>

Category — ricostruzioni

Omicidio Musolino, la Procura riapre le indagini

REGGIO CALABRIA – "La sete di giustizia riguarda non solo noi, ma tutta la Locride, anzi tutta la Calabria, meglio l’Italia intera. Si, perché la prospettiva di rinascita del Sud Italia in generale, e della provincia di Reggio Calabria in particolare, non può che passare dal corretto e civile funzionamento delle istituzioni e del potere giudiziario soprattutto". Qualche tempo fa Domenico Musolino commentava con queste parole lapidarie il torpore giudiziario attorno all’omicidio irrisolto del fratello Antonio, ucciso il 31 ottobre del 1999 a Benestare. Un caso irrisolto. Uno dei tanti. Archiviato perché il gip di Locri non aveva riscontrato un quadro indiziario tale da dimostrare la responsabilità degli indagati. Totò, come lo chiamavano in paese, era un imprenditore di razza, amante del suo lavoro e della sua terra. Era instancabile e con la schiena dritta: aveva denunciato e fatto arrestare chi gli aveva chiesto il pizzo.

L’omicidio e le indagini – Quella sera si trovava all’interno del suo frantoio quando, intorno alle ore 21.00, un "uomo tozzo, testa grossa e squadrata, di carnagione scura e brutto come un diavolo" a bordo di una Fiat Uno di colore grigio, guidata da un complice, lo freddò a colpi di lupara. A quasi tredici anni dall’omicidio, e ad un anno esatto dall’accorato appello del fratello, il velo di fitto mistero sul caso Musolino potrebbe finalmente cadere. Il sostituto procuratore di Locri, Rosanna Sgueglia, ha infatti chiesto la riapertura delle indagini al fine di eseguire ulteriori accertamenti e verifiche nei confronti dei tre ex indagati: Francesco Ietto, Domenico Strangio e Francesco Perre. Tante, troppe, infatti, le circostanze "anomale" ancora da chiarire. A partire da quanto avvenne la sera dell’agguato. Era domenica e a Benestare tutti si erano accorti di una Fiat Punto con a bordo due individui con il volto seminascosto da cappelli con lunga visiera. Una presenza sospetta segnalata alle forze dell’ordine già intorno alle 17.00. Pochi secondi dopo l’assassinio, spostandosi ad alta velocità dal centro cittadino verso il cimitero, l’auto avrebbe incrociato una volante della Polizia che incredibilmente avrebbe fatto sfilare via i killer. Nonostante i colpi di fucile, le segnalazioni, il diritto di precedenza in un tratto a senso unico alternato, la velocità con cui procedeva la vettura, e il passamontagna indossato dagli occupanti. La Fiat punto sparirà, imboccando la strada verso il cimitero. Gli agenti sarebbero andati a cercarla, alcuni minuti dopo e nella direzione opposta.

Le domande senza risposta – "Perché tutto questo?", si chiede da 13 anni la famiglia Musolino. Tanti gli interrogativi che accompagnano anche la riapertura delle indagini cui potrebbe aver dato impulso l’arresto, dopo 12 anni di latitanza, di Francesco Perre, condannato a 28 anni di carcere per il sequestro Sgarella. Una cosa è certa: il fascicolo è rimasto di competenza della Procura di Locri. Una circostanza, quella della mancata trasmissione degli atti alla Dda di Reggio nonostante le chiare modalità mafiose dell’omicidio e l’appartenenza dei tre indagati a contesti criminali, che ha suscitato negli anni la perplessità della famiglia Musolino, sconcertata anche dalla sparizione dal Tribunale di Locri di alcuni importanti reperti sequestrati dai carabinieri: il cappellino con visiera indossato da uno degli assassini e il telo da spiaggia utilizzato per occultare il fucile. "Com’è potuto accadere?", chiedono e si chiedono i familiari dell’imprenditore la cui ditta, ai tempi dell’omicidio, risultava impegnata in tre importanti commesse pubbliche: le Poste di Castrovillari, il Centro disabili di Condassondolo di Siderno e infine il recupero di edifici pubblici a Careri e Natile.

giugno 12, 2012   Commenti disabilitati su Omicidio Musolino, la Procura riapre le indagini

L’Altra Storia di Calabria – Quando gli africoti cacciarono i francesi

Facendo mia la massima che "Senza memoria non c’è futuro" vorrei ricordare una storia accaduta nella vecchia Africo sull’Aspromonte nel 1807 all’epoca della seconda calata delle truppe napoleoniche in Calabria. Questa storia, tramandata dai vecchi africoti e dai casalinoviti loro vicini, dall’epoca in cui erano tutti pastori e contadini, è eccezionalmente ricordata anche in un libro stampato del 1927, "In terra di Bova" di Antonio Catanea. Dico eccezionalmente perché non è facile trovare storie con protagonista la classe povera, nei libri, a motivo che gli stessi, almeno nel passato, sono stati scritti da persone "istruite" figli delle classi agiate inclini, per quanto riguarda il popolo, a chiuderlo in storie patetiche di frustrante vittimismo: senza riscatto e senza gloria.

