Category — i documenti
Progetto “NEMESIS. Topografia delle mafie” – modello 2
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1799.docx
novembre 9, 2014 Commenti disabilitati su Progetto “NEMESIS. Topografia delle mafie” – modello 2
Progetto “NEMESIS. Topografia delle mafie”: i documenti del bando
E’ stato prorogato al 7 dicembre il termine ultimo per partecipare al bando del progetto NEMESIS, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù nell’ambito del bando "Giovani per la valorizzazione dei beni pubblici", a realizzato dall’Osservatorio sulla ‘ndrangheta e da Stopndrangheta.it. Il bando selezionerà 20 giovani calabresi che, dopo un corso di
formazione, potranno partecipare allo start-up di una cooperativa che
fornirà percorsi didattici interattivi a studenti e visitatori del bene
confiscato Osservatorio sulla ndrangheta, servizi di consulenza nei
confronti di enti affidatari di un bene confiscato e sviluppo di
pacchetti turistici di turismo responsabile sui luoghi simbolo della
storia della ‘ndrangheta e della lotta alla ‘ndrangheta. Il progetto prevede inoltre la mappatura dei beni confiscati in provincia di Reggio Calabria e il potenziamento dell’offerta didattica dell’Osservatorio. La fase iniziale della formazione consisterà in un ciclo di lezioni frontali (100 ore distribuite in tre mensilità), ma il percorso formativo includerà alcune visite ai beni confiscati alle principali cosche della provincia reggina. La fase successiva prevede la partecipazione allo start-up di una cooperativa sociale che avrà lo scopo di elaborare percorsi didattici rivolti agli studenti, servizi di consulenza nei confronti di enti affidatari di un bene confiscato e sviluppo di pacchetti di turismo responsabile sui luoghi simbolo dell’antindrangheta. I 20 selezionati saranno preparati alle future attività della coop – le cui spese di costituzione rientrano nel budget del progetto – che durante lo start-up potrà svolgere esclusivamente attività senza fine di lucro. Possono partecipare al bando i residenti in Calabria, in stato di disoccupazione da almeno 12 mesi, si età massima 30 anni, in possesso di una laurea triennale o specialistica.
SCARICA I DOCUMENTI
novembre 8, 2014 Commenti disabilitati su Progetto “NEMESIS. Topografia delle mafie”: i documenti del bando
Relazione sul sistema di protezione dei testimoni di giustizia
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1796.pdf
ottobre 22, 2014 Commenti disabilitati su Relazione sul sistema di protezione dei testimoni di giustizia
Il senso della divisa: la strage di Razzà
I boss che contano sono tutti lì, dentro un casolare di campagna, nella zona di Razzà, a Taurianova. Stanno arrivando soldi pubblici a palate in provincia di Reggio Calabria e c’è da fare il punto, distribuire appalti e prebende, capire quali imprese far lavorare e quali taglieggiare. C’è da capire come gestire la politica. La ‘ndrangheta si sta trasformando e i boss devono accompagnare il processo che li farà entrare nelle stanze dei bottoni. Ci sono capibastone, faccendieri e politici. Una riunione di quelle importanti, quel 1° aprile 1977, a pochi giorni da Pasqua. A bordo di una gazzella del Nucleo radiomobile della compagnia di Taurianova ci sono tre uomini. C’è l’appuntato Stefano Condello e ci sono i carabinieri Vincenzo Caruso e Pasquale Giacoppo. Stanno percorrendo la statale 101 bis. Lungo la strada, tra gli alberi di un aranceto, notano un pregiudicato. Poi alcune vetture, una vespa. L’occasione è ghiotta. Decidono di andare a vedere che succede. Condello e Caruso, armi in pugno e con passo felpato, si immettono in una stradina di campagna e vanno dritti verso un casolare apparentemente abbandonato dal quale sentono arrivare delle voci. Resta in macchina, a bordo strada, il carabiniere Giacoppo. Caruso e Condello arrivano, ascoltano delle voci, decidono di fare irruzione. Gli uomini a cena sono tutti armati. Quando si accorgono dei carabinieri iniziano a sparare. Il conflitto a fuoco è devastante. I carabinieri uccidono due persone. Sono i pregiudicati di Taurianova Rocco Avignone di quarantasei anni e suo nipote Vincenzo Avignone di ventisette. Le forze in campo però sono impari: dieci, undici contro due. Stefano Condello e Vincenzo Caruso vengono colpiti. E uccisi. Sente gli spari Giacoppo dalla