Category — le mappe
Un’oasi tra abusivismo, degrado e mega-progetti
REGGIO CALABRIA – Il parcheggio adiacente la pineta Zerbi, a Reggio Calabria, è una zona appartata, nascosta da occhi indiscreti; la strada che la costeggia scende a perdersi tra il porto e la vecchia stazione marittima, e sotto le passa la fiumara Annunziata che trascina verso il mare le porcherie della città. Quando fa buio lì dietro ci trovi prostitute, barboni e ubriaconi. Ma soprattutto prostitute. Giovanissime, quasi bambine. Prima che fosse interrata, lì sorgeva la stazione Lido i cui locali, una volta dismessi, sono stati concessi in affitto all’associazione Museo dello Strumento Musicale (MuStruMu) che dal 1996 conserva, valorizza e studia gli strumenti musicali provenienti da ogni parte del mondo. Col tempo si è anche saputo imporre, il Museo, come centro di aggregazione, una piccola oasi di bellezza che ha reso meno duro, con la musica, l’intrattenimento, la cultura e la socialità, il contesto urbano dentro il quale è sorto: un’area sospesa su equilibri delicati, votata al degrado, all’abbandono e sulla quale agli ambiziosi interessi urbanistici della città si stanno incrociando fatti di cronaca che fanno riflettere. All’alba del 4 novembre scorso, infatti, un incendio doloso ha distrutto il Museo e Reggio si è svegliata con un centro di aggregazione in meno e con qualche dubbio in più: che sia, anch’esso, il sintomo del malessere diffuso di un territorio che subisce quattro attentati in poco più di dieci giorni; che il rogo apparentemente inspiegabile non sia soltanto il gesto di balordi annoiati, ma un episodio da inserire in un contesto più ampio di fatti e situazioni che riguardano l’area sul quale sorge il Museo? Andiamo per tappe.
Regium Waterfront: la città del futuro – L’area che va dal porto cittadino al lido comunale si affaccia su uno dei paesaggi più belli del litorale, ma è anche una zona martoriata, architettonicamente anonima e confusa. E’ pieno centro eppure sembra di stare in periferia. Molte le strutture abbandonate o chiuse, altrettanti gli esempi di abusivismo edilizio. Un pezzo di territorio fortemente in degrado quello nel quale è collocato il MuStruMu, al centro di un progetto faraonico promosso nel 2007 dalla Giunta Scopelliti per costruire la città del futuro, un complesso di strutture civili avveniristiche per rilanciare Reggio e ricamarle addosso quel titolo, metropolitana, che oggi fa sorridere. La zona centro/settentrionale, che rappresenta solo una porzione di un piano ben più vasto, dovrà ospitare una serie di interventi riqualificativi della viabilità e il Museo del Mediterraneo, fiore all’occhiello del progetto che avrà forma di stella marina e che però porta insito già sulla carta il germe dell’abusivismo: sorgerà a due metri dalla linea di costa, praticamente sulla battigia. Tutto intorno, il progetto prevede la bonifica della fascia costiera; il recupero della spiaggia per la balneazione; la realizzazione di attrazioni turistiche e culturali; la realizzazione di parcheggi; l’estensione della pineta Zerbi. Un’opera ciclopica e avveneristica, firmata dall’architetto Zaha Hadid, di cui pochi sentono il bisogno e che da più parti è ritenuta inutile, se non addirittura dannosa. I mandati di esproprio sarebbero già pronti a partire per fare spazio ad altro cemento, ad altre speculazioni, alla città futura che non serve a nessuno.
É Hotel: il lusso è un abuso – Lungo lo stesso pezzo di litorale interessato dal Regium Waterfront, ed alle spalle del MuStruMu, c’è quello che resta della fatiscente arena Lido, un bellissimo teatro un tempo annesso al Lido Comunale, palcoscenico di tanti prestigiosi concerti e rappresentazioni ed ormai chiuso da quasi 30 anni. Un ricovero per drogati fasciato di lamiere. È la prima cosa che si incontra prima di imbattersi in una lussuosa struttura alberghiera, messa su in poco tempo, la cui insegna svetta sullo skyline cittadino, guardando verso nord. Si chiama "É Hotel" e da poco è stato raggiunto da un mandato di sequestro in quanto "struttura integralmente e radicalmente abusiva realizzata non solo in violazione di qualsiasi norma dettata dall’ordinamento in materia edilizia ed urbanistica, ma anche in sostanziale difformità del permesso di costruire, anch’esso illegittimo". Questo è emerso dal decreto di sequestro preventivo, firmato dal sostituto procuratore Matteo Centini, coordinatore dell’inchiesta sulla struttura, e totalmente accolto dal gip Massimo Minniti. Cose note, ripetutamente denunciate già dal 2006 da Legambiente Reggio che, nel quadro della campagna "Occhio alle coste", ha spesso sollevato l’attenzione sulle "tante e possibili violazioni di legge sul piano autorizzativo". A sette anni da quelle prime denunce, la magistratura fa i suoi passi apponendo i sigilli alla struttura che occupa – si legge ancora nella richiesta di Centini – "arbitrariamente il demanio marittimo, fluviale, stradale-comunale e ferroviario impedendone altresì l’uso pubblico". Un illecito commesso con l’avallo di funzionari comunali che non si sono fatti scrupoli a firmare le autorizzazioni piegando il loro dovere di amministratori della cosa pubblica agli interessi particolari di un soggetto privato. Per Centini "l’evidente abuso costituisce un atto di accusa ineludibile per le pubbliche amministrazioni coinvolte. L’ennesimo scempio per questo meraviglioso territorio è stato perpetrato con la complicità attiva […] di ogni singolo pubblico funzionario che aveva responsabilità nella gestione e tutela del territorio". Un illecito compiuto anche a scapito della pubblica incolumità in quanto: "tutte le autorizzazioni ottenute sotto il profilo del rispetto della normativa antisismica afferiscono alla realizzazione di una ristrutturazione di edifici già esistenti e non come è nella realtà, alla realizzazione di una nuova costruzione". Il verdetto del pm è schiacciante: quella che si presentava come una struttura di lusso è, in realtà, un ecomostro "da considerare non sanabile, allo stato attuale, e quindi da demolire". Insomma, sembra di essere ritornati agli anni Settanta e Ottanta della "città dolente" quando l’urbanistica reggina finì mani e piedi dentro un pantano di corruzione e collusione, quando i funzionari comunali firmavano autorizzazioni a man bassa in cambio di favori e prebende e intanto la città soccombeva sotto infinite colate di cemento. Da quella stagione, forse, la città non è mai riuscita a venire fuori davvero. Il presente parla chiaro: oggi Reggio sembra una città disorientata, senza punti fermi né riferimenti istituzionali. Un’eterna promessa di progresso rimandata giorno dopo giorno, in caduta libera verso il disordine sociale e verso un abbrutimento estetico, spia e risultato di un abbrutimento morale. Dove la bellezza non si protegge perché, forse, non si è più in grado di distinguerla.
