Giuseppe Marino, vittima del dovere
Vittima del dovere – Giuseppe Marino ha 43 anni, è vigile urbano a Reggio Calabria e la sera del 16 aprile 1993 sta verificando il rispetto dell’ordinanza comunale che vieta il transito e la sosta di automobili e motocicli lungo il Corso Garibaldi, la principale arteria cittadina. Ribadito dal sindaco democristiano Giuseppe Reale, eletto nel 1993 dopo la tangentopoli che aveva travolto la Giunta Licandro, il provvedimento è entrato in vigore da poco, ha prodotto non pochi mugugni e fatica ad essere accettato dagli automobilisti reggini. Sono circa le 20:00 quando Marino ed il suo collega Orazio Palamara, di pattuglia nei pressi della Villa comunale, vengono raggiunti dai colpi esplosi a bruciapelo da una pistola calibro 9×21, un’arma da guerra che non lascia scampo al primo, morto sul colpo mentre sta salendo in macchina, e solo per un incrocio di casualità risparmia la vita al secondo. Pur senza escludere alcuna pista, gli inquirenti restringono quasi subito il campo delle indagini all’ambiente di lavoro, e nello specifico si concentrano sui bollettari dei due vigili urbani. Sembra plausibile che l’omicidio sia maturato proprio intorno all’attività di Marino in ottemperanza all’ordinanza comunale. Sin da subito, tuttavia, le indagini sbattono contro la difficoltà di ricostruire la dinamica dell’agguato; gli investigatori non riescono ad acquisire testimonianze apprezzabili, nessun testimone diretto che sappia o abbia voglia di fornire informazioni utili nonostante l’omicidio sia avvenuto in un in una zona centralissima della città ed in un orario in cui la strada è ancora molto affollata. Un’incertezza che si rispecchia nelle varie ricostruzioni giornalistiche dell’accaduto: i principali quotidiani locali e nazionali non riescono, infatti, a fornire una versione univoca dei fatti, con lacune che non si riescono a colmare.
Le ricostruzioni – Una primissima ricostruzione tentata da Filippo Veltri sulle colonne di Repubblica riconduce l’omicidio al gesto di un folle, indispettito da una multa elevata ai suoi danni dai due vigili. Secondo questa versione, il killer avrebbe sparato appostandosi dietro la Fiat Ritmo in dotazione alla polizia municipale con lo scopo di uccidere entrambi ma il corpo di Marino, cadendo attinto dai proiettili, avrebbe fatto da scudo a Palamara salvandogli, di fatto, la vita. Qualche dettaglio in più a corredo di questa ricostruzione viene da Diego Minuti, il quale su La Stampa specifica che il killer avrebbe sparato 15 colpi all’impazzata, mentre Marino e Palamara fanno rimuovere dal carro attrezzi la sua auto in sosta vietata. Nessuna ricostruzione, fino ad ora, cita i nomi di eventuali indiziati, né dipinge la vicenda come un agguato a possibile matrice ‘ndranghetista. Sulle pagine del Corriere della Sera, qualche giorno dopo, si inizia a leggere una versione diversa: Marino sarebbe stato ucciso per vendetta dopo aver multato un piccolo boss della ‘ndrangheta. È proprio in questa versione che emergono per la prima volta due particolari importanti: che l’omicidio possa essere ricondotto in un’ottica ‘ndranghetista e che i presunti killer possano avere un nome. I fratelli Antonio e Bartolo Votano, ritenuti affiliati alla cosca dei Libri, sono indiziati di "omicidio, tentato omicidio e detenzione abusiva di pistola", secondo una nota della Procura. All’origine, per gli inquirenti, ci sarebbe sempre una contravvenzione elevata un anno prima ad Antonino Votano, il maggiore dei fratelli. In quel frangente Votano sarebbe stato denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale ed il processo, svoltosi l’8 marzo 1993, un mese prima dell’omicidio, lo ha condannato a due anni e mezzo di detenzione dopo la testimonianza cruciale di Marino. Secondo i magistrati, quindi, l’agguato sarebbe maturato come vendetta eseguita da Bartolo Votano che la sera del 16 aprile, appostato dietro una cabina telefonica nei pressi della Villa Comunale, avrebbe aperto il fuoco contro Marino ed il suo collega. L’accusa però non regge al vaglio del tribunale: entrambi i fratelli Votano vengono assolti in via definitiva per non aver commesso il fatto, mentre ad autoaccusarsi dell’omicidio sarà il pentito Giuseppe Calabrò, condannato come esecutore materiale. Ancora oscuro il movente e senza nome i mandanti.
La famiglia, la città e le istituzioni – Quell’aprile del 1993 la città non sembra quasi accorgersi dell’accaduto. A parte qualche sparuto mazzo di fiori poggiato sul luogo dell’agguato, il resto è silenzio. La giunta Reale, dal canto suo, prova a scuotere l’intorpidita indifferenza della comunità reggina affiggendo un manifesto pubblico per invitare "tutta la popolazione a partecipare ai funerali di Marino come atto di ribellione contro la violenza e come affermazione corale della città a volere cambiare". Ma dopo i funerali ufficiali – chiusa in uno stretto riserbo la famiglia avrebbe preferito una celebrazione più intima e raccolta ad Arangea, dove Marino viveva con la moglie Paola e le due figlie Lavinia e Maria – è l’oblio. Oggi Reggio prova a riprendersi un pezzetto di quella storia, facendone memoria viva, chiedendo che a Giuseppe Marino ed al collega Giuseppe Macheda – un’altra vittima del dovere – venga intitolata la caserma dei vigili urbani della città.