macchina, impugna la pistola di ordinanza e corre verso il casolare. Arriva e l’accoglie una pioggia di fuoco degli ‘ndranghetisti, che nel frattempo hanno preso la mitraglietta dei carabinieri e che coprono la fuga di tutti gli altri partecipanti al summit. Giacoppo si salva, chiama rinforzi. Partono subito i soccorsi e scattano i rilievi e le ricerche. Che portano buoni frutti nel giro di pochissime ore. Già nel cuore della notte scattano i primi arresti. I funerali si celebrano sotto una pioggia battente. Il dolore è forte, alcuni carabinieri non riescono a trattenere le lacrime, il picchetto d’onore attorno alle due bare coperte dal Tricolore e con sopra il berretto da carabiniere è un momento di grande tensione emotiva. Arriva il comandante generale dell’Arma Enrico Mino: «Stefano e Vincenzo non sono morti invano», afferma solennemente. Ricorda il gesto eroico di due sere prima, quando i due carabinieri hanno interrotto un summit della ‘ndrangheta sfidando la sorte e anche il piombo di almeno dieci persone. Prende in mano le indagini il pm di Palmi, Salvo Boemi. Per quaranta giorni mette a soqquadro un intero territorio per dare un nome ai partecipanti al summit, undici come i posti nella tavola imbandita. Il lavoro della polizia giudiziaria e le intercettazioni squarciano il velo sulla strage di Razzà. Il quadro ormai è chiaro. Vengono sospettati dell’omicidio pezzi da novanta della ‘ndrangheta della Piana e non solo: con loro c’è il sindaco comunista di Canolo, Domenico Agostino. Il 18 maggio viene arrestato pure Renato Montagnese, sindaco DC di Rosarno e presidente del consorzio industriale. Nell’inchiesta è coinvolto anche un personaggio apparentemente di secondo piano. Si tratta di Vincenzo Cafari. È considerato vicino ai servizi segreti, coinvolto in molte vicende dell’ultimo trentennio in Calabria. È un uomo dalle mille relazioni pericolose, diventerà anche segretario particolare del senatore della DC Nello Vincelli. Alla fine il pm Salvo Boemi chiede il rinvio a giudizio per ventidue persone. Otto per omicidio e quattordici per falsa testimonianza e favoreggiamento. Parlano alcuni pentiti di ‘ndrangheta. Tra loro anche il re delle evasioni Pino Scriva. E raccontano che a quel summit c’erano mammasantissima e faccendieri. E anche politici. La situazione sembra travolgere l’intero assetto politico-istituzionale e mafioso. Secondo il pentito, a discutere e mangiare ci sono boss del calibro di Giuseppe Piromalli, Saverio Mammoliti e Francesco Albanese, Girolamo e Giuseppe Raso. Soprattutto dicono che a trattare con i capibastone c’è un big della politica calabrese e nazionale: Antonino Murmura. È stato per due volte sindaco di Vibo Valentia, la sua città, è senatore della Democrazia Cristiana dal 1968. Un personaggio di quelli che contano in Calabria e Roma – sarà più volte sottosegretario, in un caso anche agli Interni – che sarà chiamato in causa più volte dal pentito Pino Scriva per i suoi rapporti con le cosche della Piana di Gioia Tauro. Per lui l’accusa della Procura di Palmi è di concorso in omicidio plurimo, associazione per delinquere di stampo mafioso, porto e detenzione abusiva di armi. Il procuratore di Palmi nel dicembre 1983 chiede al Parlamento l’autorizzazione a procedere. Intanto viene presto prosciolto Montagnese. La Corte d’Assise di Palmi presieduta da Saverio Mannino condanna sette persone. È lo stesso pm a ritirare le accuse nei confronti di Murmura. In appello, nel 1984, la Corte conferma appieno l’impianto accusatorio, limando leggermente le pene per tutti gli imputati. È una storiaccia su cui restano molte ombre, quella di Razzà, sospetti mai del tutto chiariti. E se non bastasse, ecco arrivare come un pugno nello stomaco una lettera scritta da Rosaria Caruso, la sorella del carabiniere trucidato. È l’8 agosto del 2005 e Rosaria si toglie la vita: «Vittima della mafia e dello Stato. Ho chiesto aiuto e nessuno me l’ha dato», scrive. «Non posso più sopportare il male che mi ha fatto questo mondo. Chiedo perdono a Dio e ai miei familiari che li amo tanto. Forse da lassù li potrò aiutare. Vi chiedo perdono ma non posso vedervi soffrire.Voglio essere seppellita così come sono vestita. Non voglio fiori, non voglio niente. Prego Dio che mi perdoni e mi faccia vedere mio fratello Enzo e Salvatore». Parole come pietre.