Vedi la galleria fotografica
novembre 14, 2013 Commenti disabilitati su Un’oasi tra abusivismo, degrado e mega-progetti
Assedio alla cultura: la cronaca di 3 anni di roghi
REGGIO CALABRIA – I cittadini di Reggio Calabria sono abituati al fuoco, quello che divampa nei giorni assolati d’estate sulle colline che circondano la città (uno degli ultimi e più terribili quello che distrusse la meravigliosa – e troppo attenzionata dai gruppi affaristici – collina di Pentimele nell’agosto 2012) e quello che sale di notte, tra le strade cittadine, che brucia, che tenta di annientare. Roghi che vogliono far paura, dare segnali, inviare messaggi. A bruciare, però, negli ultimi tre anni, non sono solo esercizi commerciali o beni immobili confiscati. Almeno dal 2011 a bruciare, in una strana ed inquietante scia che puzza di benzina, sono i luoghi della cultura e della resistenza, spazi reali dove si crea, si condivide, si contesta e si costruisce. Luoghi nodali, evidentemente scomodi.
10 agosto 2011, lido di Bandafalò: il lido da anni era il punto di riferimento per giovani e meno giovani attirati dalla piccola spiaggia in località Porticello di Villa San Giovanni, recuperata e gestita dai ragazzi dell’associazione Bandafalò. Nelle sere d’estate per i giovani della costa tirrenica era facile incontrarsi tra le sdraio riciclate per ascoltare gruppi etnici o affrontare un confronto politico con gli amici di sempre e con gli avventori casuali. Luogo di incontro. Un luogo diverso. Nella notte tra il 10 e l’11 agosto 2011 le strutture del lido, che erano state sottoposte a sequestro dalla magistratura reggina già il 10 giugno dello stesso anno, vanno a fuoco. Un rogo apparentemente indecifrabile, dato che la struttura era stata già praticamente messa fuori gioco dall’indagine giudiziaria. Poche piste. Nessun colpevole.
14 maggio 2012, C.S.O.A. Angelina Cartella: 10 anni, tanto è il tempo che è servito a qualcuno per maturare la convinzione che il Centro Sociale Occupato ed Autogestito "Angelina Cartella" dovesse finirla di occupare, a Gallico, nella zona nord della città, quella villetta che era stata recuperata e riportata a nuova vita culturale. Quel gruppo di attivisti che avevano creato un luogo di incontro in un’area di fresca e costante urbanizzazione, dovevano ricevere un segnale chiaro. La notte del rogo arrivano sui cellulari e presso le utenze private di alcuni di loro delle telefonate anonime. Nelle stesse ore la struttura centrale del C.S.O.A.- diventata sede negli anni di spettacoli teatrali, presentazioni di libri, dibattiti e confronti politici- veniva distrutta dalle fiamme. All’alba, domato l’incendio, si scoprono svastiche e scritte neo fasciste. Il centro sociale, pur privato del suo bene comune, non si ferma. Solo un mese dopo l’incendio saranno centinaia di volontari a ripristinare gli spazi.
9 maggio 2013, Orto Botanico: Per anni i cittadini di Reggio avevano dimenticato di avere un Orto Botanico. Molto più celebre e decantato quello della dirimpettaia Messina. Eppure anche nella zona sud del capoluogo calabrese – sul viale Calabria, di fronte all’aula bunker – esiste una struttura di questo tipo, resa ancora più preziosa dalla presenza al suo interno di una palazzina dei primi del ‘900. Dopo anni di oblio, il 30 luglio 2013, la Camera di Commercio di Reggio Calabria – che detiene la struttura attraverso la sua azienda speciale Stazione sperimentale per le industrie delle essenze e dei derivati dagli agrumi (SSEA) – stipula un protocollo di intesa con l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, al cui dipartimento di Agraria viene affidata la riqualificazione del gioiello naturalistico. La notte tra il 9 ed il 10 maggio però all’interno della struttura si sviluppa un incendio le cui fiamme vengono domate grazie all’intervento dei vigili del fuoco allertati dai vicini. La palazzina Liberty è salva, lo sono anche alcune delle piante più antiche e preziose. A detta dei responsabili i lavori di recupero sono ripresi regolarmente dopo l’accaduto. Anche in questo caso si tratta di una zona delicata della città. Gli interessi sono vari e molteplici. Allo stato attuale – per un incendio presumibilmente di origine dolosa – non vi è notizia di alcuna precisa pista investigativa.
15 maggio 2013, Chiesa Ortodossa di San Paolo dei Greci: A Sbarre, popolare e popoloso quartiere della zona sud della città di Reggio, protagonista a suo tempo della rivolta del ’70 (in quei giorni nascerà tra il rione pescatori ed il rione ferrovieri la Repubblica di Sbarre), sorge da alcuni anni una chiesa ortodossa, costruita per iniziativa del Sacro Monastero del Paracleto (Oropo d’Attica) e di benefattori greci che hanno raccolto i fondi necessari. Il suo parroco, il Protopresbitero Daniele Castrizio, è un uomo che la cultura la fa e la tramanda. Eloquio diretto ed elegante al tempo stesso, riesce con poche parole a trasferirti il senso dei corsi e della memoria storica di questa Calabria. In pieno giorno e durante la funzione della domenica alcuni locali della Chiesa vanno a fuoco (nella foto). ”Questa città è bravissima a gettare fango su sé stessa – il commento di Castrizio – Non vogliamo niente da nessuno ma la città non può lasciare i suoi figli in questo modo nell’ignoranza e nell’anarchia totale. Come si può parlare bene di una città che brucia le chiese? Credo che sia il caso di dare un segno, non per la Chiesa Ortodossa, ma per noi stessi, per i reggini, per avere la possibilità di rialzarci”. Negli anni si erano verificati anche altri piccoli atti di danneggiamento. Tutti segnali che confermerebbero la matrice dolosa dell’accaduto. Anche in questo caso, nonostante le circostanze, poche le piste ed ancora nessun indiziato.