Ma veniamo ai fatti per come scritte da Catanea:
"…nel 1807 il territorio di Bova venne a trovarsi quasi al limite di occupazione e devastato dai Francesi e dai Borbonici: In tale anno il comando francese aveva deciso di sottomettere l’abitato di Africo, posto più avanzato dell’occupazione borbonica e che per difficoltà di difesa era stato abbandonato a se stesso. Un giorno del febbraio 1807 due compagnie di volteggiatori francesi si presentarono improvvisamente alle porte del paese: gli abitanti sorpresi cercarono dapprima di impedire l’entrata, ma sopraffatti dal numero si allontanarono rifugiandosi sui monti vicini e richiedendo rinforzi a Bova. Dai loro rifugi però osservarono che i nemici non contenti di aver conquistato il paese mettevano tutto a fuoco; ritornarono allora furibondi combattendo eroicamente contro un nemico più volte numeroso e costringendolo ad abbandonare la preda e parte delle armi e degli stessi bagagli. Giungeva frattanto il colonnello Vincenzo Veneti con una massa di diverse centinaia di volontari: questi unitisi agli Africoti ed ai Casalnuovesi rastrellarono tutta la zona circostante, uccidendo i ritardatari e costringendo i pochi superstiti a veloce ritirata verso San Luca".

A questa cronaca troppo stringata per essere esauriente è il caso di aggiungere dei dati che aiutano a comprendere i motivi di quell’attacco inaudito e quasi suicida senza aspettare i rinforzi da Bova, già in arrivo: Tornando al momento della fuga della popolazione, i francesi avevano sparato anche sui fuggitivi, tanto che tra gli africoti rimase il toccante ricordo di una donna che si attardava nella corsa, sorda – sembrava – ai richiami dei compagni; in realtà perché mortalmente ferita, raggiunta alle spalle dalle pallottole dei soldati. E fatti come questo (che non fu certo il solo) servirono a preparare gli animi degli africoti, ma ad affrettare l’attacco concorse soprattutto la consapevolezza che qualora l’intero paese con le sue provviste alimentari fosse andato tutto in fumo sarebbe stato difficile poi superare l’inverno. Gli uomini dunque preferirono rischiare di più di morire combattendo piuttosto che poi e, con le loro famiglie, perire miseramente per freddo e per fame.

Ma come è potuto accadere che dei miseri montanari male armati e senza preparazione militare avessero avuto la meglio su soldati di elite, ben addestrati, meglio armati e persino più numerosi? Ciò si può ben spiegare con dati certi in nostra conoscenza: Sebbene non si ricordino i termini generali della battaglia, conoscendo i luoghi, la mentalità, l’agilità fisica acquisita per lo stile di vita e l’arma tipica dei paesani, che era un’ascia leggera (solitamente attrezzo da lavoro) e ben maneggiabile della quale avevano gran destrezza, possiamo immaginare un attacco calando dall’alto, rapido, semi-celato dal fumo degli incendi e uno scontro corpo a corpo dentro il centro abitato, dove in qualche modo i francesi furono presi alla sprovvista . Nelle tortuose viuzze, e dai bassi tetti atti anche a repentini spostamenti e agli agguati, gli improvvisati gruppi di combattimento, solidali all’estremo perché composti da fratelli, cugini, padri e zii (votati al massacro o ad essere tutti massacrati), prevalsero sui drappelli di ufficiali e soldati costretti a un combattimento inusitato, in cui poco servirono loro i fucili e le sciabole contro l’audacia africota.
Il monte dove gli africoti in fuga con le loro famiglie si erano rifugiati si chiama Carazzi, distante 3 o 4 chilometri da Africo nella direzione di Samo, ed è da lì che gli uomini validi, insieme ai casilinoviti accorsi in aiuto, partirono per la riconquista . Allora, nell’incalzare degli eventi, i francesi costretti a scappare dal paese semidistrutto e ancora inseguiti , si diressero nella direzione opposta (e quindi dal lato di Bova) andando fatalmente proprio all’incontro dei bovesi che frattanto arrivavano. Vennero così presi in mezzo e nuovamente battuti nello scontro finale.

Nello stesso libro Catanea racconta un episodio successivo, sintomatico del "trauma" subito dai francesi: "Nel settembre 1807, ….Giuseppe Monteleone da Fabbrizia detto "Ronca" temuto capo-massa borbonico dopo avere tentato invano un assalto contro Sinopoli allora in potere dei Francesi erasi ridotto ad accamparsi fra Africo e Casalnuovo ove la truppa francese agli ordini del La Rue che l’inseguiva , memore dell’episodio di pochi mesi prima , non ardiva attaccarlo."
Nella memoria tramandata dei due paesi restarono molte tracce dell’accaduto, e anche un autentico trofeo di guerra , un tamburo sottratto ai francesi e ancora conservato – almeno fino agli anni ’70 – in una casa di Africo Nuovo.
Il luogo dell’ultimo scontro era un bosco, quello di Carrà a due chilometri da Africo; là dove , per la quantità dei morti restati sul terreno, rimase la nomea di "posto degli spiriti" per cui i bambini , fin oltre 150 anni dopo, evitarono di andarci; come del resto (almeno per un po’) anche i francesi.

aprile 30, 2012   Commenti disabilitati su L’Altra Storia di Calabria – Quando gli africoti cacciarono i francesi

La moglie di Lo Giudice strangolata e fatta sparire.”Angela era sdisonorata”

"A ‘sdisonorata era iddha, se ci mangiau … ci mangiau a iddha; non ci importava tanto, perché Angela aveva sgarrato e poi lei era ‘na mala donna e lui non doveva essere toccato" (Maurizio Lo Giudice).

"Aveva la fama di esser una donna facile, (…) aveva uno sguardo profondamente triste e la testa fra le nuvole".

"Era depressa e diceva che si voleva buttare giù dal porto".