aprile 28, 2014 Commenti disabilitati su Il senso della divisa: la strage di Razzà
Giacomo Ubaldo Lauro – il pentito della Freccia del Sud
• Reggio Calabria 16 maggio 1942. Inizialmente coperto dagli inquirenti con il codice "Alfa". La sua collaborazione, incominciata nel 1992, ha consentito la ricostruzione processuale della prima guerra di mafia (che porta alla nascita della "Santa", la nuova ‘ndrangheta, anno 1976) e della seconda (tra destefaniani, affiliati di Paolo De Stefano, e gli altri, guerra che finisce con la pace di Reggio Calabria, nel 91, quando i capi delle famiglie si strutturano in un organo di vertice chiamato "Provincia", ritenuto tuttora esistente, vedi CONDELLO Pasquale). Nel raccontare i delitti di queste due guerre ha svelato gli intrecci tra ‘ndrangheta e massoneria, e la matrice terroristica della strage di Gioia Tauro (deragliamento del treno Freccia del Sud, 22 luglio 1970, 6 morti e 72 feriti), per la quale fu ritenuto l’unico responsabile (con dichiarazione di non doversi procedere perché nel frattempo il reato si era prescritto). Dopo essersi pentito cambiò non solo le generalità (come tutti i collaboratori di giustizia), ma anche i connotati.
• Viene affiliato alla ‘ndrangheta all’età di 21 anni, nell’organizzazione di don Antonio Macrì. «Quest’uomo era il capo crimine e rappresentava, secondo me, non "indegnamente", quella che si riteneva fosse "l’onorata società"; egli, se si può dire, era il capo dei capi (…), il vero unico, rappresentante, con tutti i titoli di Cosa Nostra ed aveva le "chiavi" per entrare negli Stati Uniti (New Jersey), Canada (da Toronto a Montreal, fino ad Ottawa) e Australia (la zona di Melbourne, Adelaide, Griffith); (…) Aveva conosciuto, quando ancora portavano i pantaloni corti, sia Riina che Provenzano, i quali, negli anni Cinquanta, erano al servizio del dott. Michele Navarra di Corleone…». Don Macrì viene ammazzato nella prima guerra di mafia. Lauro fu dei traditori. È lui (come confesserà) a trovare, mentre sta giocando a carte (23 maggio 1976) due killer per far fuori Paolo Bruno Equisoni, boss di Bova (Reggio Calabria), che aveva messo in guardia Micu Tripodo, pupillo di don Macrì, dicendogli: « Stannu nasciendu fora du seminatu» («stanno uscendo fuori dal seminato»). Nella seconda guerra di mafia si schiera con Pasquale Condello contro i destefaniani.
• È latitante, il 19 marzo 1992, quando viene condannato in via definitiva a 5 anni 11 mesi 28 giorni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso, come affiliato, nel ruolo di consigliori, del gruppo Saraceno-Imerti-Condello. Viene arrestato il 9 maggio 1992 all’aeroporto di Amsterdam, perché trovato in possesso di passaporto falso. È in carcere in Olanda quando manifesta la volontà di collaborare con la giustizia italiana. Inizia a parlare il 19 agosto 1992, imbastendo la trama dell’operazione "Olimpia" (che si articola poi in "Olimpia" 2, 3 e 4, grazie anche alle dichiarazioni del pentito Filippo Barreca, in codice "Beta"). Oltre cento gli omicidi ricostruiti, coinvolti nelle indagini anche magistrati, politici, professionisti. Lo stesso Lauro, in seguito alle sue dichiarazioni, viene condannato a 20 anni di reclusione (grazie alla riduzione di pena prevista dalla legge sui pentiti e alla scelta del giudizio abbreviato, sentenza definitiva il 10 aprile 2002, che accoglie la sua impugnazione, fatta solo per ottenere una pena più mite).
• Oltre a delineare la geografia delle cosche e a snocciolare i nomi degli ‘ndranghetisti e dei delitti commessi da ognuno, Lauro svela gli intrecci tra ‘ndrangheta e massoneria: «È vero che al termine della prima guerra di mafia (anni 1976-77) molti capi della ‘ndrangheta decisero di entrare in massoneria al fine di partecipare direttamente alla gestione del potere economico-politico e per poter intervenire direttamente nell’aggiustamento dei processi» (30 marzo 1994).