3 novembre 2013, Museo dello strumento musicale: La zona del lungomare Italo Falcomatà di Reggio Calabria è il salotto buono della città. Decantata e celebrata da intellettuali del calibro di D’Annunzio e Pascoli, è anche stata costantemente sotto l’occhio dei riflettori degli affaristi che cercano di sfruttarne al massimo grado le potenzialità economiche in una città che si è riscoperta dalla forte "vocazione" turistica. Il 29 ottobre 2013 la Procura di Reggio Calabria dispone il sequestro dell’E’ Hotel, una lussuosa struttura affacciata direttamente sul mare e costruita – a parere del Gip che convalida il sequestro- in totale difformità rispetto alle prescrizioni normative e al permesso di costruire rilasciato ad una nota ditta cittadina. Dalla pineta Zerbi – un piccolo polmone verde che in orari notturni si trasforma in luogo di traffici e prostituzione – si intravede sullo sfondo la mastodontica insegna del complesso alberghiero. E su quella stessa pineta si affaccia il Museo dello strumento musicale. La struttura ospitata in un edificio di proprietà delle Ferrovie dello Stato era stata assegnata all’associazione culturale "Museo dello strumento musicale", che lì ha dato vita dal 1996 – con fondi esclusivamente privati- ad una collezione di raro pregio che affianca agli strumenti classici antichi quelli provenienti dal mondo globale e quelli della tradizione musicale calabrese. Un autentico tesoro, reso ancora più prezioso dalle attività che Mu.stru.mu realizza all’interno di quello spazio aperto e comune: corsi di musica e di ballo tradizionale, proiezioni cinematografiche, incontri e concerti. Anche questo un luogo di incontro e condivisione. Uno spazio diverso per una città troppo spesso affetta da apatia culturale. Nella notte tra il 3 ed il 4 novembre, ignoti appiccano un incendio che manderà in fumo centinaia di strumenti, alcuni libri antichi conservati nella biblioteca e le foto storiche, oltre a danneggiare seriamente la struttura. Ma il Museo vive. I cittadini accorreranno già all’assemblea che verrà convocata per il 4 novembre nel pomeriggio. Sono presenti anche le realtà che erano state colpite da episodi simili negli anni precedenti. Si fa rete perché si è consapevoli che questi attacchi colpiscono al cuore ogni individuo libero. Viene lanciata la campagna Suona reggio suona che il 16 novembre porterà in piazza i cittadini che amano la musica libera. Ma soprattutto il Museo non ferma nemmeno un giorno le proprie attività: gli strumenti superstiti prendono vita già nelle prime ore dopo l’incendio e decine di volontari si danno il cambio per ripulire i tesori rimasti e ripristinare la struttura. Uno spettacolo vivente, il potere della musica che unisce e resiste.
Perché Reggio Calabria è anche questo. La città dei mille fuochi, degli incendi dolosi senza colpevole e dei pacchi bomba misteriosi spesso sa anche esprimere l’alternativa. Nelle stesse ore in cui i cittadini volontari rispristinano il Museo dello strumento musicale, dall’altra parte della città, l’associazione Pagliacci Clandestini- Freckles – che da anni usa le arti clownistiche come strumento di resistenza culturale- decide di compiere un passo avanti nella valorizzazione dei beni pubblici e nella creazione di spazi comuni. L’emeroteca costruita dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria in via Palmi (zona sud della città nei pressi del già citato Viale Calabria) e mai entrata in funzione, dall’8 novembre scorso è sede delle attività del gruppo a seguito di un’occupazione simbolica. La magia che si sta compiendo parte dal coinvolgimento della comunità che ha affiancato, insieme a decine di realtà cittadine, i pagliacci nelle attività di pulizia esterna dello stabile. In questi giorni la parola passerà nuovamente alle istituzioni: sarà compito della triade commissariale completare la procedura di affidamento del bene. Quello spazio finalmente potrà essere vissuto e reso pubblico. I Pagliacci Clandestini ci metteranno il loro spirito, ma è ai cittadini delle case popolari che circondano il bene comunale che chiederanno di essere protagonisti.
novembre 12, 2013 Commenti disabilitati su Assedio alla cultura: la cronaca di 3 anni di roghi
Dormono sulla collina – il dossier
Reggio Calabria – Un’umanità meschina, per indole, passioni e morte. E una collina, quella del cimitero reggino di Condera, da cui si levano i suoi autoepitaffi intrisi di amara ironia. E’ una Spoon river tragicomica, proliferata all’ombra o nel ventre della ‘ndrangheta, quella che Dario Nunnari ha composto sul modello della celebre Antologia di Edgard Lee Masters, e dell’altrettanto famosa traduzione musicale di Fabrizio De Andrè ("Non al denaro, non all’amore né al cielo",1971).
La sua "Antologia ru cimiteru ‘i Cundera", curata da Stopndrangheta.it (progetto grafico di Rossana Melito) e qui pubblicata, è il cuore di una più ampia riflessione dedicata alle potenzialità del riso, come strumento di contrasto ad ogni sistema di potere ed autorità. Compreso quello ‘ndranghetista. "Il riso si insinua nelle crepe di un potere che ama presentarsi come assoluto e monolitico e lo decostruisce pezzo per pezzo, evidenziandone limiti e contraddizioni e mettendone in discussione gli stessi fondamenti", ci ricorda Chiara Tommasello nella sua analisi dedicata alle varie teorie sul comico ("Una risata per seppellire la ‘ndrangheta"). La sfida è chiara: se il potere mafioso è anche questione di immaginario, è sul quel campo che tocca scendere con tutte le armi della cultura, smontando la rappresentazione "epica" alimentata dalla stessa ‘ndrangheta e mostrando, attraverso la risata, che il boss è nudo e al camposanto ci va ormai accompagnato solo dagli odiati "sbirri" (Cristina Riso, Boss e funerali, questione di potere).
Poesia, fotografia (la galleria firmata da Romina Arena), ricostruzioni giornalistiche, analisi. Come sempre abbiamo utilizzato molti "linguaggi" per parlare con più forza. E, come sempre, abbiamo scelto di puntare sulla creatività e sull’arte, affidandoci ai versi del reggino Dario Nunnari, un professore-poeta con il vizio dell’ironia (intervista di Patrizia Riso) che, con l’Antologia ru cimiteru i’ Cundera e per noi di Stopndrangheta.it, oggi fa uscire per la prima volta dai cassetti i suoi componimenti in dialetto calabrese. Una scelta di cui, siamo certi, gli saranno grati in tanti.
