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Il senso della divisa: il brigadiere Marino

Bovalino Superiore fa festa. Tutto il paese è in piazza per la Madonna Immacolata, la chiesa è addobbata, le luci per le strade rendono l’atmosefra speciale. Ma c’è qualcuno che ha un altro motivo per festeggiare. Lui si chiama Nino e ha trentatré anni e lei Vittoria e ne deve compiere trenta. Sono sposati da due anni. Hanno appena saputo che aspettano un bambino. Farà compagnia al loro primo figlio, Francesco, che ha appena un anno e mezzo. Quella sera dell’8 settembre 1990 sono in strada tutti e tre, Nino, Vittoria e Francesco. Chiacchierano con gli amici proprio davanti alla trattoria del padre di Vittoria. C’è confusione, l’allegria tiptica delle feste patronali di un paese meridionale. Nino è arrivato a Bovalino, il paese di Vittoria, da appena ventiquattr’ore. Lui, figlio di artigiani, è origianrio di san Lorenzo e da qualche tempo vive e lavora a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. Ha preso un paio di giorni di ferie: alla festa della Madonna non ci vuole proprio rinunciare. E poi ha appena ritirato le analisi di Vittoria. Non le ha ancora aperte, le vuole leggere assieme a sua moglie. Scoprono insieme che Vittoria aspetta un figlio da tre mesi. Un’emozione che non si può descrivere. Nino è un brigadiee dei carabinieri. Uno di quelli che macinano chilometri e controlli, che scrivono pagine e pagine di informative piene zeppe di di notizie, uno di quelli che la ‘ndrangheta proprio non li può vedere. Ma la sera della festa, di boss e picciotti, traffici e sequestri di persona non vuole sentire parlare. E’ a Bovalino per fare festa con la sua famiglia. Sono lì, uno di fianco all’altro, Nino, Vittoria e Francesco. In mezzo alla gente. A divertirsi. E’ passata da poco la mezzanotte quando all’improvviso un uomo con il volto scoperto si nasconde tra la folla e spara. Otto colpi di una pistola con caricatore doppio. E’ un professionista e mantiene il sangue freddo. Scatena il panico. La gente corre a ripararsi e nascondersi. Ci sono centinaia di persone che corrono. Tutti capiscono presto che l’obiettivo era la famiglia di Nino. Sono tutti a terra, uno accanto all’altro, Nino, Vittoria e Francesco. Sotto gli occhi increduli di mezzo paese. Il silenzio è spettrale, l’aria rarefatta. Il giovane carabiniere è stato colpito all’addome, al torace e alla spalla, Vittoria ha una frattura di tibia e perone, il piccolo Francesco è stato colpito di striscio al ginocchio.
Vengono portati in ospedale a Locri. Nino viene subito operato, i medici tentano di bloccare l’emorragia. Sei ore di intervento sembrano salvargli la vita e nelle prime ore del mattino i medici sono prudenti ma ottimisti. Tutti tirano un cauto sospiro di sollievo. Poco dopo le tredici, la situazione precipia e il brigadiere dei carabinieri Antonio Marino viene dichiarato morto. Danno venticinque giorni di prognosi a sua moglie, Rosa Vittoria Dama, che nonostante il dolore, la paura e la ferita tiene dentro di sé il bambino. Se la cava con dieci punti e viene subito dimesso il piccolo Francesco.
Dalla notte iniziano subito le indagini, partono rastrellamenti, perquisizioni, decine di persone vengono sottoposte all’esame dello stub per vedere se hanno addosso tracce di polvere da sparo. L’attenzione degli inquirenti, guidati dal sostituto procuratore di Locri Ezio Arcadi si concentra subito su Platì. Dal 1983 fino a due anni prima, Nino Marino ha lavorato nel paese dei sequestri e le sue informative sono di quelle dettagliate e pesanti. La cosa deve essere arrivata anche all’orecchio dei boss che – sia sa – hanno entrature dappertutto e che comunque riconoscono subito poliziotti e carabinieri da cui guardarsi. E il lavoro di Marino ha portato i suoi frutti proprio in quei mesi.
Torna subito alla mente l’assassinio del comandante della stazione di San Luca Carmine Tripodi, ma gli investigatori ricordano anche che Marino è stato trasferito da Platì nel 1988, dopo che i militari dell’Arma avevano subito un agguato pesantissimo: una camionetta era stata presa a colpi di lupara per segnare che l’attività investigativa – diretta da Marino – stava dando fastidio. Il trasferimento però non significa che Marino non abbia continuato a dare la caccia ai boss dell’Anonima sequestri, né si può tralasciare San Ferdinando, un paese caldo che sta a metà strada tra Gioia Tauro e Rosarno.