• I giudici gli hanno creduto nella parte che è servita a condannare i mammasantissima della seconda guerra di mafia (processo "Condello Pasquale + 202", Cassazione, 10 aprile 2002), mentre non gli hanno dato sufficiente credito nei processi celebrati prima contro Totò Riina, Bernardo Brusca, Pietro Aglieri, Pippo Calò e Salvatore Buscemi, e poi contro Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Benedetto Santapaola, accusati tutti di essere i mandanti dell’omicidio di Antonio Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino davanti alla prima sezione penale della Corte di Cassazione (Scopelliti fu ammazzato a colpi di fucile caricato a pallettoni mentre era alla guida della sua autovettura, in Villa San Giovanni, il 9 agosto 1991). Secondo l’accusa, fondata sulle dichiarazioni di Lauro, Filippo Barreca e altri, i componenti della cupola di Cosa Nostra avrebbero tentato, tramite loro amici calabresi appartenenti alla ‘ndrangheta, di corrompere lo Scopelliti e, non riuscendoci, avrebbero incaricato dell’esecuzione il clan calabrese facente capo alle famiglie De Stefano-Tegano, operanti nella zona di Villa San Giovanni, dove la vittima trascorreva le vacanze estive. Tutti gli imputati furono condannati in primo grado e assolti in secondo, con sentenza confermata dalla Corte di Cassazione, il 21 giugno 1999, e il 1° aprile 2004. I giudici non gli hanno nemmeno creduto quando ha accusato un giudice del Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria, Giacomo Foti, di avere favorito appartenenti ai gruppi Tegano e De Stefano mentre erano detenuti. Il Foti fu arrestato e poi assolto, mentre il Lauro fu sottoposto a processo per calunnia contro di lui.
• Freccia del Sud. Nel luglio 1993 si autoaccusa di avere fornito l’esplosivo che fece deragliare il direttissimo Palermo-Torino (Freccia del Sud), poco prima che entrasse nella stazione di Gioia Tauro (ore 17 e 10 del 22 luglio 1970). Duecento passeggeri (tra cui una comitiva di 50 diretti a Lourdes), 72 rimangono feriti, 6 muoiono. Subito dopo la strage era stata esclusa, ignorando le conclusioni dei periti, l’esplosione di una bomba, perché i passeggeri sopravvissuti non avevano sentito detonazioni. La colpa fu data ai macchinisti (errore umano), che poi andarono assolti (unici ad aver sentito il rumore di un botto, ma ritenuti irrilevanti come testimoni). Lauro rivela che si trattò di un attentato: indica gli esecutori materiali in Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo (morti da tempo), e dichiara di essere stato pagato per l’esplosivo da persone appartenenti al Comitato d’Azione per Reggio capoluogo, che il 14 luglio 1970 aveva organizzato la rivolta dei "Boia chi molla" a Reggio Calabria (per protesta contro l’elezione di Catanzaro a capoluogo di regione). Dichiara anche che non era la prima volta, che la ‘ndrangheta sosteneva l’estrema destra caso mai i progetti eversivi avessero avuto successo. Tra annullamenti e rinvii, il processo contro Lauro si chiude il 6 giugno 2007: giuridicamente non gli viene addebitata la strage (perché non era nelle sue intenzioni), bensì il concorso nel delitto di omicidio (ma siccome anche l’omicidio non era nelle sue intenzioni, la pena è diminuita e il reato prescritto). In pratica è l’unico che alla fine è stato ritenuto responsabile della strage.
• Il 30 marzo 1994 disse la sua anche sul "pacchetto Colombo", dal nome del ministro dell’Industria Emilio Colombo, che, a seguito della rivolta di Reggio Calabria, nel 71 assegnò alla Calabria quasi duemila miliardi per la costruzione di un centro siderurgico e altri interventi, che avrebbero dato occupazione a quindicimila persone (non se ne fece quasi nulla): «Ecco cosa fu il "pacchetto Colombo", un vero e proprio "pacco" per la Calabria, ma soprattutto per la provincia di Reggio (…) Ora, se mi consentite, devo dirvi una verità purtroppo amara per voi. Quando alcuni imprenditori portarono dinanzi all’allora prefetto, questore e procuratore della repubblica di Reggio Calabria, il problema che la mafia, senza dubbio, avrebbe messo le mani sulla torta, ebbene questi ebbero una facile risposta e cioè "bisogna accontentare tutti"» (dichiarazioni del 30 marzo 1994).
aprile 24, 2014 Commenti disabilitati su Giacomo Ubaldo Lauro – il pentito della Freccia del Sud
Beni confiscati, la relazione dell’Antimafia sulle prospettive di riforma
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1781.pdf
aprile 9, 2014 Commenti disabilitati su Beni confiscati, la relazione dell’Antimafia sulle prospettive di riforma
“Lo Stato mi permetta di resistere”
Sono Tiberio Bentivoglio, 34 anni fa, insieme a mia moglie ho avviato una attività commerciale, il cui fatturato sin dall’inizio è stato ottimo permettendomi di assumere diversi dipendenti e di ingrandire più volte la superfice di vendita, la mia era una fiorente attività conosciuta e apprezzata in tutta la provincia, ma tutto questo viene interrotto quando circa 20 anni fa si sono presentati i mafiosi a pretendere i miei sacrifici, mi sono opposto con determinazione e senza mai pentirmi ed è proprio per questo motivo, che sono stato più volte punito.