Antologia ru cimiteru i’ Cundera di Dario Nunnari
Un professore-poeta con il vizio dell’ironia di Patrizia Riso
Una risata per seppellire la ‘ndrangheta di Chiara Tommasello
Boss e funerali, questione di "potere" di Cristina Riso
Antologia ru cimiteru i’ Cundera (le foto) di Romina Arena
novembre 2, 2013 Commenti disabilitati su Dormono sulla collina – il dossier
Una risata per seppellire la ‘ndrangheta
REGGIO CALABRIA – Sul principio del comico, ovvero sulla capacità di ridere e far ridere intesa come tratto distintivo della natura umana, hanno riflettuto nel tempo pensatori, drammaturghi e critici. In letteratura, la tradizione dello sberleffo è antichissima e le commedie del greco Aristofane (V sec. a.C.) rappresentano già un chiaro esempio dell’ironia utilizzata come arma per ristabilire l’ordine, per condannare, ridicolizzandoli, i vizi dei potenti e, più in generale, tutti quei comportamenti che si discostano dalla consuetudine e dalla morale, da quel complesso sistema di valori sul quale si struttura ogni società umana. L’interpretazione fornitaci da Henri Bergson sul principio del riso, come anche l’analisi operata da Italo Calvino sul tema della satira, inquadrano l’elemento ironico esattamente in questa prospettiva, cioè come strumento al servizio di istanze moralizzatrici e conformiste, volto ad evidenziare e deridere ciò che si discosta dalla norma e, per ciò stesso, all’apparenza bizzarro e in qualche modo deviato.
Tuttavia, il principio del comico può anche essere, e di fatto lo è stato, analizzato sotto un’altra luce, in una prospettiva più radicale e certamente più affascinante, all’interno della quale il riso non si limita ad operare al servizio della morale costituita, ma esercita sulla società un potere molto più forte e dalle grandi potenzialità eversive. Ciò accade quando il riso assume come bersaglio gli stessi fondamenti dell’ordine sociale e le strutture di potere che esprimono tale ordine. Giocando su doppi sensi, paradossi, finali inattesi e svolte imprevedibili, i momenti di comicità arrivano a mettere in discussione l’intero sistema valoriale e contemporaneamente creano, per il solo fatto di immaginarli, altri mondi possibili. Il senso del carnevalesco e la fondamentale e millenaria importanza che questo ricopre in seno alla cultura delle classi popolari europee è l’esempio più lampante della capacità rivoluzionaria e sovversiva del riso. Il riso è consapevolezza della precarietà ed incompiutezza dell’esistente, ed allo stesso tempo è apertura a nuove possibilità. È precisamente questo il tipo di comicità che rintracciamo, ad esempio, nelle opere di Rabelais e Cervantes, che tanto si sono ispirate all’immaginario popolare. Così inteso, il riso è, per dirla con Bachtin, una cosa estremamente seria ed importante, è forza ed è salvezza. Si insinua nelle crepe di un potere che ama presentarsi come assoluto e monolitico e lo decostruisce pezzo per pezzo, evidenziandone limiti e contraddizioni e mettendone in discussione gli stessi fondamenti.
La ‘ndrangheta è una struttura di potere. Essa esercita la propria autorità tanto sul piano fattuale, mediante il ricorso sistematico alla violenza e alla coercizione, quanto sul piano simbolico, mediante la creazione di un immaginario di riferimento all’interno del quale si configura e si autorappresenta come un’entità terribile, forte, opprimente, invincibile e compatta, quasi epica. Sfatare questo mito è l’operazione più importante che possiamo intraprendere per sconfiggere la ‘ndrangheta sul piano simbolico, livello dal quale, almeno al pari dell’altro, essa trae il proprio alimento e la propria forza. Demitizzare l’immaginario ‘ndranghetista è esattamente ciò che fa Dario Nunnari con l’ "Antologia ru cimiteru i Condera". In ognuno dei componimenti viene delineata una figura, un "tipo" appartenente all’immaginario collettivo, oltre che alla realtà concreta, del nostro contesto sociale. Il bombolaro incendiario, il latitante che uccide la propria moglie perché infedele, il politico corrotto sono tutte maschere che personificano vizi, comportamenti, codici di una mentalità ‘ndranghetista ma che trascende anche l’ambito strettamente mafioso per estendersi a tutti quei settori della realtà sociale dominati dal qualunquismo e dal malaffare. È per questo motivo che tali figure ci risultano familiari, verosimili, dotate di un’evidenza quasi materiale. Mediante il ricorso sistematico al paradosso, l’autore fa sì che questi personaggi rimangano vittime dei loro stessi vizi, della loro stessa violenza, arroganza e presunzione. Utilizzando inoltre la prima persona sul modello dell’Antologia di Spoon River, lascia che siano loro stessi a presentarsi come potenti, granitici, indistruttibili per poi farli implodere dopo pochi versi e lasciarli sepolti sotto il peso delle stesse proprie meschinità. Ed è così che il bombolaro può rimanere vittima di un incendio ed il temibile camorrista può morire per un semplice, banale errore di distrazione. È pur vero che si tratta sempre, come già sottolineato, di una serie di paradossi. La realtà è molto diversa e noi ne siamo consapevoli, e infatti il riso, alle volte, è amaro. Perché la ‘ndrangheta è una cosa seria. Ma è proprio per questo che dobbiamo riderne.
ottobre 28, 2013 Commenti disabilitati su Una risata per seppellire la ‘ndrangheta
Un professore-poeta con il vizio dell’ironia
Reggio Calabria – Una raccolta di componimenti satirici che, sul modello dell’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters, racconta la vita e, soprattutto, la morte niente affatto gloriosa di uomini e donne gravitanti attorno al pianeta ‘ndrangheta. E’ questo l’Antologia ru cimiteru i Cundera di Dario Nunnari, trentaquattrenne professore (precario) reggino, che nel tempo libero, e solo sotto ispirazione, compone poesie e poemetti in dialetto calabrese finora rigorosamente tenuti nel cassetto. Originario e orgogliosamente residente a Mortara di Pellaro, nella zona sud della città, dopo il liceo classico "Tommaso Campanella" Nunnari ha proseguito gli studi all’Università di Messina, presso la facoltà di Lettere Classiche, e oggi insegna al liceo La Cava di Bovalino, oltre a collaborare con il comitato territoriale Arci Reggio Calabria, organizzando da due anni i "Campi della Legalità".
La prima domanda è d’obbligo: com’è nata l’idea dell’Antologia?
"Direi per caso. Qualche tempo fa avevo discusso con un’amica giornalista della possibilità, e dell’utilità, di un’operazione di demitizzazione, attraverso la risata, dell’immaginario ‘ndranghetsita. Un giorno ero a casa e mi è passata tra le mani l’Antologia di Spoon River, ho guardato la copertina e ho ricordato una lapide simile nel cimitero di Reggio che vedevo spesso. Quindi automaticamente è nata l’associazione Spoon River/cimitero di Condera, con personaggi reggini ovviamente".