C’è agitazione nella Locride. Nel giro di pochi giorni c’è stato un attentato fallito all’assessore democristiano del comune di Locri Federico Fazzari, mentre il giorno dopo, con il consiglio in seduta, sono state sparate raffiche di mitra contro il municipio. E se ancora non bastasse per capire che in Calabria c’è un allarme in corso, il resto lo fa il vescovo Antonio Ciliberti – da poco minacciato dai clan, che hanno anche preso a caolpi di fucile caricato a pallettoni la porta dell’episcopio di Locri e dato alle fiamme il cinema adibito a centro sociale dei gesuiti. Ciliberti lancia pesanti parole di accusa contro i clan, poi parla della morte di Marino: "Il sangue dei martiri è sangue di speranza e quindi di liberazione del mondo". Nella chiesetta per i funerali c’è anche Vittoria. E’ uscita dall’ospedale ed è arrivata per l’ultimo saluto a suo marito in sedia a rotelle. Gli fa una promessa: il bambino che porta in grembo si chiamerà Nino, proprio come lui. Decide con gli altri familiari di Nino che serve un geste eclatante per protestare contro lo stato di abbandono in cui vive il Sud e che ha portato alla morte del marito. Per questo decide di rispedire al Quirinale la corona di fiori inviata dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Intanto i carabinieri, ancora una volta, sono costretti a piangere una loro vittima e a promettere giustizia e impegno immutato. Lo fanno con il comandante generale Antonio Viesti, che fuori dalla chiesa, in mezzo a una folla di colleghi e amici di Nino, dice a chiare lettere: "Sia ben chiaro, l’Arma non si arrende, non abbassa la guardia. Siamo qui per testimoniare non solo la solidarietà al dolore dei familiari di Marino, ma anche per ribadire che l’impegno dell’Arma non subirà alcun freno per quanto è accaduto". Alla fine dei funerali, i colleghi commossi di Nino portano la bara a spalla per le vie di Bovalino verso il cimitero del paese.
E mentre le indagini vanno a rilento, una strana polemica si abbatte sulla storia di Nino Marino. La portano in Parlamento quattro radicali. Chiedono ai ministri dell’Interno, della Giustizia e della Sanità se sono a conoscenza di come sono andate le ultime ore di vita del brigadiere. Secondo i deputati ci sarebbero stati ritardi tra il ricovero del graduato nell’ospedale di Locri e l’inizio dell’intervento chirurgico. Ciò perché un ufficiale dei carabinieri, presentatosi in ospedale, "dichiarava, pur informato della necessità di provvedere con la massima urgenza all’operazione, che intendeva trasferire altrove il sottoufficiale ferito". Di fronte all’insistenza dei medici, tra cui il primario Pasquale Tavernese, "l’ufficiale", si legge nell’interrogazione, "presentava ai sanitari il dottor Galasso. primario del reparto chirurgia d’urgenza dell’ospedale di Siderno, sostenendo che il prefetto di Reggio calabria lo aveva designato per fare l’operazione". Tavernese e il suo staff "facevano presente l’evidente illegittimità di tale imposizione", ma di fronte all’urgenza finivano per accettarla. Per i parlamentari, tali fatti avrebbero ritardato l’intervento di un’ora e un quarto.
Oscar Luigi Scalfaro nel 1993 concede la medaglia d’oro al valor civile al brigadiere Marino. È l’unica onorificenza che lo Stato ha riconosciuto a Vittoria, Francesco e Nino. Nello stesso anno, Vittoria – che vive ancora in Calabria – ha ricevuto la visita del nuovo comandante generale dei carabinieri, il generale Luigi Federici. La svolta nelle indagini avviene solo dopo molti anni. E avviene nella lontana Modena. Il 23 ottobre 2006, la DIA arresta Giuseppe Barbaro, di cinquantotto anni, detto «u nigru». È considerato un boss, è considerato il mandante dell’omicidio del brigadiere Nino Marino. L’hanno trovato davanti al centro oncologico insieme alla moglie e alla figlia, dove stava andando da alcune settimane per sottoporsi a delle cure. Con lui, nel processo che si è aperto nel gennaio 2010, sono imputati anche Francesco Barbaro di ottantatré anni, Giuseppe Barbaro di cinquantacinque e Antonio Papalia di cinquantasei. Sono tutti e quattro di Platì. È stato il collaboratore di giustizia Antonio Cuzzola a chiamarli in causa parlando con il pm Mario Andrigo. Addebita al periodo in cui Marino era a Platì le ragioni che hanno portato i boss a decidere la sua morte.