‘Ndrangheta in Lombardia, Mario Portanova: l’inchiesta Crimine è uno spartiacque
MILANO – Prima dimenticanze e sottovalutazioni. Ora tentativi di minimizzare. Vent’anni di ‘ndrangheta in Lombardia analizzati da Mario Portanova (nella foto), giornalista de Il Fatto Quotidiano e autore assieme a Franco Stefanoni e Giampiero Rossi del libro-inchiesta "Mafia a Milano. Sessant’anni di affari e delitti", uscito in prima edizione nel 1996 e in edizione aggiornata nel 2011.
Quando e come ha cominciato a raccontare le infiltrazioni della criminalità organizzata al Nord e quali sono state, inizialmente, le maggiori difficoltà?
"All’epoca era un argomento pionieristico. Tutto comincia con Società Civile, la rivista diretta da Nando dalla Chiesa. Nel ’90 scoppia l’inchiesta Duomo connection di Ilda Boccassini che coinvolgeva anche il Comune di Milano. Procedendo a ritroso abbiamo ritrovato le operazioni contro la mafia dei colletti bianchi in cui era coinvolto anche Mangano. Poi i casi caldi come quello di Sindona. In realtà la mafia c’era dagli anni ’50, poi nel ’92 – ’93 ci sono state le grosse operazioni in Lombardia con l’arresto di centinaia di ‘ndranghetisti: lì si è svelata la presenza. La cosa curiosa è che poi si sia riuscito a dimenticarlo".
– La prima edizione di "Mafia a Milano. Quarant’anni di affari e delitti" è uscita nel 1996, la seconda nel 2011. Cosa è cambiato in quasi vent’anni?
"C’è stato un decennio di inabissamento tra il ’95 e il 2005, mentre erano in galera i vecchi padrini di Cosa nostra e ‘Ndrangheta e non si capiva cosa stessero facendo i successori. Poi dal 2007 a Milano è cominciata una nuova stagione di indagini che ha raccontato il grande dominio della ‘ndrangheta. I vecchi boss degli anni ’90 venivano processati per traffici di droga, omicidi, insomma i crimini "classici". I loro figli invece per crimini economici, per aver conquistato il monopolio di interi settori. La gestione dei locali notturni, dei ristoranti, dei bar non necessita di grande preparazione professionale, hanno tecnici che lavorano per loro e usano sempre la pistola quando serve. Al Nord c’è stato un cambiamento nel modo di fare affari, gli ‘ndranghetisti hanno capito che se trafficavi in droga prima o poi ti prendevano e non ne uscivi più, invece se entri con le tue aziende nella zona grigia dell’economia è più facile, anche se poi le inchieste e gli arresti arrivano comunque".
– Le prime inchieste sul traffico di rifiuti tossici prodotti dalle industrie del nord e smaltiti tramite il lavoro delle mafie, risalgono già agli anni ’90. Questo settore di affari può essere ritenuto uno dei primi legami malsani che le mafie hanno creato tra nord e sud?
"Questo legame c’è sempre stato anche su altri fronti, non dimentichiamo che Sindona alla fine degli anni ’60 era un personaggio del salotto buono della società milanese. Questo genere di cose conferma che la Lombardia non ha nessun anticorpo particolare per tenere a distanza questi personaggi, anzi, quando portano soldi o consentono di risparmiarne, come nel caso del traffico di rifiuti, vengono accolti a braccia aperte. Oggi le nuove inchieste dimostrano che le discariche abusive vengono fatte anche in Lombardia: ne hanno scoperta una a Desio, nei cantieri dei nuovi quartieri in costruzione a Milano. Mentre prima l’imprenditore del Nord mandava i suoi rifiuti al Sud, adesso il mafioso glieli sotterra direttamente in Brianza, abbassando i costi. Questo però fa capire che è cambiato il contesto dell’illegalità perché c’è bisogno di tante persone che chiudono gli occhi, di imprenditori che ti mettono a disposizione cantieri e cave".
Partendo dal presupposto che tangenti e corruzione sono sempre stati un elemento comune e diffuso in tutta italia, perché le istituzioni del Nord si lasciano infiltrare così facilmente?