REGGIO CALABRIA – La pentola col sugo che sfrigola, bruciandosi, sul fuoco, il pianto dei quattro figli piccoli, da soli in casa, la carta d’identità e gli anelli sulla mensola d’entrata. La verità è già tutta lì, nell’appartamento di via XXV luglio da cui Angela Costantino, la mattina del 16 marzo 1994, è svanita nel nulla. Quattro anni dopo, archiviando per mancanza di prove le indagini sulla sua scomparsa, il Gip di Reggio Calabria dimostra di averla pienamente compresa: "L’ipotesi omicidiaria in danno della Costantino è certamente da ritenersi altamente verosimile, alla luce delle modalità della "scomparsa" della stessa e dell’assenza di una plausibile ragione giustificativa di un allontanamento volontario". In tutto ce ne vorranno diciotto, di anni, prima che la Procura di Reggio Calabria arrivi a scriverla nero su bianco: la 25enne Angela Costantino, moglie di Pietro Lo Giudice, dell’omonima cosca di ‘ndrangheta, è stata ammazzata perché giudicata "sdisonorata". A risolvere il "problema" di famiglia sarebbero stati il nipote della donna, Fortunato Pennestrì, e i due cognati Bruno Stilo e Vincenzo Lo Giudice, raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip Domenico Santoro su richiesta del sostituto procuratore Beatrice Ronchi. Sposa a 16 anni, madre giovanissima di quattro figli, Angela – questa l’accusa – sarebbe stata strangolata e fatta sparire a causa di una presunta relazione extraconiugale intrattenuta mentre il marito si trovava in carcere.

Il racconto dimenticato dei pentiti – A fare luce sulla fine della donna sono stati i racconti di tre collaboratori di giustizia. Racconti datati e a lungo dimenticati. In particolare, Maurizio Lo Giudice, cognato di Angela, aveva parlato chiaramente di omicidio, indicando movente e responsabilità, già nel corso di un interrogatorio del 10 maggio 1999, all’inizio del suo percorso di collaborazione. Ma bisognerà aspettare il 2009 per arrivare alla riapertura delle indagini e per verificare che di Angela Costantino avevano riferito anche Domenico Cera nel 1997 ("la moglie di Pietro Lo Giudice … è stata uccisa dal cognato, da Vincenzo Lo Giudice perché secondo lui tradiva il fratello") e Paolo Iannò nel 2002: "Una sera c’era Bruno Stilo e siccome era uscito l’articolo nel giornale era stato "specificato" che l’uccisione, decisione presa da "loro i famigliari tutti", "con un accordo di famiglia", era stata dovuta al fatto che la donna, "la moglie di Pietro", "aveva sbagliato" e che, dunque, non era vera "la notizia uscita sui giornali" che Angela fosse "pazza", "fatta" o se ne fosse andata volontariamente per le "preoccupazioni".

La scomparsa di Barbara Corvi – Archiviate nel 1998 e dimenticate, nonostante le dichiarazioni convergenti del pentiti, le indagini su Angela Costantino sono state riaperte il 21 dicembre 2009, due mesi dopo la sparizione di Barbara Corvi, moglie 35enne di un altro dei fratelli Lo Giudice, Roberto. Scomparsa da Amelia, in provincia di Terni, il 27 ottobre 2009, anche Barbara si sarebbe "macchiata" di una relazione extraconiugale confessata al marito prima di sparire nel nulla.

aprile 14, 2012   Commenti disabilitati su La moglie di Lo Giudice strangolata e fatta sparire.”Angela era sdisonorata”

Micu u pacciu, smantellata la rete dei fiancheggiatori

REGGIO CALABRIA – "Cara commare Pina io me ne sto andando. Mi diceva l’amico qui che ogni tanto
per un paio di giorni posso venire, e io l’ho ringraziato. Lascio qui
tutto quello che mi avete mandato perché se torno mi può servire.Vi
ringrazio di tutto
. Se avete bisogno mi fate sapere. Vi abbraccio e se Dio vuole ci rivedremo". "Compare M" firma su un foglio a quadretti qualche parola di ringraziamento per la gentile ospite che si è impegnata a rendere confortevole il suo soggiorno, per quanto breve. Ma promette che tornerà, ogni tanto, per un paio di giorni. Di più, per "Compare M", è pericoloso, visto che lo stanno cercando da 22 anni polizia e carabinieri, è in testa alla lista dei latitanti più pericolosi inseriti nel Programma speciale di ricerca, insieme con Matteo Messina Denaro, ed è inseguito da una condanna all’ergastolo per omicidio (quello del boss Paolo De Stefano, ucciso il 13 ottobre 1985), associazione mafiosa, traffico di stupefacenti e rapina, oltre che da una più recente ordinanza di custodia cautelare in carcere (inchiesta Reggio Nord). Da ieri, però, la latitanza di "compare M", ovvero del 56enne Domenico Condello, soprannominato U pacciu e cugino di Pasquale, detto U supremu, in carcere dal 2008, è divenuta più difficile.

L’OPERAZIONE LANCIO – Dopo l’operazione "Reggio-Nord", con cui il 5 ottobre
2011 avevano scoperchiato una parte degli interessi
economici della cosca, ed in particolare quelli relativi
all’acquisizione del villaggio-discoteca "Il Limoneto", i carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Reggio, infatti, ieri hanno eseguito 17 fermi nei confronti di altrettanti soggetti (sei sono donne) accusati, a vario
titolo, di aver agevolato la latitanza di Condello, di essere affiliati all’omonima cosca e di intestazione fittizia di beni aggravata dalle modalità
mafiose. Emessi dai sostituti procuratori della Dda di Reggio Calabria Rocco Cosentino e Giuseppe Lombardo, i carabinieri hanno notificato i provvedimenti a Giuseppa Cotroneo, 66 anni, suocera dell’ergastolano
Pasquale Condello, 49 anni, fratello del latitante; ad Antonino Imerti, 66 anni, "nano
feroce", in atto detenuto per scontare una pena definitiva
all’ergastolo, alla moglie Giuseppa Condello, 52 anni. Ed inoltre a
Mariangela Amato, 40 anni; Giuseppe e Giovanni Barillà, di 55 e 34 anni;
Caterina Condello, 45 anni; Francesco Condello, 82 anni; Francesco
Genoese
, 33 anni; Giuseppe Martino, 74 anni; Maddalena Martino, 86 anni;
Cosimo Morabito, 25 anni; Bernardo Pedullà, 42 anni; Pasquale,
Massimiliano e Roberto Richichi, di 28, 34 e 27 anni; Demetrio Romeo, 25
anni e Margherita Tegano, 44 anni, coniugata con Domenico Condello.

