
Introduce così, la nostra chiacchierata Domenico Musolino, ingegnere nato e cresciuto a Benestare, piccolo centro pre-aspromontano della Locride. Stimato professionista, che subito prima e immediatamente dopo la laurea ha ricevuto allettanti offerte di lavoro al Centro e al Nord Italia. Tutte respinte. Allora era un grande idealista, convinto della necessità del ritorno in Calabria della gioventù allontanatesi per motivi di studio e di lavoro. Soprattutto dei laureati. Ma a posteriori "posso dire, senza possibilità di rivalsa, che il rientro in questa regione dei giovani intelletti non serve a nulla se i poteri legali non innestano quei meccanismi di svolta nelle Istituzioni". Anche per le motivazioni che stanno alla base di questa conversazione, la sua residenza non è più a Benestare, ma in Toscana: "un altro mondo, distante anni luce dalla povera Calabria, dove si riesce a spendere meno del 20% dei finanziamenti ricevuti dalla Unione Europea. E non mi si dica che l’argomento è fuori tema. No, quello della mafia e quello dello scadente funzionamento delle Istituzioni sono due diversi aspetti della stessa medaglia".
Domenico, chi era Antonio Musolino?
"Antonio Musolino, detto Totò, era mio fratello, il secondogenito di quattro figli. Nato anche lui a Benestare nel marzo del 1945, subito dopo il servizio militare aveva avviato un’impresa di costruzioni. Era un imprenditore puro, che ha sempre amato il suo lavoro e la sua ‘Terra di Calabria’. Era simpatico e sempre disponibile ad ascoltare le opinioni di tutti. Senza però, mai accettare i ricatti più subdoli che la realtà sociale, ambientale esercitava (ed esercita, purtroppo, tuttora) sulla popolazione locale. Era un instancabile lavoratore, sempre pronto a dialogare con tutte le sue maestranze al solo fine di ottenere opere di alta qualità, con un elevato livello di garanzia per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Nonostante tutto e nonostante tutti. Si, perché era cosciente del fatto che tutti gli appetiti illeciti si sfogavano sulle imprese, considerate delle vacche da mungere. La sua, ai tempi, era una delle maggiori aziende presenti sul territorio ed era, regolarmente, per titoli e non per acquisizioni, abilitata per la costruzione di Lavori Pubblici (con antica iscrizione all’allora Albo Nazionale Costruttori tenuto presso il Ministero dei Lavori Pubblici). Ha realizzato importantissime opere, anche private: strade, acquedotti, fognature, edifici, scuole, strutture sanitarie, uffici postali, edifici commerciali e quant’altro. Nonostante le possibilità organizzative ed economiche ha, per libera scelta, evitato di comprare e gestire macchine per il movimento di terra, notoriamente, nelle mani della criminalità mafiosa della zona. Essendo un profondo conoscitore della legge sui lavori pubblici, ogni qualvolta riceveva richieste ‘irricevibili’ ricordava, con calma e serenità a tutti i suoi interlocutori, che"la legge non lo consente".
Nella sua vita si è sempre lamentato per la diffusa illegalità esistente nella zona e per l’assoluta mancanza di spirito anglosassone nella scoraggiata gente del posto, non abituata a guardare come proprie le cose pubbliche. Sfiducia derivante, secondo lui, dal mancato esempio da parte di coloro che, nel tempo, hanno rappresentato ai vari livelli la classe dirigente.
Tuo fratello è stato ucciso a colpi di pallettoni il 31 ottobre 1999. Cosa accadde esattamente quella sera?
"Era domenica. Le lancette dell’orologio segnavano le ore 21. Totò si trovava all’interno del frantoio oleario di sua proprietà. Era il primo giorno di apertura di quella stagione e mio fratello aveva appena finito di lavare i macchinari. D’un tratto, due killer a bordo di una Fiat Punto di colore grigio, risultata poi rubata giorni prima nella vicina città Bianco, hanno fatto irruzione e lo hanno colpito a morte con cinque colpi di fucile a canne mozze, la famosa ‘lupara’. Ricordo che durante quel pomeriggio, il frantoio era pieno di contadini che avevano portato per la molitura le olive appena raccolte. Verso le ore 19.45, passandoci davanti, mi sono fermato per scambiare qualche commento sulla futura campagna olearia con alcune persone che stavano lì ad aspettare. Subito dopo mi sono recato nell’abitazione dei miei genitori per stare in loro compagnia. Con loro ho ascoltato il Tg delle 20.00 e dopo una chiacchierata sono ritornato a casa. Durante il tragitto, in Piazza Matrice, che dista circa 50m dal frantoio, ho notato la presenza di tanta gente, incuriosita dal rinnovo delle cariche della Confraternita. Tutte queste persone, come me d’altronde, hanno notato la presenza di una Fiat Punto, condotta da due figuri molto brutti, con lo sguardo truce e violento, con il volto un po’ ‘travisato’ da cappellini muniti di lunga visiera calata sul viso. Questa inquietante presenza era stata avvertita e segnalata alle forze di polizia da alcuni cittadini già un paio di ore prima, intorno alle 17.00. Accanto al frantoio era parcheggiato, come di rito, un camioncino di Totò per la raccolta della sansa proveniente dal processo di lavorazione. Quindi, l’auto dei sicari ha dovuto procedere, dopo l’uccisione, con cautela stante le ridotte dimensioni della carreggiata disponibile. I killer muovendosi dal centro verso il cimitero ad elevata velocità, hanno incrociato, dopo pochi secondi dal delitto, a circa 100 m dal frantoio e poco prima della Piazza San Giuseppe, la pattuglia della Polizia di Bovalino, ‘allertata’ dalle precedenti telefonate. La volante, pur avendo il diritto di precedenza, pur avendo sentito i colpi di fucile, pur avendo notato l’elevata velocità dell’auto che sopraggiungeva, pur in presenza degli occupanti ancora travisati dal passamontagna, si sono scostati, facendoli passare indisturbati. Essendo quella l’unica strada accessibile per la fuga sarebbe bastato piantarsi sulla via per bloccare qualsiasi scappatoia, considerato inoltre che gli agenti erano a bordo di una macchina blindata.
