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Calabria, i “pretacci” di frontiera odiati dalle cosche

Dove c’è una frontiera c’è sempre un avamposto. È un luogo di resistenza e ripartenza. L’avamposto non è mai statico, cambia in meglio o in peggio la storia degli uomini. La Calabria non è frontiera, i suoi paesi e le sue città non sono frontiera. Le sue persone, a volte, sì. Lo sono quando giurano fedeltà a un’organizzazione mafiosa, lo diventano quando si girano dall’altra parte. Sono frontiere della violenza e della libertà negata. In Calabria anche le persone diventano avamposti quando, giorno dopo giorno, con il loro essere cercano di strappare la libertà a chi l’ha rubata per restituirla alle persone. In “senza targa” li abbiamo chiamati apostoli di buonavita, ne abbiamo raccontati dodici. Tre di loro sono sacerdoti, la ‘ndrangheta li ha eletti come propri nemici. Sono don Pino Demasi, referente di Libera nella Piana di Gioia Tauro, parroco nel Duomo di Polistena e punto di riferimento della resistenza antimafia, don Giacomo Panizza, che ha voluto emigrare al contrario per fondare la comunità Progetto Sud a Lamezia Terme, don Ennio Stamile, parroco della parrocchia di San Benedetto a Cetraro, un prete che proprio non sa stare zitto.

Don Pino Demasi si racconta così in “senza targa”: «Mi porto dietro due icone. Mio padre che prende la valigia con lo spago per emigrare e la situazione economica e sociale della mia cittadina d’origine, con una faida che ha lasciato morti per le strade. Immagini che mi hanno spinto a fare sì il prete, ma in una logica diversa». Una logica diversa e semplice: il Vangelo è incompatibile con la mafia, il percorso di un sacerdote non si può scindere dall’impegno antimafia. Impegno che ha tante facce. Quella della cooperativa Valle del Marro, che lavora nei terreni confiscati ai clan e che per questo subisce attentati e intimidazioni continue. Quella dei giovani che vogliono affrancarsi dalle famiglie d’origine e che in don Pino trovano una fune alla quale aggrapparsi. Quella della Nazionale di Calcio, arrivata a Rizziconi, ad allenarsi in un campetto costruito su un terreno confiscato alle cosche che nessuno aveva avuto il coraggio di utilizzare. Nato a Cittanova il 27 settembre 1951, i suoi inizi come sacerdote coincidono con la fase di attuazione del “pacchetto Colombo”, la chimera di migliaia e migliaia di posti di lavoro, che nella Piana di Gioia Tauro significherà la scarnificazione di un’area ricca di uliveti e agrumeti per far posto al nulla. Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta si fa impresa con la gestione del movimento terra, sono gli anni in cui don Pino vede, a Polistena, cento giovani portare 200 corone di fiori ai funerali dei boss. Boss che, negli anni successivi, per la forte presa di posizione del sacerdote, non potranno più avere un funerale in Chiesa. Almeno da queste parti.

Don Giacomo Panizza a Lamezia Terme è il “noi”. Un noi rappresentato dalla comunità Progetto Sud, dalla comunità “Pensieri e parole”, che ha sede in un immobile confiscato al potente clan Torcasio, da un universo di associazioni, comunità, cooperative che ruotano attorno al nucleo originario. I disabili che si autogestiscono e producono ciò che serve al loro sostentamento, i tossicodipendenti, gli emarginati, i malati di Aids, gli immigrati, gli omosessuali discriminati: è questa la famiglia di don Giacomo. Un sacerdote che è un’ossessione per la ‘ndrangheta, soprattutto da quando ha deciso di sfidare i clan prendendosi le loro case. Un mafioso lo aveva minacciato di morte, davanti alla polizia: il caso ha voluto che quello stesso uomo, appena uscito dal carcere, fosse assassinato prima di poter mantenere la sua promessa. Ma le pressioni non si sono mai fermate. Dal 2002 vive con un programma di protezione e, da allora, la comunità è sotto tiro con continui attentati e intimidazioni. Don Panizza è diventato un caso nazionale dopo essere finito nel 2010 da Fazio e Saviano a “Vieni via con me”. Molti gli hanno chiesto: “Fai da simbolo, fai da traino”. Ma lui è un tipo pratico. È uomo di pensiero, innamorato dell’azione. Nato il 4 febbraio 1947 a Pontoglio, in provincia di Brescia, dopo la quinta elementare è andato in fabbrica. Da seminarista frequentava il bar “Ai Miracoli”. «Da lì vedevo di tutto: studenti, barboni, prostitute», racconta. Ma dopo la strage di Piazza della Loggia il bar è messo sotto sopra per il sospetto di collegamenti con le frange anarchiche. Non tira un’aria buona e Giacomo Panizza, non ancora sacerdote, va via da Brescia e finisce nelle Marche, dove incontra il mondo dell’handicap nella comunità di Capodarco. Un’esperienza che sarà esportata a Lamezia, in quest’emigrazione al contrario che si nutre, ogni giorno, di giustizia, uguaglianza e, come lui raccomanda, della capacità di “fare bene il bene”.

Don Ennio Stamile è un sacerdote simbolo in un paese simbolo, Cetraro. Una perla del mare Tirreno, nel Cosentino, che tra la fine degli Anni ’70 e la fine degli ’80 è stata teatro di numerosi omicidi, di una cruenta faida. Una perla il cui nome è stato abbinato alle navi dei veleni e a un martire della legalità, Giannino Losardo. Don Ennio è il prete. Don Ennio è l’amico, è il compagno di mangiate, è il punto di riferimento della comunità quando si devono affrontare gli argomenti più importanti. Nato il 15 novembre 1964 a San Giacomo di Cerzeto, in provincia di Cosenza, è il parroco di San Benedetto. Dal 2006 al 2011 è stato il delegato regionale della Caritas calabrese. Autore di numerose pubblicazioni, scrive sulla stampa locale.
Nella notte tra venerdì 27 e sabato 28 gennaio 2012 qualcuno si è introdotto nella casa canonica in cui abita, lasciando sul cancello del cortile una testa di maiale mozzata con un lembo di stoffa in bocca, per simboleggiare un macabro bavaglio. La domenica precedente la sua autovettura era stata sfregiata con oggetti appuntiti. Don Ennio si era molto esposto nelle proprie omelie, parlando di legge della giungla a Cetraro: maltrattamenti e rapine agli anziani, tangenti agli autisti dei pullman che portano le badanti, furti nelle case, psicolabili massacrati di botte. La reazione è stata eclatante e quello che gli ha messo la testa di maiale si è presentato qualche giorno dopo in confessionale. «Mi perdoni?». «Sì». «Mi confessi?». «No». «Sono buono, non sono fesso. Vorresti dirmi delle cose, in confessionale, che non potrei ripetere all’autorità giudiziaria. Ma io sono sottoposto alle leggi dello Stato italiano, oltre che alle leggi di Dio. Vatti a confessare da un altro sacerdote». È buono ma non è fesso, don Ennio. E non riesce a stare zitto quando si ritrova una famiglia mafiosa in Chiesa: quelle sì che sono omelie che tutti dovrebbero sentire.