I personaggi che descrivi si muovono in un contesto criminale ma non rispondono al consueto immaginario ‘ndranghetista: sono imbranati, sfortunati, ridicoli.
"Hanno difetti, debolezze, incertezze e insicurezze comuni a tutti, è lo stesso campionario proprio del resto dell’umanità. Sono perfettamente umani".
Risulta difficile, data l’originalità dell’opera, associarla o identificarla con un determinato genere. C’è un autore, magari calabrese, nel quale ti ritrovi particolarmente?
"Nel momento in cui scrivo non è facile catalogarle (le poesie, ndr), poi dall’esterno, e a lavoro ultimato, penso che si tratti di sonetti satirici. Per quanto riguarda le suggestioni credo si parta dalle pasquinate latine per arrivare a Nicola Giunta, da La Cava stesso ad alcuni bozzetti di Calvino. Non riconosco solo un autore, le suggestioni sono tante. Ci sono molti elementi che mi vengono in mente dopo, non nel momento in cui scrivo. Poi, rileggendomi come se fosse l’opera di un’altra persona, emerge un’analogia con qualcosa letto in precedenza".
Sia l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che l’album di Fabrizio De Andrè "Non all’amore non al denaro né al cielo", trasmettono una malinconia profonda e affascinante. Tu invece punti sulla risata. In che modo ti hanno ispirato le due opere?
"Ho sempre provato, partendo da un modello, a trasferirlo al mio contesto. Per esempio, ho dedicato a Berlusconi un poemetto ispirato all’Orlando furioso, mantenendo un tono molto ironico. Oppure un’altra opera sul modello della Divina Commedia, ma molto più breve ovviamente. In quanto all’ironia, sarà un atteggiamento superficiale, moralistico o una qualche forma di autogiustificazione, ma non riesco a guardare che in questo modo, mi viene naturale. Forse è un limite".
Hai scelto di creare dei tipi e non di fare riferimento a soggetti precisi e identificabili, ma anche senza far nomi, ci sono state delle storie che ti hanno colpito particolarmente ed ispirato?
"Mi hanno aiutato tanto i campi della legalità e alcune storie ascoltate dagli esperti che ci sono venuti a trovare: io comunque ho poca memoria e non ricordo tutti i riferimenti precisi, ma ci sono molti articoli letti chissà quando e sepolti, che poi vengono in mente quando cominci a scrivere. Questo processo creativo mi diverte moltissimo perché un po’ lo prevedo, un po’ lo assecondo. Ho lunghi periodi nei quali non ho niente da dire, però sento che cresce qualcosa dentro e a un certo punto viene fuori tutto in una volta in un periodo più o meno breve. Per esempio le prime cinque poesie dell’Antologia le ho scritte in poche ore, poi ne ho aggiunte altre nei giorni successivi".
Cosa puoi dire in più sul testo dell’Antologia, magari rispetto ad alcuni richiami particolari contenuti nel testo.
"Le simmetrie interne nascono quasi per caso. Ad esempio, solo dopo aver scritto "U surici orbu", mi sono accorto di quanto fosse incentrato sugli animali: ci sono u surici orbu, u rapinu (il falco), e a jaddhina (la gallina). Potrebbe sembrare una scelta, un qualcosa di costruito per descrivere un latitante che voleva volare come un rapinu, ma fa la fine misera della gallina cui tirano il collo. Oppure U iocaturi: la polizia che è pronta a "bussargli" sembra richiamare una mossa tipica del tressette, u bussu. Questo mi fa pensare, quando leggo le analisi del testo dei libri scolastici o di critica, a quanto effettivamente le stesse dinamiche siano capitate ad altri autori e che poi sono i critici a ritrovare le simmetrie e le architetture più strane. Ci può anche essere chi le costruisce appositamente ma forse il meccanismo artistico non è cosi artificioso".
Vediamo da vicino alcuni personaggi: in "don Mimì" delinei il profilo di un boss omosessuale, costretto a nascondersi e infine rassegnato al fatto che "l’amuri è sciarriatu cull’onori". È un’immagine particolare, davvero poco comune. Come l’hai elaborata?
"La suggestione diretta è venuta leggendo "La ‘Ndrangheta davanti all’altare" e poi confrontandomi con una amica e autrice del libro sulla difficoltà, all’interno del contesto ‘ndranghetista, di esprimere questi sentimenti".
Cosa direbbe "l’assessuri" se vedesse Reggio commissariata e sommersa dai rifiuti?
"L’assessuri probabilmente avrebbe contribuito al dissesto, morale, culturale e ambientale di Reggio, e oggi continuerebbe a difendere l’operato della sua giunta, della sua fazione politica".
I personaggi che descrivi sono come i riggitani cui si rivolge l’assessore, "servi e mai patruni"?
"Io i tipi ‘ndranghetisti li vedo come aspiranti padroni, con un’ambizione sfrenata di diventare padroni e di avere dei servi. La caricatura nasce da questo, dalla loro ambizione delusa che li porta a cercare il loro posto a discapito degli altri in modo cinico e prevaricatore. Un atteggiamento che spesso viene beffato dalla sorte come succede al Bumbularu o al compagno di Bastianu che si era dimenticato il freno a mano e resta schiacciato".
L’Antologia è completa o pensi che si aggiungeranno nuovi personaggi a quelli già esistenti?
"Di materia ce ne sarebbe tanta, quindi potrebbe esserci un volume II".
ottobre 28, 2013 Commenti disabilitati su Un professore-poeta con il vizio dell’ironia
Boss e funerali, questione di “potere”
Reggio Calabria – I morti di ‘ndrangheta non dormono in collina come quelli raccontati da Edgar Lee Master o cantati da Fabrizio De Andrè. Per una naturale legge del contrappasso le cosche non hanno mai conosciuto il suonatore Jones o quelli che, con lui, riuscissero a diventare esempi di una vita straordinaria nella propria normalità. Chi in vita esercita e si fa scudo del potere criminale muore da miserabile. La storia non lo ricorda, se non come pedina nello strano scacchiere della criminalità organizzata, il tavolo da gioco dove tutti saranno essere vinti ed apparenti vincitori. Anche i capi più potenti, i "supremi" in vita, da morti servono solo a delineare confini, a stabilire equilibri, a sancire cambi al vertice. È successo anche ai boss di ‘ndrangheta.
