Cittanova, dove il racket restò fuori dalla porta
“Una rilettura attenta che parta dalle condizioni socio-economiche di quegli anni non è stata ancora fatta. Il paese ha risposto, l’omicidio di Ciccio Vinci ha preparato un humus culturale e sociale per chi ha trovato la forza di ribellarsi”, commenta oggi Franco Morano. Certamente da quell’esperienza di movimento nacque una generazione di amministratori impegnata contro le cosche, e certamente il brodo di coltura fervido di quegli anni ha prodotto frutti rigogliosi. Straordinaria fu l’esperienza di commercianti e imprenditori di Cittanova che denunciarono i tentativi di estorsione, si opposero alle pressioni delle cosche, denunciarono facendo nomi e cognomi. Stava nascendo la prima associazione antiracket d’Italia, l’Acipac.
Raccontava il procuratore di Palmi Agostino Cordova: “I soldati delle cosche a Cittanova
esagerano, mettono taglie insostenibili, i commercianti con il coraggio della disperazione ci fanno sapere che sono pronti a resistere, di noi si fidano, li riforniamo di registratori, di macchine fotografiche micro, i volti e le voci dei mafiosi vengono registrati, si fanno anche i riconoscimenti a futura memoria che salvano la vita ai testimoni, vivi o morti le loro testimonianze sono incancellabili e magari al giudice Carnevale non basteranno, ma intanto noi che siamo qui e li abbiamo mandati in galera rischiamo la pelle”.
Persone normali, gli imprenditori che si ribellavano. Dodici imprenditori locali, stanchi di subire i taglieggiamenti, decisero che era giunto il momento di rifiutarsi di pagare il pizzo e di denunciare. Nello smarrimento e nell’abisso della solitudine, scelsero di non arrendersi.
Furono scelte di disperazione forse, ma anche di grande passione civile. Come quella di
Maria Concetta Chiaro che tenne fuori dalla porta di casa gli estortori, che non permise loro di entrare. Aveva appena 21 anni, Maria Concetta, era una studentessa di architettura e aveva deciso di ribellarsi ai taglieggiatori di suo padre, un imprenditore ortofrutticolo. Fu
quello uno dei momenti decisivi di questa storia che anticipava in qualche modo l’antimafia sociale. “Era una posizione necessaria – ha raccontato quasi 15 anni dopo Maria Concetta – ci abbiamo creduto tutti. Eravamo un gruppo coeso: siamo stati capaci di indicare una strada alternativa”. Non era mai capitato. I 12 imprenditori cittanovesi fecero associazione, andarono tutti in tribunale a denunciare e testimoniare: ottennero le condanne dei loro aguzzini.
In primo grado e in appello. Non fu facile, allora: “Ci sono stati momenti di solitudine
– confessa – Questa nuova situazione creava smarrimento, per noi e per gli altri”. Resistettero, anche grazie alla “grossa mano avuta dalle forze dell’ordine, dal pm Francesco Neri, del commissario Pino Cannizzaro e, negli anni a seguire, da Tano Grasso”. Fu la scelta giusta, come spiegarono anche su giornali e tv nazionali: “Rappresentavamo l’esempio di come dovrebbe funzionare un’associazione antiracket”, insiste Maria Concetta. E poi: “Dopo le denunce mai nessuno di noi ebbe più problemi”. Poi a cascata, la reazione. E anche oggi l’Acipac gode di buona salute, raggruppa una ottantina di imprenditori non disposti a piegarsi al racket. Ha raccontato Rocco Raso, commerciante di prodotti in edilizia e primo presidente dell’associazione: “Possiamo dire di non conoscere il racket. Ci abbiamo guadagnato tutti, le nostre attività sono cresciute e non c’è stata nessuna forma di ritorsione. Né da parte della gente né da parte della malavita”. Una grande lezione di civiltà veniva da questo pezzo di Calabria, proprio mentre in Sicilia, a Capo d’Orlando nasceva l’esperienza di Libero Grassi e il suo insegnamento: “Pagare il pizzo significa dare forza ai mafiosi, non faccio accordi con i criminali per salvaguardare la mia attività”.
(Tratto da "Il sangue dei giusti", di Claudio Careri, Danilo Chirico, Alessio Magro