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Strage di Razzà: una storia di assenze, misteri e dolore

Undici piatti fondi, sei coltelli, dodici forchette e tovaglioli ricamati. Quasi svuotato, in un angolo, il bidone da 5 litri del vino. Avevano già messo mano al thermos del caffè quando fuori dalla vecchia casa colonica (nella foto) in mezzo agli aranceti era comparso, non invitato, il carabiniere: "Venite fuori con le mani alzate!". Quello che avvenne dopo, nelle campagne di Taurianova, in contrada Razzà, alle 14.00 di venerdì 1 aprile 1977, l’informativa degli investigatori lo fotografa con linguaggio asettico: "Nell’immediatezza del fatto, alle ore 15.45, il procuratore della Repubblica di Palmi ispezionò la località, rinvenendo nella radura antistante la casupola diroccata quattro morti". Due con la divisa da carabiniere, strappata in più punti, macchiata di sangue. Gli altri con il cognome Avignone, la cosca di Taurianova. L’appuntato Stefano Condello e il carabiniere Vincenzo Caruso vengono seppelliti con tricolore sulla bara, picchetto d’onore e funerali solenni. Sul petto di genitori e mogli arriva, a stretto giro, anche una medaglia d’oro al valor militare. "Non sono morti invano", garantisce il comandante generale dell’Arma. Una commossa solerzia che non entrerà mai in tribunale. Tra le parti civili costituite nel processo ai responsabili della strage di Razzà, infatti, fa notare con amarezza lo stesso presidente della Corte d’Assise di Palmi, Saverio Mannino, "non figura lo Stato, malgrado il danno anche economico provocatogli dall’uccisione di due dei suoi uomini migliori". Non è la sola assenza in quel processo. Non è la sola ombra di questa storiaccia. Undici piatti fondi, undici convitati. Il pranzo interrotto da Condello e Caruso, insospettiti dalla strana presenza di auto davanti alla casupola, è un summit. E non vi prendono parte solo latitanti e pregiudicati. Ci sono insospettabili, pezzi delle istituzioni, addirittura uomini che nel cassetto hanno una fascia tricolore, come il sindaco di Canolo, D’Agostino. Gente importante di cui bisogna coprire la fuga, anche a costo della vita. "La ‘ndrangheta è cambiata", fanno notare nelle loro analisi i corrispondenti dei quotidiani nazionali. Ora maneggia appalti, subappalti, connivenze istituzionali, affari fuori dai confini regionali (uno degli Avignone è catturato a Roma). Ma neppure gli "insospettabili" entreranno mai in tribunale. Insomma, assente lo Stato, invisibili i complici istituzionali, in carne, ossa e dolore, a portarsi il peso della strage e dei misteri di Razzà, restano solo i familiari. E qualcuno, sotto quel peso, ci finirà schiacciato. "Vittima della mafia e dello Stato. Ho chiesto aiuto e nessuno me l’ha dato. Non posso più sopportare il male che mi ha fatto questo mondo", lascia scritto Rosaria, prima di uccidersi nel 2005. E’ la sorella di Vincenzo Caruso i cui familiari – il padre Mariano, di 92 anni, la madre, Maria Buccheri, di 85, e la nipote, Lorena Lupo, di 33 anni, figlia di Rosaria – oggi chiedono allo Stato un risarcimento postumo, attraverso il fondo di rotazione, che riconosca al carabiniere il titolo di "vittima dei reati di tipo mafioso". Trentasette anni dopo.