IL COVO DI CATONA – Sabotaggio di videocamere, disattivazione di microspie, bonifica del territorio e uso di un linguaggio in codice. Non è stato semplice per gli investigatori dell’Arma penetrare la rete familistica di favoreggiatori a protezione della latitanza di Condello. Un passo in avanti importante i carabinieri, però, lo segnano l’11 gennaio 2010, giorno in cui, seguendo Bruno Antonio Tegano, individuano al civico n.3 della via Nazionale Bolano di Catona un covo ancora "caldo". Dentro, tra una statuetta di Padre Pio e una della Madonna della Montagna, i carabinieri hanno raccolto reperti da cui è stato estrapolato il profilo genetico del latitante, medicine (prescritte alla suocera del ricercato) e anche alcuni pizzini attribuiti al Condello dal Ris di Messina sulla base del confronto grafologico con due manoscritti scoperti in casa di Giuseppa Cotroneo. Nella disponibilità della donna – suocera dell’ergastolano Pasquale Condello Junior, ma anche dell’assessore all’Urbanistica del Comune di Reggio Calabria Luigi Tuccio e di Massimo Pascale, segretario amministrativo dell’Ufficio di Gabinetto del Presidente della Regione Scopelliti – sono stati trovati due brevi testi (uno di ringraziamento per la disponibilità di "commare Pina", l’altro di felicitazioni per la laurea della figlia) nei quali il mittente si firmava una volta "compare M" e l’altra "Mimmo e Margherita" (Margherita è il nome della moglie di Condello). Sempre la Cotroneo, secondo quanto riferito dal pentito Paolo Iannò, avrebbe fornito supporto logistico ad altri latitanti del cartello Imerti-Condello, adoperandosi anche a nascondere armi ed auto. Tutti gli oggetti non utili all’indagine (compresi 300 capi d’abbigliamento e attrezzatura sportiva) rinvenuti nel covo di Catona sono stati devoluti in beneficienza al centro "Don Orione" di Reggio Calabria.

PANE, PIZZA E FANTASIE – Nel provvedimento dell’operazione "Lancio" si ipotizza anche il reato di "intestazione fittizia" di beni, in riferimento all’esercizio commerciale "Pane Pizza e Fantasie" s.r.l., già sequestrato il 19 dicembre 2011, e di proprietà formale degli anziani zii materni del latitante, Maddalena Martino e Giuseppe Martino. Secondo i magistrati della Dda, l’attività, del valore di circa un milione di euro, farebbe invece capo a Giuseppa Condello, moglie di Antonino Imerti, alias Nano feroce. Nel corso dell’operazione sono stati sottoposti a sequestro anche le autovetture e i motocicli utilizzati dal gruppo di persone che gestivano la latitanza di Condello, per un valore complessivo di euro 100.000,00.

marzo 13, 2012   Commenti disabilitati su Micu u pacciu, smantellata la rete dei fiancheggiatori

Il padre degli africoti

http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1492.pdf

marzo 12, 2012   Commenti disabilitati su Il padre degli africoti

“Megghiu na figlia morta i na figghia disonorata”

C’è un tempo per ribellarsi e c’è un tempo per tacere.
Lo hanno capito bene le donne del Sud, della Calabria, costrette per secoli ad abbassare la testa a padri, fratelli, mariti, sempre ristrette nella vita intra familiare, fatta di doveri, legami ed obbedienza. Il tempo del silenzio è finito per Lea Garofalo, Giuseppina Pesce e Cetta Cacciola, donne di ‘ndrangheta, ma anche per Anna Maria Scarfò e Simona Napoli, giovani calabresi tenute a bada dalla famiglia e dal paese.
Ci vuole coraggio a ribellarsi, a rompere quelle regole del primo, forte, nucleo che è la famiglia, che qui al Sud, si allarga ed è clan.
Cercano la libertà queste donne ma sono vincolate dall’onore. E’ così anche per Simona Napoli, l’ultima dell’elenco di una cronaca fatta di morte e violenze. E’ madre e moglie Simona, ma è soprattutto una giovane donna di 24 anni che trova una via d’uscita sul web. Conosce l’amore attraverso le pagine di Facebook, un amore clandestino per Melicucco, un paesino della Piana di Gioia Tauro, è disonore. Il marito di Simona lavora al Nord ma sa bene che a tenere a bada la giovane donna ci sono il padre e il fratello. Tocca a loro proteggere l’onore e così quando il padre Antonio e il fratello Domenico la sorprendono in casa con il giovane amante Fabrizio Pioli, la vendetta è presto consumata. Fabrizio scappa, cerca la via di fuga sulla strada dei Due Mari a bordo della sua Mini nera. Padre e fratello lo inseguono e lo fermano. Li vede discutere sulla macchina Simona, che nel frattempo li ha raggiunti, vede con i suoi occhi il padre minacciare Fabrizio, ha la pistola in pugno e grida.
Capisce in fretta Simona cosa fare, sa bene che ha solo una possibilità. Prosegue dritto fino a Gioiosa Ionica: lì contatta i carabinieri, ai quali porge denuncia nei confronti del padre e del fratello. Simona non fa più ritorno a casa, per lei atta l’immediata protezione delle forze dell’ordine. Non vedrà più neanche il suo bambino di appena quattro anni così l’uomo che ama Fabrizio, ucciso.
Questa è la storia agghiacciante che emerge dai documenti della Procura di Palmi. Il cadavere di Fabrizio non è stato ritrovato, tuttavia l’imputazione per l’omicidio è stata formalizzata dagli investigatori per via di un colloquio, captato nella caserma dei carabinieri di Gioia Tauro, tra Domenico Napoli e il marito di Simona, Vincenzo Curinga.
Curinga chiede al cognato che fine abbia fatto Pioli, e quest’ultimo gli risponde.