Furti, incendi, bombe e distruzione di automezzi, hanno messo in crisi la mia piccola ma sana azienda. Tutti gli attentati di evidente provenienza estorsiva e intimidatoria, sono stati da me sempre denunciati, ho infatti fornito e continuo a farlo, ampia collaborazione alle autorità inquirenti, ma nonostante aver scelto lo Stato come alleato, oggi sto per chiudere la mia attività perché ogni evento delittuoso ed ogni minaccia ricevuta hanno comportato un esponenziale indebitamento ed uno svilimento della mia attività commerciale.
I miei numerosi clienti di un tempo non ci sono più, forse per la paura di farsi vedere con me nel mio locale, mentre i pochi coraggiosi che continuano a frequentarlo, si ritrovano spesso costretti, loro malgrado, ad acquistare altrove, in quanto non sono economicamente in grado a rifornire di merce la mia sanitaria.
Questa di certo non è la mia volontà imprenditoriale. Questa è una delle tante conseguenze per aver denunciato i miei estortori. Ma questa purtroppo è anche una conseguenza delle lungaggini burocratiche del nostro Stato. Non si può e non si deve aspettare tre o quattro anni prima di ricevere i risarcimenti previsti dalla legge, che nel mio caso non sono stati sufficienti né a risanare i debiti contratti né a mantenere in vita l’attività. La Sanitaria S. Elia è per me e la mia famiglia l’unica fonte di sostentamento.
Nonostante l’agonia della mia attività, non ho mai pensato di trovare strade alternative come quella dell’usura, ma ho continuato, come ho sempre fatto a presentarmi nelle aule dei Tribunali per testimoniare contro i mafiosi e contro chi tenta di favorirli con la falsa testimonianza.
Persone che in tutti i modi cercano di ostacolare la mia scelta di vita, la mia voglia di libertà di verità e di giustizia. Oltre la denuncia mi sono anche costituito parte civile nei miei processi. E tre anni fa, a seguito alla condanna dei malavitosi da me accusati, sono rimasto vittima di un tentato omicidio, solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si è fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori, del tentato omicidio ad oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili. Ma oltre al danno materiale subito, da quel giorno vivo e faccio vivere mia moglie e i miei figli in continuo stato di allerta, di angoscia e di tensione, essi sono cresciuti con l’odore acre dei prodotti bruciati, con i boati delle bombe, con la paura di perdere un padre.
Questa è in sintesi la mia vita da venti anni a questa parte. Anche per quest’ultimo evento mi sono rivolto allo Stato, chiedendo attraverso la legge 44/99 di potermi supportare per continuare ancora una volta ad alzare, come ogni mattina, la saracinesca del mio negozio, ma ha risposto soltanto qualche giorno fa, dopo ben 3 anni di attesa e con immensa delusione, ho scoperto che vivere tutte le situazioni sopra descritte, ed in particolare il tentato omicidio, vale solo 16.000 euro.
Ma vale così poco la mia vita? Vale così poco la tranquillità della mia famiglia? Questa è la somma che lo Stato ritiene congrua ad una vittima che ha denunciato i propri estortori? Si può quantificare una vita ed un danno alla propria attività imprenditoriale legandolo, come prevede la legge 44, unicamente al reddito dichiarato negli anni precedenti?
Desidero delle risposte, ho bisogno di capire.
Quello che vi posso dire che il mio guadagno in questi ultimi anni è bassissimo, altrimenti avrei onorato l’erario, pagando puntualmente contributi, Iva, Canoni d’Affitto e stipendi dei dipendenti. In 10 anni il fatturato della mia attività è diminuito di oltre 2 milioni e mezzo di euro, e di conseguenza le dichiarazioni dei redditi sono irrisorie. I parametri usati per aiutare un cittadino e la sua azienda vessata e distrutta dai mafiosi, non possono e non devono essere basati sul benessere finanziario dell’impresa occorre per questi motivi rivedere le leggi vigenti con estrema urgenza, come più volte ho segnalato. I ritardi, dovuti al farraginoso iter burocratico, hanno determinato la completa paralisi della mia attività ed inoltre quando lo Stato, attraverso Equitalia, ha provveduto ad ipotecare la mia casa ha peggiorato definitivamente la mia situazione. Grazie a questo, le banche mi hanno detto di non essere più un cliente desiderato, togliendomi ogni affidamento e facendomi rientrare con urgenza dagli sconfini. Da qui anche i miei fornitori, temendo in un mio possibile fallimento, hanno deciso di rifornirmi solo con pagamenti anticipati.
