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Il caso Valarioti


I colpi sono esplosi dal buio. Giuseppe, Peppe, Valarioti cade urlando nel suo dialetto. Si rivolge ai compagni, quelli del Partito Comunista con i quali ha festeggiato poco prima una splendida vittoria elettorale. “Mi hanno sparato” – dice quasi esanime tra le braccia dell’amico fraterno Peppino Lavorato. La corsa folle all’ospedale è inutile. Peppe Valarioti, comunista, muore. Ucciso dalla ‘ndrangheta. E dallo Stato. Due volte. È il 1980, in Calabria, a Rosarno. Peppe Valarioti è figlio del proletariato, insegnante precario che non si tira indietro se c’è da lavorare in campagna con i suoi, assetato di cultura e giustizia per la propria terra vessata ed ammazzata ogni giorno dalla criminalità organizzata. Si impegna mettendoci la faccia ed iscrivendosi al Partito Comunista, proprio lui che viene da una famiglia cattolica. Non teme le ritorsioni e denuncia apertamente le connivenze, i soprusi, la cappa asfissiante che le famiglie (‘ndrine) mafiose di Rosarno gettano come un manto scuro sulla sua città, le sue terre. Soprattutto le terre. A Rosarno si vive di agricoltura e gli agrumeti sono una voce economica fondamentale del territorio. La loro gestione è quasi un monopolio ‘ndranghetista ed i contadini sono tenuti al cappio, incapaci di opporsi, annichiliti ed assoggettati. La cooperativa agricola Rinascita del Partito comunista nata negli anni Settanta rompe le uova nel paniere a molti perché è una cosa che funziona e anche bene: rompe il blocco agrario, libera i piccoli e medi produttori dall’intermediazione della mafia, fa saltare gli schemi del caporalato, totalmente in mano alle cosche. La morte di Peppe passa anche da qui. Il Pci in quegli anni è l’unico a portare avanti una campagna martellante contro la ‘ndrangheta, per estirparla dai gangli economici e da quelli politici perché sta diventando chiaro e lampante il progetto totalizzante (si può dire, totalitario?) della convergenza tra mafia e politica. Le elezioni del giugno 1980 sono l’occasione propizia per continuare a denunciare e Peppe, eletto segretario della sezione cittadina del Pci, non si tira indietro e denuncia con nomi e cognomi la cosca dei Pesce. È una sfida, come è una sfida andare a cercare i voti dove questi sono, dovrebbero essere, già blindati. Quelle elezioni rappresentano una grande vittoria per il Partito Comunista: Peppino Lavorato, che negli anni successivi diventerà sindaco (e simbolo) di Rosarno, è riconfermato Consigliere provinciale; Fausto Bubba è eletto Consigliere regionale. C’è da festeggiare a Rosarno perché nonostante le intimidazioni e le violenze (i manifesti propagandistici del Pci capovolti, la macchia di Lavorato incendiata, i boss in bella mostra davanti ai seggi) i risultati confermano che la lotta paga. Ma a spezzare la gioia della vittoria e la prospettiva del cambiamento arrivano quei due colpi esplosi nel buio, il battesimo della Santa, la verticalizzazione della ‘ndrangheta, il primo omicidio politico in Calabria firmato e vidimato dalla criminalità organizzata più potente.
Di Peppe Valarioti, insegnate innamorato dell’archeologia e della sua terra, della musica e della letteratura e della politica non meno delle altre arti, resta il ricordo, l’impegno ed il coraggio di un uomo che diceva ai suoi compagni “Se qualcuno pensa di intimidirci si sbaglia di grosso, i comunisti non si piegheranno mai”. Resta anche una vicenda giudiziaria durata undici anni ed un omicidio ancora impunito. Restano, ad imperitura memoria, dichiarazioni infamanti (“Peppe è morto per una questione di femmine”), negazioni che oggi suonano come atti di accusa contro gli stessi che le hanno pronunciate (“La mafia non esiste”, “A Rosarno non c’è mafia”). Resta Peppino Lavorato che dopo l’assassinio dell’amico Valarioti ha continuato a battersi per la verità ed ha continuato a testa alta la sua lotta alle cosche diventando un faro di riferimento per i tanti che quella lotta fanno propria. Danilo Chirico ed Alessio Magro ci consegnano pagine emozionanti, cariche di storie e di ricordi riponendovi l’appello a riaprire un caso tutt’altro che risolto fatto di ritrattazioni, superpentiti sottovalutati, rivelazioni importanti, ma anche errori, molti errori; e sviste, amnesie improvvise, dichiarazioni grottesche, faldoni sepolti e dimenticati negli scantinati dei tribunali. Assoluzioni, soprattutto. Si percepisce subito che gli stili narrativi sono due: uno più pragmatico teso alla cronistoria, all’analisi puntigliosa dei fatti, alla descrizione degli episodi; ed un più passionale, che umanizza l’evento e l’uomo Valarioti, quello che si fa coinvolgere dai fatti come introiettato nella Rosarno degli anni Settanta. Molto potente per la carica simbolica di ogni singola espressione. Un lavoro importante, scritto col rigore del giornalismo ed il tratto fine della narrazione, senza che le due cose cadano in reciproca contraddizione. Scindere i due stili diventa impossibile perché uno accompagna l’altro ed insieme si fondono per restituire al lettore una cornice storica e politica ben definita con un unico scopo: ricordare, raccontare e chiedere giustizia. Riappropriarsi della storia di Peppe Valarioti è il riappropriarsi per una regione come la Calabria della propria memoria storica. Scrivono gli autori: “Siamo senza memoria, ci siamo detti. Non avevamo altra scelta che quella di cominciare a scoprire, ricordare e raccontare”.