VINCENZO: U pà? (Il papà)
DOMENICO: iu u cercanu u terrenu pe mmu iettunu

Addirittura Curinga chiede a Napoli le modalità della morte di Fabrizio Pioli, quest’ultimo fa il gesto della pistola e indica la base del cranio.

L’onore è stato salvato, padre e figlio hanno lavato con il sangue il peccato di Simona, per la logica del clan, sono stati “veri uomini”, perché per loro – come ha dichiarato Simona ai carabinieri – “Megghiu na figghia morta i na figghia disonorata”.
Simona, invece, ha scelto di essere libera, di parlare, e presto dovrà testimoniare nelle aule di tribunale contro i suoi familiari.
In questa terra ancestrale il tempo scivola lento e così trent’anni sono certo un battito di ciglia pressoché impercettibile per cambiare il sentire, eppure tanti ne sono passati da quel 5 agosto del 1981, quando fu approvata la legge n. 442 che abrogò l’onore come movente attenuante nell’omicidio di coniuge, figlie e sorelle.
Il codice penale, derivante dal Codice Rocco, fino al 1981, dunque, con due articoli sanciva il “futuro delle donne”: gli articoli 587 per il delitto d’onore e il 544 per il matrimonio riparatore. Il primo permetteva ai giudici di comminare pene lievi (dai 3 ai 7 anni), diminuibili fino a un terzo, per mariti, fratelli, padri che uccidevano donne di cui avessero scoperto gli atti sessuali "illegittimi", e gli uomini con cui queste fossero "illegittimamente" coinvolte. Il secondo permetteva a un uomo che avesse stuprato e/o rapito una donna, o una ragazza anche minorenne, di potere successivamente sposarla e ottenere così di cancellare il proprio reato, contando sul consenso di genitori preoccupati di restaurare l’onore della figlia e della famiglia.
Antonio e Domenico Napoli, dunque, adesso dovranno rispondere davanti alla legge, senza attenuanti, ma loro dietro le gabbie avranno lo sguardo fiero di chi ha fatto la cosa giusta.
Proprio per questo adesso è il tempo di sostenere la ribellione di queste donne, di sostenere questo nuovo sentire, per dare la forza al cambiamento. Lo hanno capito anche nella Piana dove la cittadinanza si è mobilitata, scendendo per le vie del paese con una fiaccolata, per chiedere che venga ritrovato il corpo di Fabrizio, e per chiedere soprattutto di non tacere. Così il sindaco Bellofiore ha rivolto “un appello accorato a tutti coloro i quali abbiano visto qualcosa per sapere cosa sia successo a Fabrizio”. Forti anche le parole del vicario generale della diocesi e responsabile di Libera, don Pino De Masi.”Siamo qui – ha detto don De Masi – non tanto per esprimere solidarietà, ma per una presa d’atto della nostra responsabilità di non essere riusciti a costruire città libere, libere dai pregiudizi, città dove ci sia maggior rispetto per la vita delle persone e per le persone. Nello stesso tempo la nostra presenza vuole essere un impegno preciso a traghettare questi nostri territori verso la normalità. Un appello voglio fare a chi sa e non sta parlando perché dica come stanno le cose. Lo chiedo in nome di Dio e del rispetto della vita umana”.

marzo 7, 2012   Commenti disabilitati su “Megghiu na figlia morta i na figghia disonorata”

Crimine, la ‘ndrangheta è una e una sola

Scusate il ritardo, verrebbe da dire se la cosa non fosse oltremodo seria. In pochissimo tempo, dopo anni di oblio, s’alza finalmente il velo sulla realtà ‘ndrangheta. Per scoprire quello che, in fondo, tutti sapevano, quello che pervicacemente è stato negato per lungo tempo. Con l’operazione Crimine la Dda di Reggio Calabria nell’era Pignatone dimostra definitivamente, e al di là del dato giudiziario, che la ‘ndrangheta ha una struttura di comando, la Provincia, che tutto orienta e a cui tutti fanno capo, dal Canada all’Australia passando per l’Europa e il Nord Italia. Il fatto che l’inchiesta Crimine abbia urlato quello che fino a ieri si diceva tutti a bassa voce non ne sminuisce l’importanza storica. Anzi.

Come è ovvio, la testa del serpente sta in provincia di Reggio Calabria, tra il capoluogo, la Piana di Rosarno e la Locride di Polsi, San Luca, Siderno e Africo. E come è ovvio c’è un capo dei capi. È rimasto deluso solo chi si aspettava un padrino alla Marlon Brando. Il capocrimine Mico Oppedisano girava invece in motoape e non passava le sue giornate in una villa alla Scarface, ma nel suo agrumeto. Modernità liquida. Perché come nelle grandi società le cosche azioniste eleggono ogni anno le cariche del loro cda, in base ai rapporti di forza delle varie cordate che, come in tutte le organizzazioni, lottano tra di loro per il potere ma che sanno trovare una sintesi nel nome della prosperità collettiva. Ecco perché don Mico, uomo di pace fissato con le regole e le prescrizioni, memoria storica dell’onorata società, è più adatto a governare il buon andamento dell’impero criminale. È questa la forza della ‘ndrangheta: al contrario della politica e dell’associazionismo riesce a trovare l’unità, a tutelare la propria identità pur facendo i conti con i mutamenti sociali, a rinnovarsi nella tradizione. Uno smacco per tutti noi.