A mio parere, i debiti che un commerciante si ritrova ad avere a causa dei suoi estortori devono essere sanati dagli stessi mafiosi attraverso le confische, condannandoli a risarcimenti considerevoli. Questi infatti, non sono debiti causati da una dissennata attività imprenditoriale ma sono conseguenza della voglia di legalità e di libertà, del vivere e lavorare onestamente nella propria terra
Ma la legge 44/99, ha ancora altri punti deboli, come per esempio l’articolo 20 che prevede il blocco dei provvedimenti esecutivi, ad esempio gli sfratti, ma il suo tempo di applicazione scade prima ancora d’aver ricevuto l’aiuto economico, altrimenti non saprei dare altra motivazione alla mia situazione, perché tra meno di un mese dovrò liberare i locali dove è ubicata la mia azienda, a causa di uno sfratto esecutivo. Da un momento all’altro anche la mia casa potrà essere venduta all’asta, e mi domando, chi la comprerà? Certamente i mafiosi che ho mandato in galera o i loro prestanome, ecco il paradosso, da un lato lo STATO confisca i beni ai malavitosi, dall’altro gli stessi si appropriano della casa di quel commerciante che li ha denunciati.
Da anni sono alla ricerca, finora vana, di un nuovo immobile da fittare per continuare la mia attività in un’area della città diversa da quella in cui mi è stata fatta terra bruciata attorno. Ma nessuno vuole concedere i propri locali a chi rischia di vedersi saltare in aria la propria attività per la quarta volta. Anche per questo motivo ho già presentato presso tutti gli uffici preposti una istanza per vedermi assegnato o concesso in fitto un adeguato bene confiscato o sequestrato dove poter trasferire la mia attività, una copia di tale richiesta l’ho inoltrata anche alla Prefettura di Reggio Calabria, che ha dimostrato grande apertura nei confronti di questa mia necessità. Se lo ritenete importante, come io spero, potete prenderne visione. Anche questo a mio avviso è un uso sociale dei beni confiscati. Vi è un diritto – dovere, in queste terre così difficili, quello della "resistenza" allo strapotere mafioso ed è per questo che chiedo allo Stato di permettermi di resistere e non morire, di poter continuare a dire a tutta la società e agli imprenditori denunciate perché "la libertà non ha pizzo".
Mi auguro che le mie urgenti necessità potranno essere discusse nelle sedi di competenza, per cui ho anche provveduto alcuni giorni fa a scrivere al Ministro degli Interni On Angelino Alfano per chiedere una Audizione Parlamentare, nel frattempo mi sono incontrato col Vice Ministro On Filippo Bubbico al quale ho lasciato dei documenti più dettagliati inerenti la mia storia. Voglio essere fiducioso nell’operato di questa Commissione e in particolare in quello del suo Presidente Rosy Bindi che ringrazio per avermi concesso di evidenziare le mie difficoltà, rimango pertanto a vostra completa disposizione qualora abbiate la necessità di risentirmi per una analisi più approfondita, anticipandovi che rapidamente produrrò alla vostra attenzione una esposizione più dettagliata delle mie vicissitudini evidenziando tutti gli impedimenti e le difficoltà che hanno determinato il mio fallimento.
Aiutare gli imprenditori vittime del racket è un dovere delle Istituzioni, queste in sintesi delle semplici modifiche di legge che potrebbero aiutarci concretamente:
1) Cancellazione delle ipoteche dai beni immobili.
2) Abbattimento dei debiti prodotti per causa dei mafiosi.
3) La possibilità di gestire un adeguato bene immobile confiscato per il proseguo dell’attività.
4) Nel caso di fallimento dell’attività commerciale la possibilità dell’assunzione nella pubblica amministrazione del titolare dell’imprese o dei figli a carico, come previsto dalla legge 407/98 ss.mm
5) Agevolazioni fiscali, come ad esempio il credito d’imposta per i dipendenti
6) Detassazione
7) Modifica dei parametri per il riconoscimento economico delle vittime di estorsione legge 44/99
8) Equiparazione alle vittime della criminalità organizzata per il riconoscimento per ogni punto percentuale di invalidità riconosciuto dalla Commissione Medica Ospedaliera competente per territorio, L. n° 302/1990 ss.mm.