Poi, il resto è diventato solo commento ironico. I killer sono andati verso il cimitero, la Polizia, dopo aver fatto inversione di marcia e dopo un po’ di tempo, è andata a cercarli in direzione di Careri. Quella opposta in pratica. Anche da un punto di vista logico. La strada verso il cimitero porta, senza alcun ostacolo, senza attraversare centri abitati verso Natile e Platì. Viceversa la direzione Careri, costringe ad attraversare tutto l’abitato di Benestare e va verso la Stazione dei Carabinieri di quel paese!
Tutti questi assurdi eventi mi hanno fatto scaturire una serie infinita di domande, di perché, rimasti sempre senza risposta. Per esempio, perché la Polizia è intervenuta con tanto ritardo? Perché scostandosi dalla posizione acquisita casualmente ha fatto passare la macchina dei killer? Perché al di la di ogni ragionevole ipotesi è andata verso Careri e non verso il cimitero secondo la strada seguita dagli assassini? Perché non sono stati istituiti immediatamente dei posti di blocco lungo le due strade carraie che si allontanano dal centro di Benestare verso la periferia Sud, Sud-Est? Perché gli agenti del commissariato, intervenuti in forze dopo il delitto, invece di inseguire gli assassini, si sono attestati intorno al frantoio, alla mia casa e a quella di mio fratello, considerato che subito dopo l’evento, dopo aver tamponato alla meglio le ferite, ho caricato in auto Totò per portarlo all’ospedale di Locri? Perché la polizia non è subito venuta nella zona dove è stata segnalata la presenza di quei due loschi individui e si è fermata all’ex Bar Galletta? Perché? Perché?"
Tu ti poni una serie infinita di perché, ora te ne pongo uno io. Perché Totò è stato ucciso?
"È una domanda alla quale le Istituzioni dovrebbero dare una risposta. Risposta che finora non mi è stata data. Ma nonostante siano trascorsi ben 12 anni, come familiari, ma soprattutto come cittadini di questa sventurata terra, ancora cerchiamo, aspettiamo e pretendiamo. Perché coscienti che il progresso e lo sviluppo del territorio passano, inevitabilmente, dall’acquisizione di un adeguato livello di legalità e di giustizia. Diritti inalienabili, ora come ora però, negate alla numerosa cittadinanza onesta, civile, lavoratrice, che seppur indignata, per la paura non riesce a sfuggire al giogo criminale. Tornando alla domanda, replico analizzando i fatti. Totò era un imprenditore edile di media grandezza, ma comunque uno dei più grandi della zona, che sistematicamente, durante l’autunno e l’inverno si dedicava, per passione, al frantoio oleario. Gli interessi economici in questo settore erano talmente modesti che non ci sarebbe stata, secondo me, alcuna convenienza a cercare ipotetici approcci di illegalità. Considerato poi, che da qualche tempo era preoccupato per la grave malattia della moglie, sono da scartare presunte questioni di natura sessuale. Tutti conoscevano la vita tranquilla che Totò faceva nell’ambito paesano. Resta quindi la pista legata alla sua l’impresa, che ragionevolmente, è quella da cui ha trovato origine la sciagurata determinazione mafiosa. Si, mafiosa, perché Totò svolgeva un’attività importante per tutto il comprensorio. Senza l’avallo del vertice ‘ndranghetista, un cane sciolto non avrebbe potuto compiere una simile azione. Azione fatta con modalità strettamente malavitose. Quasi per dare un segnale a tutte le ditte operanti sul territorio. Circostanza che ha funzionato allora e funziona ancora oggi nell’appalto di ogni opera pubblica. Chi vuol vedere veda. Né, tantomeno, è il caso di nascondersi dietro un dito, come continuano a fare personaggi che gravitano nel mondo della politica locale e delle istituzioni, i quali sostengono e certificano l’assenza della mafia dai cantieri pubblici per l’esistenza della Stazione Unica Appaltante (Sua). Ma scherziamo? Torno all’attività imprenditoriale di Totò. In quel periodo aveva in portafoglio, a parte alcuni piccoli lavori, tre commesse pubbliche di una notevole importanza, anche economica: Poste di Castrovillari, Centro disabili di Condassondolo di Siderno e infine il recupero di edifici pubblici a Careri e Natile. Il primo cantiere, quello di Castrovillari, era praticamente ultimato con un certo appagamento della Stazione Appaltante. I piccoli lavori di completamento sono stati eseguiti e diretti da me personalmente e, durante le visite fatte in quel centro, ho potuto registrare solo apprezzamenti verso Totò. E mai alcuno si è presentato con richieste economiche o di altra natura illecita. Il secondo cantiere, stavolta siamo a Siderno, era stato appena iniziato e, se si esclude una richiesta illegittima, fatta da un tecnico e prontamente rigettata da Totò, non risultano, per quanto di mia conoscenza, richieste estorsive di natura mafiosa. I suddetti lavori, una volta allontanato il professionista parassita, sono proseguiti sotto la mia direzione e controllo senza registrare alcuna pretesa illegale. Il terzo e