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Boss e funerali, questione di “potere”

Reggio Calabria – I morti di ‘ndrangheta non dormono in collina come quelli raccontati da Edgar Lee Master o cantati da Fabrizio De Andrè. Per una naturale legge del contrappasso le cosche non hanno mai conosciuto il suonatore Jones o quelli che, con lui, riuscissero a diventare esempi di una vita straordinaria nella propria normalità. Chi in vita esercita e si fa scudo del potere criminale muore da miserabile. La storia non lo ricorda, se non come pedina nello strano scacchiere della criminalità organizzata, il tavolo da gioco dove tutti saranno essere vinti ed apparenti vincitori. Anche i capi più potenti, i "supremi" in vita, da morti servono solo a delineare confini, a stabilire equilibri, a sancire cambi al vertice. È successo anche ai boss di ‘ndrangheta.

Antonio Macrì (nella foto accanto) è stato tra gli anni Cinquanta e Sessanta il boss indiscusso della Locride. Un capobastone vecchio stampo che ordinava uccisioni e ordiva intrecci criminali. Non solo, u zzi ‘Ntoni era un capo di caratura internazionale, con contatti in Canada, Stati Uniti e Australia, affiliato a Cosa Nostra e molto attento al rispetto del codice tradizionale della ‘ndrangheta. Fu lui, infatti, ad opporsi strenuamente al cambio di strategia criminale, al passaggio ai nuovi affari dei sequestri di persona e dei traffici internazionali di stupefacenti. Probabilmente anche per questo fu ammazzato. Era il 20 gennaio 1975 quando gli spararono contro decine di colpi di pistola, uccidendolo e ferendo gravemente il suo luogotenente Francesco Commisso. L’agguato, scattato in contrada Zammariti, nella "sua" Siderno, fu ordito all’esterno del suo territorio e segnò il cambiamento di equilibri. Il suo funerale – ricostruiscono le cronache – fu quello di un capo di Stato. Le foto dell’epoca ci raccontano che furono in migliaia ad invadere la città, con un lunghissimo corteo funebre. Gli esercizi commerciali chiusero in segno di lutto. I fiori e le delegazioni diplomatiche della ‘ndrangheta che parla urbi et orbi invasero il "regno" di Macrì, morto come un affiliato qualsiasi. E dopo la sua morte la ‘ndrangheta cambia volto. La strada del "rinnovamento" è spianata. Rimane solo l’ombra del giudice che era stato arbitro in terra del bene e del male. A segnare il passo di un cambiamento.

Il rapporto tra la celebrazione della morte dei boss e l’esercizio del potere è essenziale nel modus operandi delle cosche. Era il 7 novembre del 1976 quando a Gioiosa Jonica il clan degli Ursini decise che in segno di lutto quella mattina non si doveva tenere mercato. Andava vendicata la morte del boss Vincenzo Ursini, ucciso dagli uomini del Capitano Niglio il giorno precedente. Sin dall’alba i fedelissimi del capo circondarono il paese dissuadendo commercianti e venditori ambulanti dall’aprire bottega. Piazza Vittorio Veneto- dove ogni giorno si teneva il mercato- quella mattina rimase deserta. Le saracinesche degli esercizi commerciali abbassate, come in ogni lutto che si rispetti. Tutto il paese era chiamato a celebrare e condannare la morte del boss. Quella mattina, e nei mesi a venire, fu il coraggio di Rocco Gatto ad opporre al silenzio la forza della denuncia ed a consentire ai carabinieri di riportare l’ordine. Ma il segnale il clan lo aveva lanciato forte e chiaro. Le bocche, tranne quella di Rocco, rimasero cucite e vennero ritrattate le prime testimonianze. Quel lutto forzoso aveva colpito nel segno.

Negli stessi anni in cui Antonio Macrì dominava la Locride, Girolamo Piromalli spadroneggiava nella Piana di Gioia Tauro. Anche lui era un capo vecchio stampo, ma la sua visione strategica presupponeva alcune scelte che la ‘ndrangheta fino ad allora non aveva mai compiuto: l’alleanza con le istituzioni tramite la massoneria in vista dell’accaparramento degli appalti pubblici. La svolta, non indolore, fruttò alla malavita calabrese miliardi di lire di incasso in un territorio destinatario di ingenti finanziamenti statali a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Don Mommo, dunque, riuscì a scampare ai colpi del fuoco "amico" della prima guerra di ‘ndrangheta e morì di cirrosi epatica l’11 febbraio del 1979. Se è vero che quando si muore si muore soli, non è dato sapere cosa contenesse il suo testamento. Ma al suo funerale, celebrato a Gioia Tauro in un giorno di pioggia, sembra ci fossero 6.000 persone. Il suo feretro, nelle immagini di repertorio, scivola imponente, intarsiato d’argento e coperto da decine di fiori rossi portato a spalla dai fedelissimi. Il boss che da un letto dell’ospedale di Messina raccontava al giornalista Joe Marrazzo di non essere mafioso ma benvoluto dalla povera gente è accompagnato, fuori dalla chiesa di Sant’Ippolito, il duomo di Gioia Tauro, da uomini e donne di ogni estrazione sociale. Centinaia di corone di fiori sfilano lungo le strade tra le braccia di uomini e ragazzini che si fanno, con piglio orgoglioso, inquadrare dalle telecamere. Dettagli e cifre che fanno impressione. Che ci parlano di complicità diffuse, di responsabilità trasversali.

Ma gli anni passano ed i tempi cambiano. Damiano Vallelunga, il presunto boss del clan dei Viperari di Serra San Bruno, viene ucciso a Riace durante la festa dei Santi Cosma e Damiano il 27 settembre 2009. Per i suoi funerali niente cortei o corone di fiori né chiese matrici. Ad accompagnare le esequie, celebrate all’alba presso il cimitero del centro del Vibonese, sono stati gli sguardi vigili delle forze dell’ordine, gli odiati "sbirri". Il suo fu un funerale ritenuto rischioso per l’ordine pubblico ed il questore di Vibo Valentia ordinò di celebrarlo in forma "privata". Nessuno vi si oppose e nessuno fu più disposto ad occupare le strade per un boss. Perché oggi in Calabria ci sono anche preti che rifiutano le esequie solenni, tracciando con nettezza il confine tra il bene ed il male, e ci sono soprattutto cittadini che di certe morti hanno vergogna. Sempre più consapevoli della nudità dei re.