9) Esenzione dal pagamento delle imposte e dei tributi per un periodo congruo
Permettetemi di aggiungere concludendo, che la lotta dichiarata alle mafie, sarà vinta, non solo mettendo insieme tutte le forze, non solo facendo leggi più adeguate, ma anche costruendo gli ospedali da campo, dove vanno curate e sanate le vittime in modo da poterle rimandare al fronte a combattere. Io ho fatto questa scelta, per questo che vi chiedo di sostenermi. Io voglio vincere, per poter gridare a tutti i miei colleghi che denunciare conviene.
dicembre 10, 2013 Commenti disabilitati su “Lo Stato mi permetta di resistere”
Il memoriale del pentito Nino Lo Giudice
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1716.pdf
giugno 7, 2013 Commenti disabilitati su Il memoriale del pentito Nino Lo Giudice
Legislazione antimafia in Europa
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1710.pdf
maggio 28, 2013 Commenti disabilitati su Legislazione antimafia in Europa
“Siamo qui come i partigiani, a combattere per la liberazione di questa terra”
Illustrissimi Signori, Autorità tutte, vi ringrazio di Cuore per la vostra presenza.
Ognuno di voi che oggi è qui ha contribuito con la sola presenza a rafforzare la speranza di un cambiamento, e certamente a dare anche un segnale molto forte e chiaro della presenza dello Stato e cosa ancor più importante della società civile; una società fatta da uomini e donne che vogliono riprendersi la libertà ed il diritto di vivere in una terra libera da vincoli, soprusi ed angherie, senza più padrini e padroni.
Grazie a nome mio e di tutta la mia famiglia, dei miei dipendenti che forse possono ancora sperare in un domani lavorativo.
La mia famiglia ha dietro le spalle oltre 35 anni di lotte alla criminalità; era il dicembre del 1987 quando ai media e subito dopo, davanti alle telecamere della Rai, abbiamo fatto le prime denunce pubbliche delle aggressioni mafiose subite. Così facendo abbiamo portato all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale la violenza della ndrangheta, mettendoci la faccia in maniera forte e chiara. Siamo stati i primi in Italia ad aver chiuso l’azienda per mafia e quella vicenda creò molto scalpore per i servizi giornalistici fatti dall’allora direttore del Tg2 Alberto La Volpe, dimostrando in tale vicenda anche il ruolo primario che possono avere i media in queste battaglie.
Quegli anni erano contrassegnati dai sequestri di persona e da un’assenza quasi totale dello Stato; ebbene in quegli anni, in Calabria, un’azienda disse basta all’aggressione criminale, arrivando a chiudere. Ciò è stato un capitolo importante, certamente doloroso, della storia della mia famiglia sia per i sacrifici e le privazioni subite che per essere stati emarginati in quanto, avendo sempre denunciato, fummo considerati all’epoca e non solo dal tessuto sociale degli "infami".
Rammento alcuni episodi al riguardo che riaffiorano alla mente. Episodi che danno il senso di alcune cose, come quando, con noi figli ancora piccoli, mio padre portò a casa, di ritorno dalla Fiera del Levante di Bari, che era la più importante manifestazione fieristica d’Italia, una piccola scimmietta. Quell’animaletto era la gioia di noi 5 figli ma l’arrivo della scimmietta è stato seguito da una lettera estorsiva che diceva testualmente: "tu hai la scimmietta e noi moriamo di fame, portaci i soldi sotto la pietra del mulino". Mio padre lo fece, ma avvertendo prima i carabinieri che arrestarono gli estortori con i soldi in mano. Ricordo quest’episodio come fosse ieri, anche perché in quel periodo mio padre era a letto malato, e due grandi marescialli dell’arma raccolsero la denuncia ed agirono subito. Questo è avvenuto circa 37 anni fa non al nord ma nel sud in Calabria, a Rizziconi .
Negli anni successivi poi, sempre in presenza di lettere anonime con richieste di danaro e nostre denunce, i carabinieri prepararono la confezione con il denaro utilizzando i primi segnalatori, che in quell’occasione si danneggiarono a causa delle vibrazione del frigo sul quale l’estortore poggiò il pacco. Per non parlare delle intimidazioni subite facendoci trovare la dinamite sul tavolo ed i fiammiferi a lato ed i diversi attentati dinamitardi subiti. Potrei raccontarne decine di queste storie come numerosi sono i volti di questi criminali che ci hanno rovinato la vita facendoci vivere privati del valore primario della libertà.
Questa è una parte della storia della famiglia De Masi in questa terra dove 40 anni fa parlare di legalità era come bestemmiare in chiesa.
Io ed i miei fratelli siamo stati educati e cresciuti in questo contesto, passando notti con mio fratello sul balcone di casa, o dormendo all’aperto su un materassino, con il fucile sottobraccio a fare la guardia. In quegli anni ricordo bene come tenevamo in casa i fucili in bella vista perché così facendo chiunque fosse venuto avrebbe avuto ben chiaro il fatto che non avevamo paura delle minacce.