Non è la prima volta che si parla di Provincia, di Crimine, di mandamenti, cariche, gradi superiori, summit e quant’altro. A ben vedere è tutto scritto nelle carte del processo alla ‘ndrangheta di Montalto, che data 1970. Anche dal processone De Stefano+59 emerge l’esistenza di un qualcosa che governasse le cosche. Tanto che da quel procedimento, decisamente fallito, il legislatore ha saputo finalmente trarre una lezione importante: nasce così il 416 bis, il reato di associazione mafiosa. Che cosa fosse diventata la ‘ndrangheta ha provato a spiegarlo sin dal 1983 il superpentito rosarnese Pino Scriva. Il "re delle evasioni" ha parlato della Santa, dei vertici, dei mandamenti. Ai magistrati che ne hanno raccolto le dichiarazioni, il primo collaboratore calabrese ha consegnato una metafora perfetta: la ‘ndrangheta è come i carabinieri, ci sono le stazioni, le compagnie, i comandi, ma la famiglia è sempre la stessa. Il "tragediatore", come lo chiamavano i nemici ‘ndranghetisti, il "Canta Calabria", come lo descrivevano i loro avvocati, non ha avuto la stessa fortuna del coevo Tommaso Buscetta e la prima stagione del pentitismo calabrese è naufragata, pur portando a casa decine di ergastoli in processi epocali come quello alla "Mafia delle tre province".

Anche la seconda stagione, quella del maxiprocesso Olimpia, s’è impantanata nelle aule di giustizia: le condanne sono arrivate, ma non il pronunciamento finale sull’esistenza della cupola. Eppure pentiti del calibro di Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca hanno descritto le origini della Santa, l’accostamento delle cosche alla massoneria, la suddivisione in società maggiore e minore, l’esistenza dei mandamenti. Hanno anche parlato di un organismo di vertice, una Cosa nuova nata dopo la grande guerra degli anni ’80. È quel qualcosa che emerge anche nella sentenza del procedimento Armonia, pur non sufficientemente provato secondo i giudici dell’epoca.

E così la ‘ndrangheta, che già dai primi anni ’90 viene definita dagli esperti come la più aggressiva e pericolosa delle mafie, entra nel nuovo millennio mantenendo un’aura di invincibilità. Diventa la più forte essendo la meno conosciuta. Per un decennio, va detto, ci si accontenta della versione minimalista: nessuna indagine punta a svelare i meccanismi di quel qualcosa che pur nei decenni è rimasto costante e che, addirittura, gli scrittori del Dopoguerra descrivono sin nei minimi dettagli. La verità è che il Crimine c’è sempre stato. Tocca a tutti noi, adesso, fare in modo che questa verità resti tale.

marzo 7, 2012   Commenti disabilitati su Crimine, la ‘ndrangheta è una e una sola

L’unità della ‘ndrangheta da Montalto a Crimine, 40 anni di tentativi

REGGIO CALABRIA – "Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si dev’essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va" (Summit di Montalto, Peppe Zappia, 26 ottobre 1969).

"Con l’avvento della Cupola si poteva tenere a stretto contatto tutte le famiglie e avere il pieno controllo del territorio e di tutte le attività illecite (…) della ‘ndrangheta nell’intera provincia e neanche…non solo in Italia, ma anche all’estero" (inchiesta "Olimpia", Filippo Barreca, 10 ottobre 1997).

"Siamo tutti uomini dello stesso modo…siamo tutti del crimine…criminali" (inchiesta "Armonia", intercettazione 28 maggio 1998).

"Nessuna persona può agire per dire…che non c’è il discorso unitario" (inchiesta Crimine, telefonata di Domenico Oppedisano, 3 luglio 2009).

Come un fiume carsico che nessuna sentenza ha portato in superficie, ipotizzata a più riprese e regolarmente bocciata nelle aule di Tribunale, l’unitarietà della ‘ndrangheta ha attraversato 40 anni di storia criminale calabrese e di maxi-processi contro le cosche. Definita, tutt’al più, come un’aspirazione strategica, un provvisorio momento di raccordo o una tendenza embrionale, l’organizzazione unitaria della ‘ndrangheta è finora sfuggita al riconoscimento più importante, quello del giudice. Non un semplice cavillo, o un astratto esercizio giuridico: certificare processualmente l’esistenza della ‘ndrangheta, e non doversi più accontentare, com’è avvenuto finora, di quella delle singole organizzazioni criminali "di tipo ndranghetistico" rappresenterebbe un passaggio dalle pesanti conseguenze. Permetterebbe, come rilevato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino nella requisitoria al processo Crimine, "di evitare il grave rischio di una visione parcellizzata, frammentaria e localistica della ‘ndrangheta, una visione che non ne ha fatto apprezzare la reale forza complessiva in termini di legami e connessioni con il mondo "altro", sia che si tratti di pezzi delle istituzioni, sia che si tratti di settori dell’imprenditoria, sia infine che si tratti di appartenenti al mondo della pubblica amministrazione o della politica". Ma sarebbe anche il traguardo di 40 anni di tentativi.