ultimo cantiere era stato impostato e sviluppato da mio fratello, in modo tale da realizzare i lavori prima a Careri e poi a Natile. Praticamente aveva completato i lavori nel primo paese e ha dato immediatamente inizio ai lavori su Natile. Ma in quel frangente di tempo è avvenuto l’omicidio e la Stazione Appaltante ha sciolto il contratto ed ha affidato i rimanenti lavori ad un’altra ditta. Perché allora è stato ucciso Totò? È la domanda che, ancora, mi pongo anch’io. Chi ha dato ordine per l’uccisione di Totò? Chi ha assentito per l’uccisione di Totò? Chi era il capobastone che ha sottoscritto la condanna? Perché i killer hanno agito con tanta spavalderia, gironzolando per l’intero pomeriggio in paese, come se non avessero timore alcuno? Chi ha coperto i sicari a Benestare? Chi era il capetto mafia locale in quel periodo? Chi erano i mafiosi locali che avevano interessi e che quindi lo frequentavano? In quale anfratto del paese i killer hanno tenuto nascosta l’automobile rubata con targhe rubate e le armi durante i loro primi giri di perlustrazione ? Chi ha tratto vantaggio economico dalla morte di Totò? A queste domande, ancora non sono riuscito ad ottenere risposte.
Tu denunci spesso delle anomalie investigative. Qualche esempio?
"Nelle premesse ho precisato ed ora ribadisco l’espressa ed esclusiva determinazione nel voler ottenere giustizia per l’assassinio di mio fratello. Per una questione di legalità, di libertà, di progresso e di sviluppo del territorio. E, per tentare di fare in modo che quello che ha passato la mia famiglia non lo debba passare nessun altro. Rammentato, ancora una volta, per la sua estrema importanza e non per la necessità di ripetere retoricamente tale concetto, che non ci si può trattenere, purtroppo, dal mettere in evidenza alcune gravi lacune che varie volte, personalmente, in forma orale ed in forma scritta, ho contestato alla Polizia Giudiziaria e alla Procura della Repubblica. Mi chiedi degli esempi, eccone in sintesi alcuni. Innanzitutto non è stata effettuata alcuna perlustrazione del territorio subito dopo il delitto al fine di rintracciare l’auto usata dai killer, trovata poi da un contadino che ha telefonato ai carabinieri. Non si è riusciti a capire dove sia stata custodita l’auto dalla data del delitto alla data del ritrovamento, avvenuto una diecina di giorni dopo a qualche centinaio di metri dal cimitero di Benestare. Inoltre, sono scomparsi alcuni reperti, come per esempio il cappellino con visiera utilizzato da uno dei due killer e il telo da spiaggia adoperato per nascondere il fucile durante i loro svariati giri intorno al frantoio. In aggiunta, non è stato effettuato l’esame del Dna sull’abbondante peluria rivenuta nel passamontagna artigianale che portava uno dei killer: mentre al Nord Italia si effettuano anche esami a tappeto per scovare un colpevole, nella Locride ci si rifiuta di farlo subito, nonostante le sollecitazioni, scritte ed orali del sottoscritto. E come non dire che l’auto dei killer, una volta rinvenuta, è stata custodita in un garage privato, praticamente accessibile a chiunque e con i vetri dei finestrini aperti, compromettendo la possibilità di svolgere accurate indagini scientifiche. Eppure i Carabinieri, con il loro referto e con la relativa documentazione fotografica, hanno consegnato l’auto con i vetri chiusi. Ma non è tutto: i rilievi scientifici sull’auto sono stati effettuati solo 7 anni dopo. E c’è da sottolineare anche che poco dopo il delitto la Procura di Locri ha sottoposto ad indagine, fino a poco tempo fa, tre persone: una di Natile, una di Platì ed una di San Luca, quest’ultima ad oggi latitante. Se è vero, come affermato dalle stesse forze di Polizia, che i suddetti tre ex indagati appartengono ad altrettante potenti famiglie mafiose della zona, non si capisce perché il fascicolo non sia stato trasmesso, per competenza, come ripetutamente ho richiesto, alla Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) che, certamente, non avrebbe perseverato nella reiterazione di errori ed omissioni. Altra anomalia: quando è stato effettuato il primo raffronto del Dna ritrovato sui reperti dei killer e gli indagati, tutti di sesso maschile, il Ctu (consulente tecnico d’ufficio) ha sentenziato che il reperto di uno degli indagati, il latitante, apparteneva ad una persona di sesso femminile. Addirittura e assurdamente in fase di ripetizione del raffronto del Dna, sono stati ripetuti platealmente e analogamente gli stessi errori grossolani fatti con la prima Ctu. Infine, assodato che uno dei killer portava un cappellino con un preciso logo pubblicitario, successivamente scomparso dai corpi di reato, nessuno si è preoccupato di indagare sull’intestatario di una tesserina di punti rilasciati da una catena di servizio di carburante. Perché tutto questo? Chi si è arrabbiato, indignato, civilmente incavolato per questa sfilza infinita di assurdità prima logiche e poi investigative?".