Antonio Macrì (nella foto accanto) è stato tra gli anni Cinquanta e Sessanta il boss indiscusso della Locride. Un capobastone vecchio stampo che ordinava uccisioni e ordiva intrecci criminali. Non solo, u zzi ‘Ntoni era un capo di caratura internazionale, con contatti in Canada, Stati Uniti e Australia, affiliato a Cosa Nostra e molto attento al rispetto del codice tradizionale della ‘ndrangheta. Fu lui, infatti, ad opporsi strenuamente al cambio di strategia criminale, al passaggio ai nuovi affari dei sequestri di persona e dei traffici internazionali di stupefacenti. Probabilmente anche per questo fu ammazzato. Era il 20 gennaio 1975 quando gli spararono contro decine di colpi di pistola, uccidendolo e ferendo gravemente il suo luogotenente Francesco Commisso. L’agguato, scattato in contrada Zammariti, nella "sua" Siderno, fu ordito all’esterno del suo territorio e segnò il cambiamento di equilibri. Il suo funerale – ricostruiscono le cronache – fu quello di un capo di Stato. Le foto dell’epoca ci raccontano che furono in migliaia ad invadere la città, con un lunghissimo corteo funebre. Gli esercizi commerciali chiusero in segno di lutto. I fiori e le delegazioni diplomatiche della ‘ndrangheta che parla urbi et orbi invasero il "regno" di Macrì, morto come un affiliato qualsiasi. E dopo la sua morte la ‘ndrangheta cambia volto. La strada del "rinnovamento" è spianata. Rimane solo l’ombra del giudice che era stato arbitro in terra del bene e del male. A segnare il passo di un cambiamento.
Il rapporto tra la celebrazione della morte dei boss e l’esercizio del potere è essenziale nel modus operandi delle cosche. Era il 7 novembre del 1976 quando a Gioiosa Jonica il clan degli Ursini decise che in segno di lutto quella mattina non si doveva tenere mercato. Andava vendicata la morte del boss Vincenzo Ursini, ucciso dagli uomini del Capitano Niglio il giorno precedente. Sin dall’alba i fedelissimi del capo circondarono il paese dissuadendo commercianti e venditori ambulanti dall’aprire bottega. Piazza Vittorio Veneto- dove ogni giorno si teneva il mercato- quella mattina rimase deserta. Le saracinesche degli esercizi commerciali abbassate, come in ogni lutto che si rispetti. Tutto il paese era chiamato a celebrare e condannare la morte del boss. Quella mattina, e nei mesi a venire, fu il coraggio di Rocco Gatto ad opporre al silenzio la forza della denuncia ed a consentire ai carabinieri di riportare l’ordine. Ma il segnale il clan lo aveva lanciato forte e chiaro. Le bocche, tranne quella di Rocco, rimasero cucite e vennero ritrattate le prime testimonianze. Quel lutto forzoso aveva colpito nel segno.
Negli stessi anni in cui Antonio Macrì dominava la Locride, Girolamo Piromalli spadroneggiava nella Piana di Gioia Tauro. Anche lui era un capo vecchio stampo, ma la sua visione strategica presupponeva alcune scelte che la ‘ndrangheta fino ad allora non aveva mai compiuto: l’alleanza con le istituzioni tramite la massoneria in vista dell’accaparramento degli appalti pubblici. La svolta, non indolore, fruttò alla malavita calabrese miliardi di lire di incasso in un territorio destinatario di ingenti finanziamenti statali a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Don Mommo, dunque, riuscì a scampare ai colpi del fuoco "amico" della prima guerra di ‘ndrangheta e morì di cirrosi epatica l’11 febbraio del 1979. Se è vero che quando si muore si muore soli, non è dato sapere cosa contenesse il suo testamento. Ma al suo funerale, celebrato a Gioia Tauro in un giorno di pioggia, sembra ci fossero 6.000 persone. Il suo feretro, nelle immagini di repertorio, scivola imponente, intarsiato d’argento e coperto da decine di fiori rossi portato a spalla dai fedelissimi. Il boss che da un letto dell’ospedale di Messina raccontava al giornalista Joe Marrazzo di non essere mafioso ma benvoluto dalla povera gente è accompagnato, fuori dalla chiesa di Sant’Ippolito, il duomo di Gioia Tauro, da uomini e donne di ogni estrazione sociale. Centinaia di corone di fiori sfilano lungo le strade tra le braccia di uomini e ragazzini che si fanno, con piglio orgoglioso, inquadrare dalle telecamere. Dettagli e cifre che fanno impressione. Che ci parlano di complicità diffuse, di responsabilità trasversali.
Ma gli anni passano ed i tempi cambiano. Damiano Vallelunga, il presunto boss del clan dei Viperari di Serra San Bruno, viene ucciso a Riace durante la festa dei Santi Cosma e Damiano il 27 settembre 2009. Per i suoi funerali niente cortei o corone di fiori né chiese matrici. Ad accompagnare le esequie, celebrate all’alba presso il cimitero del centro del Vibonese, sono stati gli sguardi vigili delle forze dell’ordine, gli odiati "sbirri". Il suo fu un funerale ritenuto rischioso per l’ordine pubblico ed il questore di Vibo Valentia ordinò di celebrarlo in forma "privata". Nessuno vi si oppose e nessuno fu più disposto ad occupare le strade per un boss. Perché oggi in Calabria ci sono anche preti che rifiutano le esequie solenni, tracciando con nettezza il confine tra il bene ed il male, e ci sono soprattutto cittadini che di certe morti hanno vergogna. Sempre più consapevoli della nudità dei re.
ottobre 28, 2013 Commenti disabilitati su Boss e funerali, questione di “potere”
L’altra estate calabrese
REGGIO CALABRIA – Fuori dalle tradizionali rotte turistiche e dentro ostelli, ville confiscate, campi di pomodoro e laboratori artigiani. Distante dai luoghi consueti di ritrovo vacanziero, e lungo i sentieri dell’Aspromonte, tra i vicoli e nelle piazze dei paesi dell’entroterra. E’ l’altra estate della Calabria. Quella che fa meno rumore e che, tra campi di volontariato, esperienze di turismo naturalistico e spiagge pizzo free, rovescia stereotipi e sorprende chi la sceglie. Valeria Guarniera ha raccolto, per Stopndrangheta.it, qualcuna delle storie di quest’estate alternativa, raccontando l’esperienza dei campi di volontariato sui beni confiscati, sempre più numerosi e partecipati, la bella storia di Misafumera (un’associazione di guide ambientali calabresi che ha scommesso sull’Aspromonte e ha vinto) e la spiaggia "libera" promossa a Lazzaro dallo chef e testimone di giustizia Filippo Cogliandro. Nel dossier anche il restauro del murales di Riace dedicato a Peppino Valarioti e il reportage di Romina Arena dedicato ai Sentieri della Memoria, la camminata in Aspromonte organizzata ogni 22 luglio da Libera Locride in memoria di Lollò Cartisano. Solo qualche fotografia di un album assai più ricco che come sempre potete (e vi invitiamo a farlo) contribuire a completare.
