Rc-Archi, 20 anni dopo: più nero che bianco
Camminare per la città di Reggio Calabria è come attraversare un’anomalia complessa cresciuta senza criterio dentro se stessa. Caotica e confusa. L’aria da città moderna è una macchietta che spezza il sorriso appena varcate le porte della periferia. L’impressione è quella di una rassegnata consapevolezza apertamente svelata dei propri mali; un’accettazione che fa spallucce nonostante la cappa pesante che oggi, come ieri, grava sulla città impedendo una primavera della quale, qui, si avverte solo un tenue profumo smorzato e lontano. Non c’è storia che tenga. Né marcia che lasci il segno. Ed è proprio di una marcia emblematica che vogliono ricordare le tappe queste foto: la mitica Reggio-Archi, come ormai la ricordano tutti. Tanti chilomentri che moltissima gente volle mettere tra sé e la ‘ndrangheta che in quegli anni mostrava spavalda i suoi muscoli. Ciò che resta oggi di quella esperienza così significativa, però, è l’indifferenza della gente che arranca nel suo quotidiano e si accontenta di alimentare il proprio microcosmo e sopravvivere facendo finta che gli squarci non esistano. E nemmeno la memoria. Non è un azzardo dire che Reggio è più periferia che centro, più degrado che metropoli. Più nero che bianco. La città è un budello accartocciato in se stesso, su se stesso e al di sopra di se stesso senza logica né raziocinio che queste foto attraversano simbolicamente partendo dalle officine Omeca (oggi Ansaldo Breda) e fiancheggiando lo stadio che al tempo della marcia era poco più di un campo di calcio di periferia (galleria fotografica). Oggi no, la squadra cittadina è cresciuta in merito e con essa anche lo stadio che racchiude in sé il cuore sportivo della città (foto 1). Proprio davanti allo slargo c’è un viale alberato che pare abbracciarti (foto 2) e che sbuca sul ponte del Calopinace (foto 3 e 6). Gli alberi che si chiudono tra loro contro il cielo formando una galleria naturale sembrano il preludio ad una favola. Ma sono favole arcigne, quelle di Reggio, che defluiscono sbattendo contro gli argini dei torrenti. Argini come quelli del torrente Calopinace (foto 4) che attraversa come una devastante vena aperta la città, partendo dal seno selvaggio dell’Aspromonte. Un tempo era il fiume alla cui foce approdarono i coloni greci che nell’VIII secolo fondarono la Reghium. Oggi è una discarica abusiva, che le favole non sempre finiscono bene. Qui, in questo spezzone di periferia a ridosso del centro, non resta traccia della marcia, non resta traccia della sua carica simbolica in una "metropoli" che lotta per sopravvivere a se stessa e che incespica sui suoi stessi passi. Superato il ponte col torrente che gli langue sotto e le sue immondizie ci si trova nel salotto buono, subito dopo Piazza Garibaldi e la Stazione centrale, ormai ricettacolo di quegli ultimi che della terra spazzolano solo briciole rafferme. Il corso (foto 8) è la passerella della città che si pavoneggia e si lustra gli occhi nello struscio che dal Duomo (foto 6 e 7) si spinge fino a Piazza De Nava, verso la zona nord. Il caleidoscopio dei lustrini, però, non va oltre il centro più stretto; perde il suoi colori sulla soglia della nuova periferia. Neanche il tempo di rifarsi gli occhi con le vetrine sbrilluccicanti che il panorama ritorna grigio, anonimo e infido. È il potere delle illusioni. Archi (foto 10) è un altro pianeta, un microcosmo che un tempo faceva comune a sé, prima del decreto Grande Reggio del 1927 che accorpava tutte le parti appendicolari a ridosso della città. Questo piccolo viaggio virtuale finisce lì dove approdò la marcia, nel quartiere più recente di Archi, il Cep (foto 9), un grosso complesso di edilizia popolare che negli anni della seconda guerra di ‘ndrangheta vide mutare il suo acronimo in Centro Esercitazione Pistoleri. Come dare torto. Da allora non è cambiato nulla, Reggio ha moltiplicato i suoi problemi ed i suoi morti ammazzati e lascia a noi che la viviamo attoniti il senso frustrante di una città contenta di vivere con un cappio al collo.