Perché, secondo te, i killer e i mandanti non sono mai stati trovati?
In gravissimi fatti mafiosi, come quello che ha colpito la nostra famiglia, è necessario, per individuare i killer ed i mandanti che si verifichi almeno una delle tre ipotesi che seguono. La prima, è che la Polizia Giudiziaria sia all’altezza della situazione dal punto di vista della professionalità. Quindi inquirenti che esaminino attentamente i fatti, che indaghino le circostanze sospette, che propongano iniziative alla Procura della Repubblica di competenza. Con estrema tristezza, devo riconoscere che la Pg incaricata non è stata all’altezza della circostanza. Mi è oscuro il motivo della suddetta inefficienza. Eppure, se è vero come unanimemente riconosciuto, che il vertice della mafia calabrese è nella Locride, non si capisce perché lo Stato, in questa zona, non impegna le migliori intelligenze investigative. La seconda ipotesi, è che sia la Magistratura, da un punto di vista professionale, all’altezza della situazione. Ho ascoltato tanta gente civile ed onesta dal delitto di Totò, ma nessuno, mai, finora, ha esposto un concetto di sufficienza sul loro operato. Terza ed ultima ipotesi, è che qualcuno di quelli che sanno (almeno dodici persone dalle mie indagini) parlasse confessando il delitto al fine di liberarsi la coscienza. Ma, se è vero come sembra essere vero, che il delitto èstato pianificato dai vertici delle consorterie mafiose della zona, la possibilità di vedersi realizzata una simile ipotesi è rimandata alle calende greche. Bisognerebbe aspettare, eventualmente, un decadimento o un annullamento della potenza mafiosa di coloro che hanno organizzato il delitto. Ora come ora non mi sembra che ci sia stato alcun annientamento delle famiglie mafiose operanti sul territorio.Tale ipotesi richiede, forse, tempi biblici e pazienza cinese, per aspettare, con calma, in riva al fiume, per vedere il passaggio del cadavere degli assassini.
Tu però non ti sei arreso…
"Non solo non mi sono arreso, ma non mi arrenderò fintanto che non saranno assicurati alla legge i killer ed i mandanti di mio fratello. E questo atteggiamento, questa determinazione, l’ho fatta conoscere, da allora, ininterrottamente, a tutti coloro che a vario titolo hanno interagito con le indagini ed a quelli che, come me, hanno sete di giustizia. Per Totò, per se stessi e per tutta la Calabria".
Ti senti deluso dallo Stato?
"Lo Stato siamo tutti noi che ne facciamo parte. In quanto tale non è oggettivamente responsabile. Se, invece, come Stato intendiamo le persone che a vario titolo hanno rappresentato e rappresentano le istituzioni, delle quali sono un profondo e sincero sostenitore, l’argomento è totalmente diverso.Sì, sono deluso per la mancata efficienza, per la mancata volontà politica di porre rimedio ad un problema incancrenito nel tessuto sociale. La mafia è penetrata nei gangli del potere istituzionale senza che nessuno facesse niente. Senza che nessuno impugnasse il bisturi al fine di estirpare il cancro che sta necrotizzando compiutamente i tessuti vitali calabresi.
Quanta rettitudine imperversa. Quanti errori ed omissioni coprono colpa e dolo che nessuno ha interesse a portare alla luce? La mafia, come evidenziato da recenti indagini investigative, è molto capace, con la corruzione, a permeare ogni piccolo anfratto istituzionale. Tra la più totale indifferenza di chi di dovere".
Che differenza c’è tra la Locride del 1999 e quella attuale?
"Mi piacerebbe dire il contrario, ma nella Locride, da quel lontano ma vicinissimo 31 ottobre 1999, ad oggi, sostanzialmente, non è cambiato nulla. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Solo i romantici ed i ciechi possono ipotizzare il contrario. Nella Locride si è senza futuro. Ma per uscire dal buio è necessario che il cittadino si ponga dei punti di domanda. Solo così può ipotizzare di passare ai punti esclamativi, come ben noto derivanti da un ‘evviva’, corrispondente alla parola latina ‘Io’, e da qui, con gli amanuensi, al ! (evviva appunto). Con questa nota mi auguro che qualcuno, oltre a me, si ponga alla propria coscienza un punto di domanda: perché? Perché?
Tutto questo lamento perché mai a nessun altro essere umano debbano essere rubati i sogni, come a Totò".
Cos’è per te la ‘ndrangheta?