I primi processi – Al summit di Montalto, il 26 ottobre 1969, di unitario ci sono sicuramente lo spirito e l’invito del vecchio boss di San Martino di Taurianova, Peppe Zappia: "Si deve essere tutti uniti". I presenti arrivano da tutta la provincia. In settantadue, dopo il blitz delle forze dell’ordine guidato dal commissario Alberto Sabatino, finiranno accusati di associazione a delinquere di fronte al Tribunale di Locri. "La riunione tenutasi la mattina di domenica 26 ottobre 1969 in loc. Serro Juncari di Montalto, nel cuore dell’Aspromonte, fu certamente l’assemblea della malavita della provincia di Reggio Calabria, manifestazione tutt’altro che solitaria dell’attività illecita multiforme, tipica di quell’associazione articolata ed efficiente che è la malavita stessa" (sentenza del Tribunale di Locri del 2.10.70, pg.85). Una vecchia tradizione, quella degli incontri "plenari", utile a gettare le basi per quel "consorzio" o "federazione" delle cosche che il Tribunale di Reggio Calabria dà come elemento processualmente acquisito il 4 gennaio 1979. La sentenza è quella del processo ai "Sessanta" e i cognomi degli imputati – dai Piromalli ai Pesce, dai De Stefano ai Mammoliti – comprendono l’intera geografia criminale del Reggino. "Non è azzardato affermare – si legge nella sentenza – che esiste proprio una superassociazione per delinquere (società delle società) di cui proprio l’attuale processo ha registrato la presenza". Dunque, fatta salva l’autonomia e la sovranità territoriale delle singole cosche, e in risposta ai mastodontici flussi finanziari in arrivo verso la Calabria, negli anni Settanta la ‘ndrangheta getta le basi di stabili "sinergie criminali".

"Come i carabinieri" – Ascoltato nel dicembre 1984 dal sostituto procuratore Salvatore Boemi, il pentito o "meglio collaboratore della giustizia umana" Pino Scriva lamenta una certa difficoltà di comprendonio da parte dei magistrati. Gli ‘ndranghetisti? Come i carabinieri. Ci sono le stazioni, le compagnie, i comandi ma l’Arma resta sempre una. "Intendo a questo punto sottolineare un concetto da me più volte espresso e non ben recepito dai magistrati che hanno della ‘ndrangheta un’immagine non rispondente del tutto a quella reale – bacchetta il pentito rosarnese – Voi giudici parlate spesso di cosche (cosca Pesce, cosca D’Agostino…) divise e separate con riferimento agli ‘ndranghetisti. Questo è sbagliato. Io, al contrario, ho cercato di farvi comprendere che i mafiosi di uno stesso paese fanno parte di una stessa famiglia (…) come due o più carabinieri della stessa compagnia possono non andare d’accordo, ma non per questo fanno parte di due diverse associazioni divise e separate…".Ma Pino Scriva (le sue dichiarazioni sono alla base del maxiprocesso Giuseppe Piromalli più 138 noto come il processo alla "Mafia delle Tre Province" partito nel 1983 e arrivato a sentenza definitiva nel 1997), anche su questo, non sarà creduto.

Il maxiprocesso Olimpia – Sarà sempre attraverso le dichiarazioni di altri pentiti – Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca – che la Dda di Reggio Calabria cercherà di superare la lettura "federalista" della ‘ndrangheta, ipotizzando in sede processuale un’organizzazione verticistica dell’organizzazione criminale calabrese. Tra i capi d’imputazione contestati nell’inchiesta Olimpia ai boss del Reggino c’è anche quello di aver "promosso, costituito e composto, tra loro associandosi, un organismo decisionale verticistico all’interno della associazione mafiosa denominata "COSA NUOVA", avente il compito di assumere le decisioni più importanti nell’ambito della attività criminale di "COSA NUOVA", di risolvere le più gravi controversie insorte tra le varie cosche facenti parte della predetta, di tenere i rapporti con le altre organizzazioni criminali nazionali ed internazionali (…)". Ma "Cosa nuova" naufraga in aula: la Corte d’Assise (1999) e la Corte d’Appello (2001) non riterranno l’esistenza del superorganismo supportata da prove. Ci riproverà, la Dda di Reggio Calabria, con l’inchiesta "Armonia" concentrata sulle cosche della Locride e partita dalle indagini dedicate alla cattura del boss di Africo Peppe Morabito "Tiradrittu". Non avrà più fortuna. Anche questa volta l’ipotesi dell’esistenza di una cupola mafiosa (la Provincia) che sovrintende e dirige l’attività delle cosche non viene ritenuta sufficientemente provata. Nella loro sentenza del 2002, però, i magistrati della Corte d’Appello di Reggio Calabria offrono alcuni spiragli, "aprono" alla possibilità: "Quel "fenomeno evolutivo di tipo piramidale" di cui si parla negli atti giudiziari non consiste in un’elegante esercitazione dialettica, ma tratteggia invece, in maniera incisiva, un’allarmante realtà mafiosa in continuo divenire". Dunque un processo embrionale, ma non ancora realizzato.

CRIMINE – "Gli elementi acquisiti nel corso della presente attività di indagine – si legge nel decreto di fermo dell’inchiesta "Crimine" firmato dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Nicola Gratteri e dai sostituti procuratori Maria Luisa Miranda, Giovanni Musarò e Antonio De Bernardoconsentono di approfondire in maniera esaustiva "la questione fondamentale dell’unitarietà dell’organizzazione" e di affermare con certezza quello che già si era intuito nelle sentenze e nelle indagini finora analizzate: la ‘Ndrangheta è un’organizzazione unitaria governata da un organismo di vertice, la Provincia". Rischia di essere la volta buona.

marzo 2, 2012   Commenti disabilitati su L’unità della ‘ndrangheta da Montalto a Crimine, 40 anni di tentativi