Vacanze in campo di Valeria Guarniera
"Ho scoperto una Calabria bellissima" di Valeria Guarniera
In Aspromonte, a camminare oltre gli stereotipi e le difficoltà di Valeria Guarniera
A Lazzaro dove la spiaggia è "libera" di Valeria Guarniera
Restaurato il murales di Riace dedicato a Valarioti di redazione
Chi cammina lascia il segno: Pietra Cappa e i sentieri della memoria di Romina Arena
agosto 17, 2013 Commenti disabilitati su L’altra estate calabrese
Vacanze in campo
C’è una Calabria che si muove e vibra di un fermento libero e creativo. Che balla al suono di una musica speciale e che sente – vivo – il rumore del cambiamento. E c’è un’estate, in Calabria, in cui il divertimento coincide con l’impegno ed il lavoro significa rinascita. Estate, in questa Calabria, significa riscoprire i luoghi, restituendo loro l’identità perduta e portando avanti una memoria che và tramandata. Non si può negare: c’è davvero una Calabria che si muove. E a scuoterla sono tante realtà che – con entusiasmo, coraggio e passione – testimoniano che scegliere da che parte stare non è poi così difficile. Campi di lavoro sui beni confiscati alle mafie, escursioni organizzate da associazioni e cooperative che mescolano natura, impegno antimafia e memoria. Spiagge "libere" e borghi solidali. Ragazzi e ragazze che costruiscono realtà nuove, insieme, in un cambio di prospettiva che li porta ad essere protagonisti e li spinge ad andare avanti.
I campi di volontariato – Cresce di anno in anno il numero dei partecipanti ai campi di volontariato in Calabria. Tra le esperienze più consolidate quella di "E!STATE LIBERI", i campi sui terreni confiscati alle mafie organizzati da Libera in collaborazione con l’Arci e con l’apporto delle tante realtà associative che credono e appoggiano un progetto il cui obiettivo principale è diffondere una cultura fondata sulla legalità e giustizia sociale che possa efficacemente contrapporsi alla cultura della violenza, del privilegio e del ricatto. Un messaggio concreto, che trova attuazione nel lavoro sui beni un tempo appartenuti alle cosche, luoghi simbolo del potere mafioso che adesso divengono liberi e produttivi. E un esempio di come sia realmente possibile ricostruire una realtà sociale ed economica fondata sulla legalità, con la comunità che si riappropria di ciò che le era stato tolto. La legge 109 sul riutilizzo dei beni confiscati alle organizzazioni criminali, in vigore dal 7 marzo 1996, ha segnato una svolta epocale nel contrasto alle mafie nel nostro Paese. Un grande successo per lo Stato, per la rete di Libera e per tutti i cittadini che avevano sostenuto con un milione di firme la petizione popolare a sostegno della proposta di legge. In tutti questi anni centinaia di ettari di terreni, ville, appartamenti e altri beni immobili si sono trasformati in cooperative sociali, sedi di associazioni, comunità di accoglienza , centri culturali. Proprio come è successo a Polistena, nella Piana di Gioia Tauro. Lì, nel 2004, è nata la cooperativa sociale "Valle del Marro" su un terreno confiscato alla ‘ndrangheta, a conclusione del progetto "Uso sociale dei beni confiscati nella provincia di Reggio Calabria" promosso da Libera e finanziato dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Un segnale concreto di rinascita territoriale e culturale. Ed è lì, tra quei campi sterminati e sotto un sole che picchia, che Libera ha iniziato l’avventura dei campi di lavoro sui beni confiscati. A raccontare quei primi passi don Pino Demasi, referente regionale di Libera e socio fondatore della cooperativa sociale "Valle del Marro – Libera Terra": «L’idea dei campi è stata la naturale conseguenza della legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati proprio per dare a quei beni un valore aggiunto, per farli diventare beni degli altri, di tutti». Un modo per raccontare questa terra, martoriata dalle sofferenze ma anche proiettata verso un cambiamento possibile. Un grido per dire che questa terra è "cosa nostra". Giovani che partono da tutta Italia e che, come ha sottolineato don Pino «attraverso questa esperienza condivisa uniscono l’Italia. Proprio in un momento così difficile per il nostro paese, diviso da lotte intestine, questi giovani danno una speranza di crescita». Un gemellaggio che và oltre i preconcetti alimentati dai luoghi comuni e che dà la possibilità ai ragazzi che arrivano qui di vedere e conoscere la realtà calabrese: «I ragazzi vengono dal nord con un’idea sbagliata e, terminata l’esperienza, vanno via portando con sé il bello che c’è in Calabria. Tornando a casa – dopo aver preso coscienza che il problema delle mafie, purtroppo, non riguarda solamente il Sud Italia – raccontano un territorio positivo e decidono di impegnarsi attivamente nelle loro città. Poi ritornano, più convinti di prima: le adesioni, negli ultimi anni, sono notevolmente aumentate e questo è il segno di una gioventù sana che vuole partecipare. Grazie ai campi, alla memoria (attraverso il ricordo delle vittime, le testimonianze e la formazione) e alla legge sui beni confiscati Libera ha cambiato – almeno in parte – il volto dell’Italia». Sono, dunque, sempre più numerosi i ragazzi – provenienti da tutte le parti d’Italia – che decidono di fare questa esperienza in cui si mescolano divertimento, entusiasmo e sudore (il lavoro agricolo e la sistemazione di un bene richiedono impegno). Ma anche capacità di ascolto e voglia di capire, perché – dopo la fatica e il riposo – anche la mente và nutrita: incontri di informazione/formazione sui temi della lotta alla mafia e la partecipazione a laboratori ed incontri di educazione alla legalità con riflessioni e testimonianze significative di resistenza alla mafia nei vari contesti territoriali, danno la spinta e le motivazioni giuste per andare avanti.