"È un potere occulto che infiltrandosi, illegalmente, fraudolentemente, illecitamente, nei gangli delle istituzioni e della società civile cerca di controllare il potere economico, politico e sociale di un territorio. Togliendo alla gente il bene più grande di cui ogni essere umano dovrebbe godere, in ogni parte del mondo: la libertà. Si, perché dove la mafia impera non c’è libertà per i cittadini. Che, ribadisco, seppur indignati non possono da soli liberarsi dal giogo del malaffare mafioso. Ma, nonostante tutto, è necessario guardare al futuro con ottimismo: solo per il futuro remoto, perché per quello prossimo, non c’è speranza".
settembre 6, 2011 Commenti disabilitati su “La verità per Totò”
Testimoni di giustizia, abolito il programma di protezione
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha più volte definito l’operato del suo dicastero "l’antimafia dei fatti", snocciolando dati che riguardano beni mobili e immobili confiscati e nomi di boss e latitanti arrestati. Sarà difficile ora spiegare agli italiani perché lo scorso dicembre – ma la notizia è trapelata solo oggi – il governo non ha prorogato la Commissione centrale per i collaboratori di giustizia e i testimoni, organo politico-amministrativo che vaglia ammissione, revoca o modifica al programma di protezione di collaboratori e testimoni di giustizia.
La Commissione presieduta da Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno, oltre che da due magistrati e cinque esponenti delle forze dell’ordine, era inclusa tra gli organismi confermati presso il ministero degli Interni e soggetto a proroga discrezionale disposta con decreto del presidente del Consiglio, che scadeva appunto lo scorso dicembre.
E adesso? Senza protezione, è difficile credere che i testimoni di giustizia – cittadini incensurati che hanno avuto il coraggio di denunciare i propri estorsori o di ribellarsi a un ambiente circostante che stride con i propri valori – credano ancora nella protezione dello Stato. Persone come la giovane Rita Atria, figlia e sorella di boss, che decise di raccontare tutto a Paolo Borsellino, al quale sopravvisse una settimana, suicidandosi il 26 luglio 1992, incapace di andare avanti senza lo "zio Paolo". Persone come l’imprenditore edile Pino Masciari, testimone di giustizia, che nell’ottobre 1997 entrò nel Programma di protezione a seguito delle denunce presentate contro i propri estorsori. Da allora Masciari fu costretto a vivere in clandestinità, con generalità false e cambiando continuamente casa.
La Commissione centrale riguarda non solo i testimoni ma anche i collaboratori di giustizia. Come Tommaso Buscetta, che consegnò le proprie dichiarazioni a Giovanni Falcone, o come Gaspare Spatuzza: è proprio in merito alla sua vicenda che l’organo del ministero balzò agli onori della cronaca. Era l’estate 2010: il pentito rilasciò dichiarazioni su presunti legami tra Cosa nostra e il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il senatore Marcello Dell’Utri. Decise di collaborare, ma le sue dichiarazioni furono date oltre i 180 giorni previsti dal regolamento: per questo gli fu negato il programma di protezione.
Un programma che adesso non esiste più, così come chi decide di mettersi al servizio della giustizia – sia esso un ex criminale o un onesto cittadino – non potrà più avvalersi di nuove identità, località segrete dove rifugiarsi, protezione speciale come le scorte. Succede anche questo, nel governo "dell’antimafia dei fatti".
(Ma.De.)
gennaio 28, 2011 Commenti disabilitati su Testimoni di giustizia, abolito il programma di protezione
La pentita della ‘ndrangheta: “Mio fratello dovrà uccidermi”
REGGIO CALABRIA – Stava in carcere da sei mesi, e prima di chiamare i magistrati della Procura antimafia di Reggio ha tentato due volte il suicidio. Poi ha scelto un’altra strada, consegnandosi nelle mani delle istituzioni. L’ha detto chiaro e tondo ai pubblici ministeri: «Finché mio fratello sarà vivo io resterò condannata a morte, perché è lui che deve eseguire la sentenza per il mio tradimento. Solo lo Stato può salvarmi». Ma la consapevolezza di mettersi contro l’intera famiglia non è bastata a fermarla: «Lo faccio per i miei figli. Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere minorile, e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due figlie invece dovranno sposare due uomini di ‘ndrangheta, e saranno costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per loro». Così ha parlato Giuseppina Pesce, 31 anni, figlia, sorella e moglie di affiliati alla cosca di ‘ndrangheta che porta il suo cognome, la prima pentita di una clan importante, che ha avuto un ruolo di rilievo all’interno del gruppo criminale. Un segnale dirompente in una terra dove l’omertà dei boss e dei loro adepti è strettamente connessa ai legami di sangue che quasi sempre si sovrappongono a quelli delinquenziali. In Calabria due donne hanno preceduto la giovane Pesce sulla strada della collaborazione coi giudici; una, Lea Garofalo, rapita e uccisa a Milano dopo aver svelato i segreti di una ‘ndrina in provincia di Crotone (su decisione del padre di sua figlia, secondo le ultime indagini); l’altra si chiama Rosa Ferraro, viene da una famiglia collegata e imparentata coi Pesce, ma aveva un ruolo inferiore. Ed è già sfuggita a un tentativo di omicidio. I Pesce sono la famiglia che «governa» a Rosarno, la cittadina della piana dove un anno fa esplose la rivolta degli extracomunitari reclutati nella raccolta degli agrumi. Un clan che ha esteso i suoi affari dalla provincia di Reggio a Milano, dove ad aprile erano state fermate la madre e la sorella di Giuseppina. Donne di ‘ndrangheta pure loro, il giudice milanese le ha scarcerate, il Tribunale del riesame ha ordinato un nuovo arresto e ora sono in attesa del verdetto della Cassazione. In galera si trovano anche il padre di Giuseppina, Salvatore Pesce, il fratello Francesco di 26 anni, il