Dal dicembre del 1987 alla sera del 12 aprile del 2013 sono cambiate molte cose.
All’epoca la posta in gioco era l’estorsione criminale: volevano i soldi, volevano rubare il frutto del nostro lavoro. All’epoca abbiamo risposto con un braccio di ferro molto duro e resistito, in quanto era difficile che per una mancata estorsione ti ammazzassero.
Oggi quello che è successo è tutt’altra cosa.
Chi conosce la tipica escalation dell’aggressione criminale sa bene che dietro 44 colpi di Kalashnikov e due proiettili a terra inesplosi, non c’è una semplice estorsione, ma molto di più, qui infatti l’intimidazione subita è partita dal massimo livello, con l’impiego dell’arma militare, per far capire che il prossimo obiettivo potrebbe essere la tua vita.
Questo messaggio credo sia chiaro a tutti e di fronte a ciò siamo chiamati ad essere razionali, al di là di avere coraggio o meno.
Nei primi giorni è prevalsa in me non la rabbia, l’odio o sentimenti analoghi, ma la ragione e la rassegnazione, e per questo motivo ho detto ai media che il messaggio è stato recepito, e che lo stesso era stato chiaro e forte. E’ stato un momento di grande sconforto ed amarezza e forse anche di voglia di gettare la spugna, ma il guardarmi intorno e vedere i volti di tanta gente, i nostri lavoratori e le loro famiglie, gli attestati di stima e solidarietà ricevuti, la vicinanza concreta, autorevole ed intelligente dello Stato in tutte le sue forme, i richiami ai miei doveri di imprenditore e certamente il mio carattere, la mia rabbia e la consapevolezza che in gioco sono valori primari come la libertà ed il futuro di tutti, mi hanno portato, ci hanno portato insieme, a dire: "andiamo avanti".
Noi tutti, la mia famiglia, siamo qui a metterci la faccia per dire che continueremo il nostro lavoro, stiamo qui dicendo con forza di lasciarci in pace perché noi vogliamo lavorare, fare impresa e far crescere le aziende per contribuire a dare un futuro a questa terra disgraziata. Io non ho paura, noi non abbiamo paura; noi siamo qui, come hanno fatto i nostri antenati partigiani, a combattere una lotta per la liberazione di questa terra da quei padrini che l’hanno massacrata, che hanno distrutto il futuro dei nostri e vostri figli.
De Masi è e vuole continuare ad essere il nome di una famiglia di imprenditori che fa impresa e crea occupazione nel nome della "legalità" vissuta e praticata e della vicinanza allo Stato.
Io credo che al di là delle autorevoli presenze e delle gravissime assenze, oggi la posta in gioco è altissima; noi non possiamo perdere, questa battaglia deve avere un solo ed unico risultato, la vittoria! Credo che stare al fianco delle aziende sia un fatto importante e determinante e forse oggi proprio da qui può avere origine quella rivoluzione culturale che in Sicilia, anche partendo dal mondo delle imprese, ha cambiato le cose.
Finisco questo mio intervento, ringraziando di cuore tutti: le forze dell’ordine tutte, il Procuratore di Reggio Calabria Cafiero De Raho, S.E il Prefetto Piscitelli , il Questore Dr Longo ed in modo particolare il Col. Falferi e tutti i suoi uomini, il Capitano Cinnirella, ed a il Ten. Ceccagnoli e gli uomini della scorta e l’autorevolissima presenza degli uomini dell’Esercito italiano qui rappresentato dal comando logistico di proiezione agli ordine del Col. Francesco Cardone.
Un Grazie particolare va poi a Libera, a don Luigi Ciotti ed all’Osservatorio sulla ‘ndrangheta rappresentato da Claudio La Camera.
Poi io non sarei qui se non avessi avuto la presenza al mio fianco di Don Pino De Masi a cui molto devo, sia per avermi sopportato con le mie ansie ed angosce che per avermi sempre dato la speranza e la fiducia. Da cattolico credo che la Chiesa, in territori difficili come il nostro, debba riprendersi la missione di "condurre il gregge" sulla dritta via, ed uomini come don Pino sono l’esempio concreto dell’agire.
Don Pino tu hai rappresentato per me la strada ed il punto di rifermento, grazie di tutto e scusami.
Infine una parola la debbo a tutti i miei familiari che con la mia caparbietà ho spinto ad un forte coinvolgimento, forse oltre il dovuto.
Grazie ancora a tutti
maggio 3, 2013 Commenti disabilitati su “Siamo qui come i partigiani, a combattere per la liberazione di questa terra”