Nicodemo Panetta e Nicodemo Raschellà: così muore chi osa parlare
GROTTERIA – Aveva osato accusare e lo chiamavano cadavere ambulante: sfidare le cosche, o più semplicemente difendersi dalla ‘ndrangheta facendo nome e cognome di chi ti tartassa, da queste parti significa sottoscrivere la propria condanna a morte. Nicodemo Panetta, 37 anni, piccolo imprenditore edile di Grotteria, un paesino della locride, lo sapeva e viveva nell’incubo, viaggiando su un’auto blindata (la sua bara da vivo, diceva) e facendosi vedere poco in luoghi esposti. Dei soprusi non ne poteva più. Anni fa gli avevano fatto saltare i mezzi della propria impresa, lo avevano sfiancato con richieste di denaro, gli avevano sparato mentre in auto viaggiava con la moglie e la figlioletta Daniela, allora di pochi anni. E si era stufato. Era andato dai carabinieri, aveva raccontato per filo e per segno quel che gli stava accadendo, aveva spedito in galera una cinquantina di mafiosi cancellando così, di colpo, la ‘ndrangheta della vallata del Torbido guidata dalla famiglia Ursini. Ma in quello stesso momento venne pronunciata la sentenza mafiosa nei suoi confronti, eseguita a distanza di anni. Trenta colpi di mitra, forse sparati con un mab di quelli in dotazione alla polizia di Stato, hanno falciato l’imprenditore e un suo inseparabile amico, Nicodemo Raschillà, 41 anni, di Mammola, altro centro caldo della locride. I carabinieri sul luogo del delitto hanno ritrovato i bossoli di un intero caricatore. Ma non abbiamo trovato purtroppo nemmeno un testimone, afferma il capitano Francesco Bonfiglio, comandante della compagnia dei carabinieri di Roccella Jonica. Eppure, in contrada Dragoni di Grotteria, teatro della spietata esecuzione, secondo gli inquirenti ci dovevano essere diverse persone che lunedì sera, sospettano i carabinieri, avrebbero assistito al duplice delitto. Una ricostruzione dei fatti, presente il sostituto procuratore di turno Anna Milelli, è stata comunque possibile. Nicodemo Panetta, poco prima delle 17 s’incontra con Nicodemo Raschillà, arrivato a bordo di una grossa moto, in contrada Dragoni, in un locale che serve come punto d’incontro per gli abitanti della contrada. I due amici se ne vanno con la Thema blindata del Panetta. Un giro di un’ora e mezza prima di rientrare al punto di partenza dove li attendeva il killer. Chi hanno incontrato in quell’arco di tempo? Dove sono andati? Fatto è che appena tornati in contrada Dragoni, i due sono falciati da una sventagliata di mitra, crivellati di colpi da distanza ravvicinata. Lo sapeva, lo sapeva che sarebbe finita così, avrebbe confidato piangendo la moglie di Panetta, Maria Barbieri. Il suo destino era segnato, ancor prima forse di quel drammatico 22 novembre 1986 quando i sicari delle cosche tentarono di farlo fuori. La sua piccola impresa, otto-dieci dipendenti che lavorano di solito per conto di enti pubblici, non era in grado di sopportare la sanguisuga mafiosa. Così Panetta decise di collaborare con la giustizia. Ai carabinieri diede nomi, fatti, prove che inchiodarono le cosche di Grotteria, Gioiosa e Martone: al processo confermò molto, ma fu evasivo su altro, forse tentando così di salvarsi dall’ ira della ‘ndrangheta. Oggi di quegli imputati molti sono fuori dal carcere. L’attenzione degli investigatori (l’inchiesta è passata al sostituto procuratore Bruno Muscolo) è indirizzata verso un gruppo di latitanti, tra cui potrebbe trovarsi il sicario.