marito Rocco, lo zio Antonino considerato il capoclan e una sfilza di altri parenti attivi nella cosca. Suo cugino Francesco, detto ‘u testuni, è riuscito a sfuggire alla retata di primavera e da allora è latitante; la cugina Maria Grazia, sorella di Francesco che la considera il «vero uomo» di casa, è tornata in carcere ieri. Giuseppina, da libera, aveva il ruolo (come le altre donne) di prendere e portare messaggi tra i familiari detenuti, ma anche di prestarsi al riciclaggio del denaro. Attività che le sono valse l’accusa di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, e dunque l’arresto. «Io potrei anche cavarmela con qualche anno di carcere, ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato – ha detto ai magistrati nel primo interrogatorio -. Quando il mio bambino, una volta, ha detto che da grande gli sarebbe piaciuto fare il carabiniere, suo zio l’ha preso a botte, poi gli ha promesso che una pistola gliel’avrebbe regalata lui». Per questo la giovane madre ha deciso di confessare i propri delitti e di accusare i parenti. «Dalla sua posizione privilegiata ha ricostruito l’intero organigramma della potente famiglia mafiosa, descrivendo il ruolo di ciascun componente, compresi i suoi stretti congiunti, ha riferito sulle vicende relative alla successione al vertice della cosca, ha descritto l’ascesa al potere del pericoloso cugino Francesco, ha dettagliatamente indicato attività economiche riconducibili alla cosca mafiosa», hanno scritto i pubblici ministeri nel provvedimento con cui ieri hanno fermato dieci persone, anche sulla base delle dichiarazioni di Giuseppina Pesce. Ha fatto anche ritrovare tre bunker di cui uno dentro la casa di Francesco ‘u testuni. E ha raccontato una storia che coinvolge un altro cugino arrestato ieri, Antonio Pesce. Il marito le ha svelato che aveva partecipato all’omicidio di sua sorella Annunziata, vittima di «lupara bianca» per aver intrecciato una relazione sentimentale con un carabiniere. Gli investigatori del Ros dell’Arma hanno già trovato i primi riscontri alla ricostruzione della pentita. Che conferma la regola: l’onta di ritrovarsi in casa qualcuno che passa dalla parte degli sbirri va lavata col sangue per mano di un congiunto. Giuseppina l’ha sentito dire con le sue orecchie a proposito di Rosa Ferraro. Per questo ha paura dei suoi familiari, a cominciare dal fratello. Ma la speranza di un futuro diverso per i suoi figli le ha dato il coraggio di abbandonare definitivamente il passato e guardare avanti.
novembre 24, 2010 Commenti disabilitati su La pentita della ‘ndrangheta: “Mio fratello dovrà uccidermi”
Lamezia, 15 attentati in una settimana. La ribellione in piazza: fuori i clan
LAMEZIA TERME – Quando il corteo è arrivato dove una volta c’era il magazzino di gomme e la casa dei Godino, dalle mura si alzava ancora un filo di fumo nero. Dopo quattro giorni, il palazzo distrutto dal racket, continua a bruciare. Il signor Roberto li ha aspettati lì, dritto sul marciapiede. Stampata sul volto l’espressione di chi ha perso tutto, ma non molla. I figli hanno voluto manifestare assieme a tutti gli altri, hanno camminato spalla a spalla con studenti, commercianti e gente comune. Erano in cinquemila ieri mattina a Lamezia Terme. Incolonnati dietro striscioni sui quali l’invito era chiaro: «Facciamoci sentire per non farci seppellire». Guidati dal sindaco Gianni Speranza e dal governatore Agazio Loiero, entrambi scortati, entrambi consapevoli che «la situazione è difficilissima». D’altra parte la gravità del "caso Lamezia" è sotto gli occhi di tutti. Lo dicono i numeri e gli episodi degli ultimi mesi. Dal gennaio scorso, la terza città della Calabria, che ha pure l’area industriale più estesa della regione, è sotto assedio. Otto morti ammazzati, 85 episodi di danneggiamenti noti, ed almeno tre volte tanti non denunciati. Nel mirino, dice il sindaco, ci sono tutti: «Attività commerciali, aziende, agricoltori e persino liberi professionisti». Sullo sfondo una feroce guerra di ‘ndrangheta tra i Torcasio-Gualtieri e gli Iannazzo-Giampa. Si ammazzano per il controllo del territorio, per avere il predominio sugli affari della droga, degli appalti ed delle estorsioni. In un escalation senza precedenti, alla quale chi si oppone paga. Il 10 maggio 2005 gli uomini dei clan sono arrivati a tirare una bomba alle quattro del pomeriggio, contro un negozio aperto. Attilio Carnevale è concessionario Olivetti e gestisce l’attività assieme alla sua famiglia: «Ho sentito mia sorella urlare e poi un botto tremendo». Un ordigno rudimentale era stato lanciato attraverso l’ingresso, e solo per fortuna nessuno si è fatto male. A Lamezia c’è gente che non si piega. Roberto Molinaro ha un bel negozio di sanitari sul corso principale. Nella vetrina però non ci sono piastrelle, ma un grande manifesto nel quale chiede di sapere a che punto stanno le indagini che lo vedono parte lesa. Molinaro ha denunciato quattro tentativi di estorsione: «Con nome, cognome, indirizzo e fotografia dei malviventi». Ma, dice, «ancora sono tutti fuori». E aggiunge: «Io il mio dovere di cittadino l’ho fatto, altri non credo proprio». La ‘ndrangheta intanto continua a sparare e bruciare. Più di 15 attentati nell’ultima settimana. A partire dai tre autobus incendiati alla ditta Bilotta, per finire con il duplice omicidio in pieno centro di giovedì sera, mentre il consiglio comunale era riunito proprio per dire basta. Una situazione che ha fatto dire al procuratore Raffaele Mazzotta: «Qui è come Beirut».I ragazzi hanno chiuso il corteo scandendo: «Gianni non mollare». Il sindaco ha promesso di andare avanti. E ne spiega la ragione: «Il signor Godino, poche ore dopo che gli hanno distrutto l’attività e la casa, mi ha chiesto se gli trovo un magazzino perché vuole riaprire. Io so che questa è la vera Lamezia, dignitosa e combattiva. Se ci aiutano rompiamo l’assedio e vinciamo. Ne sono sicuro».