"Vedo una stretta parentela tra Tangentopoli e Mafiopoli perché la prima, negli anni ’90, ha svelato una classe politica totalmente permeabile e pronta a vendersi per soldi, consenso e carriera. Già allora c’erano assessori socialisti che dicevano di essere la migliore garanzia contro la mafia per la loro onestà e poi sono finiti incriminati. Allo stesso modo c’è sempre stato, forse in tono minore, questo interesse delle mafie per la politica. Quello che è cambiato è che forse la classe politica è addirittura peggiorata: prima avevi a che fare con partiti che si lasciavano infettare, adesso si ha a che fare con singoli "imprenditori della politica", gente che passa da un partito all’altro e che è meno controllabile. Inoltre, se fai il grande trafficante di droga il rapporto col politico ti serve fino ad un certo punto, ma se fai l’imprenditore edile, hai bisogno di una cava, di una lottizzazione, di licenze commerciali, allora sì che il rapporto con la politica diventa fondamentale. L’assalto della ndrangheta alla politica va di pari passo all’espansione nell’imprenditoria, tanto è vero che questi rapporti si cercano non tanto col parlamentare ma con l’assessore, con il consigliere del piccolo Comune che può essere determinante per una variante del Piano regolatore. Anche questo è successo in enorme silenzio, chi denunciava veniva messo a tacere. Ancora adesso si fa fatica a fare una Commissione comunale antimafia perché il Pdl non vuole che i tanti casi di suoi esponenti finiti nelle indagini vengano discussi in Consiglio comunale".
Un’analisi sul "dopo-Infinito". L’inchiesta e la successiva ordinanza hanno davvero spazzato via le resistenze "culturali" nel parlare di ‘ndrangheta al Nord? I milanesi sono più consapevoli di prima?
"L’operazione Crimine-Infinito ha rappresentato indubbiamente uno spartiacque. La Moratti diceva che qui non c’era mafia, ma criminalità. Adesso, dopo una sentenza così dettagliata, non può più esistere il negazionismo totale. Esistono però altre forme di luoghi comuni per minimizzare il fenomeno. Uno è quello della Lega: qui ci sono tanti calabresi e siciliani anche a causa del soggiorno obbligato, che però è una cosa di trent’anni fa, ha avuto il suo ruolo storico ma bisogna andare oltre. È vero che l’ossatura è prevalentemente composta da persone del Sud, ma tutti loro hanno un rapporto con professionisti del Nord che con i mafiosi meridionali ci fanno affari perché gli portano soldi, anzi tra loro c’è un rapporto che va oltre al profitto: una sorta di adesione allo stile di vita, al potere e al rispetto che sembra quasi ammirazione. Un altro luogo comune è che al Nord ci sono solo colletti bianchi che riciclano soldi: invece c’è mafia a tutti gli effetti con minacce, estorsioni, omicidi e violenze. Si è arrivati alla consapevolezza che la mafia c’è, ma si minimizza dicendo che la Lombardia ha gli anticorpi per contrastarla. La storia dice che gli anticorpi forse ci sono, ma da soli non si mettono in funzione: il corpo umano li produce quando si rende conto di essere malato".
Fino agli anni ’90 la ‘ndrangheta veniva associata ai sequestri di persona e la stessa parola ‘ndrangheta era poco diffusa persino in Calabria. Oggi le mafie fanno pienamente parte dell’opinione pubblica nazionale. Credi che la società civile del Nord, dotata di solito di una più diffusa cultura civile e politica, possa dimostrarsi più forte e coesa di quella del Sud nella lotta alle mafie?
"Da qualche anno c’è un fiorire di associazioni, reti di studenti, organizzazioni come le nuove articolazioni di Libera. Mi sono ritrovato in un corteo antimafia a Busto Arsizio, in provincia di Varese. A marzo è uscito il libro e abbiamo avuto una cinquantina di presentazioni, tutte richieste da associazioni della Lombardia e ogni volta le sale sono piene, non tanto perché il libro sia bello, ma perché la gente ha voglia di capire questo nuovo problema, perché sa che la toccherà da vicino. Ma in questo caso il Nord non è più avanti del Sud. Confindustria Milano non ha niente da insegnare a Ivan lo Bello. Si muovono i ragazzi, gli studenti, i giornalisti, i magistrati, invece sono molto più caute le organizzazioni imprenditoriali. Lo studente lo fa per idealismo perché vuole cambiare la società, ma dovrebbero svegliarsi ancora prima i commercianti e gli imprenditori. Mi è capitato di intervistare un’ex sindaca di un piccolo comune vicino Varese che aveva subito minacce esplicite da parte della locale cosca di ‘ndrangheta. Mi concesse l’intervista, ma non voleva che facessi il suo nome perché diceva «sa com’è, se ti ribelli alla mafia al Sud hai un movimento dietro che ti sostiene, ma se ti ribelli al Nord chi hai dietro?». Questo avveniva qualche anno fa, magari adesso la penserebbe diversamente, ma questo fa capire che in tema di antimafia il Nord ha ancora tutto da imparare. Ci sono ancora forti resistenze a sviluppare un movimento perché la consapevolezza è troppo fresca, si è pensato per decenni che il problema non ci toccasse, poi ci si ritrova di fronte a cento arresti e condanne e ci vuole tempo per maturare la consapevolezza che "bisogna fare qualcosa" anche assieme a realtà che ci sono da anni come Libera. Negli anni ’80 gli studenti milanesi manifestavano per Falcone e Borsellino, oggi si ritrovano il problema in casa, c’è uno scambio proficuo tra Nord e Sud".