Mafie a Milano, le mappe

http://www.stopndrangheta.it/stopndr/dettaglio.aspx?id=1441

febbraio 27, 2012   Commenti disabilitati su Mafie a Milano, le mappe

Dice no alla mafia sulla Statale della Morte: 5 arresti

REGGIO CALABRIA – Al giovane geometra siciliano sfugge l’andazzo calabrese. Da quando è a capo del cantiere mobile sulla statale 106 ha già ricevuto due diverse richieste di pagamento del “disturbo”. «Ma chi comanda qui, visto che già altri hanno detto di avere diritto?», ha pure avuto il coraggio di chiedere, con un po’ d’ironia. L’interlocutore, in quell’occasione, ha prima riso e poi, con infinita pazienza, ha spiegato: «Dal km 6 fino a semaforo di Pellaro è di competenza mia, dal semaforo di Pellaro fino al km 22 la competenza è divisa a metà tra la mia famiglia e un’altra famiglia, dal km 22 fino al km 31 la competenza è delle persone che hai incontrato la scorsa volta… Adesso andiamo da loro».

Ai lavori di manutenzione della statale Jonica, nel tratto compreso tra Reggio Calabria e Melito Porto Salvo, le cosche della ‘ndrangheta si erano preparate da tempo: venticinque chilometri da mettere in sicurezza, per un appalto dal valore complessivo di 14 milioni di euro, da dividersi nell’ “armonioso” spirito unitario evidenziato dall’inchiesta “Crimine”, ma anche nel rispetto dell’inviolabile principio della territorialità. L’ipotesi di finire denunciati non era stata ovviamente neppure messa in conto. E, invece, è stata proprio la ferma opposizione dell’impresa finita nel mirino a condurre al fermo di cinque presunti esponenti dei clan “Ficara-Latella” e “Iamonte”, accusati, a vario titolo, di associazione di stampo mafioso e tentata estorsione aggravata. Emessi dalla Dda di Reggio Calabria (procuratore capo Giuseppe Pignatone, sostituti procuratori Marco Colamonici e Stefano Musolino) ed eseguiti dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio, i provvedimenti hanno raggiunto Filippo Fontana (52 anni), Giovanni Gullì (34 anni), Salvatore Minniti (41 anni), Luigi Musolino (36 anni) e Domenico Musolino (36 anni), tutti soggetti già coinvolti in precedenti inchieste della magistratura.

Il rifiuto da parte dell’azienda di cedere alle richieste estorsive, la contestuale denuncia all’autorità giudiziaria e la successiva, piena collaborazione fornita nel corso delle indagini ha permesso alla Dda reggina di ricostruire, sequenza dopo sequenza, tutto il film di un’estorsione “mancata”. Le prime attenzioni sul cantiere della 106 si sono materializzate nel maggio 2011, a un mese e mezzo dall’inizio dei lavori di manutenzione da parte della Cogip spa di Tremestieri, aggiudicataria, insieme con la ditta Pavesi, dell’appalto dell’Anas. Avvicinato e “invitato” da Gullì ad un colloquio con “alcune persone”, il capocantiere incontra Fontana e Minniti nelle campagne di Melito Porto Salvo, territorio della cosca Iamonte, e viene ammonito senza troppi giri di parole: «Come mai i lavori sono iniziati senza le dovute presentazioni? Adesso dovete pagare il disturbo!». «Gli spiegai – riferirà il geometra ai carabinieri – che la ditta stava effettuando dei semplici lavori di messa in sicurezza di quel tratto di strada (…) mentre l’altra parte dei lavori a cui l’uomo faceva riferimento, erano relativi alla fase di ammodernamento e per il momento non erano di competenza della mia impresa. A questo punto la discussione si interrompeva e l’uomo mi diceva “Va bene geometra se mi dice così ci rifaremo sentire noi più in la”».

È solo una pausa di riflessione, necessaria a coordinare la strategia. A metà luglio le cosche tornano all’attacco. Un uomo, ancora non identificato, sbuca dalla campagna, irrompe nel cantiere e strappa gli attrezzi dalle mani degli operai: «Dite al geometra che deve mettere a posto la situazione prima di continuare i lavori». Il giorno seguente sarà Domenico Musolino, titolare di una ditta che noleggiava mezzi alla Cogip, a farsi ambasciatore del nuovo incontro. Gli interlocutori, però, sono cambiati. È Luigi Musolino, questa volta, a presentarsi come “referente di zona”. Il geometra non capisce, si chiede e domanda chi comandi in Calabria, ma è solo un momento: il tempo di un breve tragitto in macchina e sulla spiaggia di Annà, a Melito Porto Salvo, ritroverà tutti insieme, i vecchi e i nuovi presunti estorsori.

Secondo le ricostruzioni, la richiesta è a una sola voce:«per il quieto vivere» la Cogip spa deve versare 60mila euro, ovvero il 4% dell’importo complessivo dell’appalto. La risposta dell’azienda sarà “consegnata” il 26 luglio 2011: la Cogip non solo non pagherà ma denuncerà tutto ai magistrati. Non si tratta di una vuota minaccia da brandire come spauracchio. L’amministratore delegato dell’impresa si rivolgerà, in effetti, alla Dia di Catania che, per competenza, investirà la Dda reggina. Il geometra, dal canto suo, fornirà una preziosa collaborazione alle indagini, riconoscendo, uno per uno, tutti i cinque protagonisti del presunto tentativo estorsivo. Un contributo coraggioso. Soprattutto perché, dopo il “no” opposto alle cosche, qualcuno aveva manifestato il proprio “disappunto” piazzandogli una bottiglia piena di benzina accanto alla ruota dell’automobile. I lavori sulla statale 106 sono tuttora in corso.

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/statale-106#ixzz1nONM8efP

febbraio 24, 2012   Commenti disabilitati su Dice no alla mafia sulla Statale della Morte: 5 arresti