ottobre 29, 2010 Commenti disabilitati su Lamezia, 15 attentati in una settimana. La ribellione in piazza: fuori i clan
Denunciò la ‘ndrangheta. Uccisa e sciolta nell’acido
MILANO – Uccisa dopo essere stata «interrogata», messa su un furgone con 50 chili di acido, scaricata in un terreno a Monza San Fruttuoso e sciolta. Sono le terribili testimonianze dell’inchiesta che ha portato a sei ordinanze di custodia cautelare in carcere notificate nella notte per la scomparsa della collaboratrice di giustizia calabrese Lea Garofalo. Gli arresti sono stati eseguiti tra Lombardia, Calabria e Molise.
ARRESTI – Lea Garofalo, 35 anni, ex collaboratrice di giustizia e compagna di un affiliato alla ‘ndrangheta di Petilia Policastro (Crotone), era sparita tra il 24 e il 25 novembre scorsi. Due mandati di arresto sono stati notificati in cella a Carlo Cosco – 40 anni, coinvolto in inchieste alla fine degli anni Novanta a Milano e cugino di Vito Cosco, autore della strage di Rozzano (Milano) che lasciò a terra quattro morti nell’agosto 2003 – ex convivente della donna dalla cui relazione è nata una figlia ora maggiorenne – e a Massimo Sabatino, 37 anni – spacciatore di Quarto Oggiaro. I due erano già stati arrestati a febbraio per un precedente tentativo di sequestro, avvenuto a Campobasso nel maggio dell’anno scorso, con lo scopo di uccidere la Garofalo per vendicarsi delle dichiarazioni da lei rese agli inquirenti a partire dal 2002 contro alcuni affiliati alle cosche della ‘ndrangheta di Petilia Policastro (Crotone). Il 24 febbraio scorso erano state arrestate in Molise altre due persone per aver messo a disposizione alcuni capannoni nel Milanese dove la donna sarebbe stata portata dopo la scomparsa. Gli altri quattro destinatari del provvedimento sono i fratelli Giuseppe «Smith» Cosco e Vito «Sergio» Cosco, Carmine Venturino e Rosarcio Curcio.
COLLABORATRICE – La donna nel 2002 aveva iniziato a collaborare con l’Antimafia nelle indagini sulla faida tra i Garofalo e il clan rivale dei Mirabelli. Poi, nel 2006, aveva abbandonato il piano di protezione e lasciato la località segreta dove viveva. Nelle sue dichiarazioni, Lea Garofalo aveva parlato anche degli omicidi di mafia avvenuti alla fine degli anni Novanta a Milano. Come quello di Antonio Comberiati, nel 1995, nel quale era stato coinvolto anche il fratello.
AGGUATO – Secondo l’indagine, Carlo Cosco ha organizzato l’agguato teso a Lea Garofalo mentre questa si trovava a Milano con la figlia. Proprio con il pretesto di mantenere i rapporti con la ragazza, legatissima alla madre, Cosco ha attirato la sua ex a Milano nello stabile di viale Montello 6, un palazzo che ospita molti parenti dei caduti della guerra di ‘ndrangheta. Lo scorso 24 novembre Lea Garofalo partecipò a una riunione di famiglia per decidere dove la figlia avrebbe proseguito gli studi dopo le superiori. Le sue tracce si sono perse nel pomeriggio quando alcune telecamere l’hanno inquadrata nella zona del palazzo e lungo i viali che costeggiano il cimitero Monumentale. La figlia e il padre erano alla stazione Centrale ad attenderla insieme al treno che avrebbe dovuto riaccompagnarla al Sud. Almeno quattro giorni prima del rapimento, Cosco aveva predisposto un piano contattando i complici, assicurandosi sia il furgone dove è stata caricata a forza, sia la pistola per ammazzarla «con un colpo», sia il magazzino o il deposito dove interrogarla, e infine l’appezzamento dove è stata sciolta nell’acido. La distruzione del cadavere ha avuto lo scopo di «simulare la scomparsa volontaria» della collaboratrice e assicurare l’impunità degli autori materiali dell’esecuzione. Sabatino e Venturino hanno materialmente sequestrato la vittima e l’hanno consegnata a Vito e Giuseppe Cosco, i quali l’hanno interrogata e poi uccisa con un colpo di pistola.
ACIDO – Lea Garofalo avrebbe dovuto essere rapita in Molise e trasportata in Puglia per essere uccisa e sciolta nell’acido in una masseria nei dintorni di Bari, e per questo il suo ex compagno Carlo Cosco aveva procurato, chiedendolo ai cinesi di via Sarpi a Milano, un furgone su cui erano stati «caricati anche 50 litri di acido». Sono le rivelazioni di un compagno di cella di Massimo Sabatino, uno dei sei arrestati nell’ambito dell’inchiesta.
ottobre 18, 2010 Commenti disabilitati su Denunciò la ‘ndrangheta. Uccisa e sciolta nell’acido
La caccia al nero con i fucili a pallini
Dal suo letto d`ospedale Ayiva Saibou mostra i jeans insanguinati all`altezza della cerniera lampo. Ne indossava due paia, uno sull`altro. Il pallino di piombo sparato da una pistola ad aria compressa li ha forati entrambi e si è conficcato nella carne. Lì resterà a vita. Ha mirato ai genitali chi gli ha sparato da una jeep Volkswagen scura sulla statale 18, giovedì 7 gennaio intorno all`una.
L`agguato con il ferimento del ragazzo del Togo e di un altro suo compagno è stato l`episodio che ha dato il via all`inferno di Rosarno. La rivolta degli africani e la reazione degli abitanti con i linciaggi da Ku Klux Klan, che vanno avanti da due giorni. I rosarnesi raccontano una storia da «se la sono cercata», secondo la quale gli immigrati urinavano sotto il balcone di una casa. «Perché avremmo dovuto farlo? Io ho due figli, non sono un bambino e alla fabbrica abbiamo i bagni chimici», dice Ayiva, che ha il permesso di soggiorno in scadenza a febbraio.
Della rivolta non ha visto nulla, se non la sua stanza all`ospedale di Gioia Tauro riempirsi di compagni africani, lavoratori stagionali come lui. L`ultimo arrivato, due giorni dopo la prima aggressione contro gli africani, è un ragazzo che non riesce a parlare. È stato colpito con proiettili da caccia all`avambraccio sinistro e alla gamba destra. Le ronde dei calabresi lo hanno scovato mentre cercava di scappare da Rosarno, dalla `fabbrica`, lo stabilimento ex Opera Sila dove alloggiavano in mille tra gli stenti, il freddo e il degrado. Si chiama Dabre Moussa, 37 anni, del Burkina Faso. Nei letti di fronte ci sono i due giovani ventenni gambizzati per strada a laureana di Borrello venerdì sera. Non sono in pericolo di vita, ma hanno entrambe le gambe bendate e sanguinanti, piene di pallini da caccia.
«Un numero imprecisato, forse una sessantina», dice il chirurgo Domenico Giannetta. La "caccia al nero" nella Piana di Gioia Tauro si fa con i fucili da caccia, con le cartucce che si usano per gli uccelli ed esplodono dentro la pelle come piccole bombe a grappolo. Oumar Sibisidibi e Manden Musa Traorè vengono dalla Guinea Conakry e anche loro si terranno per sempre nelle gambe questo ricordo di piombo. I pallini non saranno estratti. Per tutti loro il questore di Reggio Calabria, Carmelo Casabona, ha deciso il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ai sensi dell`art.18 della legge Bossi-Fini. Gli africani feriti continuano ad arrivare.
Al piano terra c`è anche Godwin, nigeriano con la testa fasciata e un braccio ingessato. «Venerdì ero andato a prendere i soldi dal datore di lavoro perché volevo andare via – racconta – sulla statale mi hanno aggredito e picchiato a sangue. Sono riuscito a scappare, mi hanno raccolto i poliziotti». Sono tanti i racconti terrorizzati dei ragazzi della "fabbrica", che oggi hanno lasciato scortati dalla polizia i tuguri in cui vivevano. «Italy doesn`t like black», dicono. E hanno scritto su un muro «Avoid shooting black». Charles Ousu, ghanese in Italia dal 2004, passato per il Sahara, la Libia e Lampedusa, ha il permesso di soggiorno fino al 2011.
Lavorava a Vicenza in una fabbrica, ma è stato licenziato ad agosto del 2008. Da allora vaga per l`Italia delle campagne. Aveva trovato lavoro a Gioia Tauro come bracciante agricolo ma ora vuole solo scappare. Il suo datore di lavoro è venuto a salutarlo e dargli l`ultima paga attraverso il cordone della polizia. Non è il solo. Molti altri proprietari terrieri si sono avvicendati nel corso della giornata per fare la stessa cosa. «Non abbiamo mai avuto problemi con loro – dicono – le nostre donne lavorano tranquille nei campi con gli africani, che sono instancabili».
ottobre 10, 2010 Commenti disabilitati su La caccia al nero con i fucili a pallini