Luoghi di speranza – Non solo Polistena, però. Da sei anni Pentedattilo (Melito Porto Salvo) si anima con i Campi del Sole, organizzati dall’Arci in collaborazione con l’associazione Pro Pentedattilo, Libera Reggio Calabria e l’Agenzia dei Borghi Solidali. Tanti giovani che, resistenti alle alte temperature estive, fanno interventi di sistemazione di villa Placanica – bene confiscato alla ‘ndrangheta – e dei frutteti. A Condofuri, per il campo organizzato dall’Arci (Comitato Territoriale di Reggio Calabria) con la cooperativa Ichora, Libera, Borghi Solidali e la collaborazione dell’associazione Look Around You, i ragazzi lavorano e praticano la "cittadinanza attiva". A Caulonia, in ricordo di Angelo Frammartino, si parla di "pace e diritti". A Riace, paese simbolo dell’accoglienza dei migranti globali, per il secondo anno successivo l’Arci-Comitato Territoriale di Reggio Calabria, insieme a Spi-Cgil, Libera, Cooperativa I-Chora e Stopndrangheta.it, ha organizzato i suoi campi-laboratorio estivi. Occasioni uniche per incrociare esperienze di lavoro a fianco dei rifugiati con momenti di riflessione ed approfondimento. E, ancora, Cirò Marina (KR), Isola Capo Rizzuto, (90 ettari di terreni produttivi e due beni immobili da cui ripartire), Cutro (in collaborazione con il WWF) e Gioiosa Jonica, dove quest’anno il campo di Libera Locride, dedicato a Lollò Cartisano, ha permesso la riqualificazione, e la riappropriazione, di un bene intitolato a Vincenzo Grasso. Riappropriarsi, potrebbe essere questa la parola chiave: i campi sono la naturale prosecuzione della confisca e del riutilizzo a fini sociali. Costituiscono la riappropriazione della comunità attraverso l’impegno diretto e restituiscono identità e dignità a un luogo. E questi luoghi tornano a vivere: diventano il simbolo di una lotta sana in cui le armi sono gli attrezzi da lavoro e sono l’esempio di come – anche in territori difficili – a prevalere sia la parte onesta della società.
agosto 16, 2013 Commenti disabilitati su Vacanze in campo
“Ho scoperto una Calabria bellissima”
REGGIO CALABRIA – A spingerli può essere la curiosità verso un mondo di cui hanno sentito tanto parlare. Oppure la voglia di impegnarsi in maniera attiva e concreta per attuare un cambiamento. O, molto più semplicemente, il desiderio di fare un’esperienza nuova in una realtà diversa. Le motivazioni che conducono tanti giovani, da tutta Italia, a dedicare una parte delle loro vacanze all’impegno in Calabria possono essere svariate. Una cosa, però, è certa e li accomuna tutti: tornati a casa, stanchi e con il viso arrossato dal sole, a chi li aspetta diranno «questa esperienza mi ha cambiato la vita». E’ quello che ha fatto Costanza Tortù, ventunenne fiorentina che da quattro anni ormai trascorre una settimana a Pentedattilo, per i Campi del Sole. A spingerla la curiosità e la voglia di concretizzare un percorso che – nella sua testa e nelle sue azioni – stava prendendo forma: già impegnata, nella sua città, con iniziative a sostegno di associazioni antimafia e cooperative che lavorano nei terreni confiscati alle mafie, ha deciso, nel 2010, di conoscere da vicino questo mondo e di dare al suo impegno una marcia in più. «Entrare in contatto con una realtà profondamente diversa dalla mia – racconta – studiare da vicino caratteristiche e modi di agire della ‘ndrangheta e poter parlare con chi sul territorio la combatte ogni giorno è stato incredibilmente istruttivo. Esperienze come queste fanno crescere e maturare il desiderio di contribuire attivamente per sconfiggere le mafie». Quella di Costanza è la voce di una generazione di giovani che, nonostante spesso si dica il contrario, vuole partecipare in maniera attiva e che, a prescindere dalla provenienza geografica, dall’età e dalle attitudini personali, decide di spendersi per un territorio che ha bisogno di tornare a vivere. E lo fa divertendosi ma anche – e soprattutto – lavorando. Giornate intense che scorrono veloci e Costanza, come gli altri ragazzi, quelle giornate calabresi continua a portarle nel cuore. Nelle sue parole l’entusiasmo di chi sa che sta facendo qualcosa di importante: «La sveglia suona alle 7 per portare avanti il lavoro sui terreni confiscati. Che si tratti di raccogliere ortaggi, scartavetrare tavoli e sedie o estirpare ricino la gratificazione che si prova è altissima. E allora sia il caldo che la fatica passano in secondo piano. Dopo il lavoro si torna in ostello per il pranzo e per qualche ora di riposo. Nel tardo pomeriggio e dopo cena ci sono incontri con personalità di vario genere dell’antimafia calabrese: forze dell’ordine, giornalisti, magistrati, parenti di vittime o più semplicemente ragazzi che mettono a disposizione il loro tempo libero per diffondere in quartieri "difficili" la cultura della legalità. Gli spunti che si traggono da queste chiacchierate sono sempre tantissimi». C’è poi la conoscenza del territorio e la scoperta di luoghi meravigliosi. C’è l’aspetto umano, quello che porta a creare legami indissolubili. E c’è soprattutto la voglia di raccontare un mondo: «Tornerò in Calabria, tornerò a fare campi antimafia. E raccontando la mia esperienza ce la metterò tutta per far conoscere a quante più persone possibili la Calabria bella, quella degli splendidi paesaggi e di uomini e donne che non voltano la testa dall’altra parte e si ribellano»
agosto 15, 2013 Commenti disabilitati su “Ho scoperto una Calabria bellissima”
In Aspromonte, a camminare oltre stereotipi e difficoltà
Un turismo naturalistico, a minimo impatto ambientale e socioculturale, fatto di passeggiate e di riscoperta dei luoghi: è la scommessa dell’associazione calabrese Misafumera che dal 1999 propone trekking ed escursioni tra Calabria e Sicilia e, in particolare, dentro un Aspromonte ricco di sentieri da percorrere e di paesaggi da ammirare, al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni. Il reggino Diego Festa (nella foto accanto)- socio fondatore dell’associazione – della montagna è innamorato: la sua missione è raccontarla e fare uscire – oltre le apparenze – la vera anima del nostro territorio.
Convinto sostenitore della tutela ambientale, socio di numerose associazioni ambientaliste e di tutela dei diritti umani, sei operatore del Cai, guida ambientale escursionistica e guida ufficiale del Parco Nazionale d’Aspromonte. Questa passione – che ti ha indirizzato verso un preciso stile di vita e che è poi diventata un lavoro – com’è nata?
"Ho avuto sempre questa sensibilità e questa attenzione nei confronti di ciò che mi circondava. A 20 mi sono iscritto a Greenpeace e quella è stata la mia prima associazione. Facevamo varie attività di sensibilizzazione ma, col passare del tempo, mi rendevo conto che io la natura la volevo vivere davvero. Ho iniziato a camminare. Ricordo la mia prima escursione – gennaio 1995 – ed è stato amore a prima vista. La montagna mi è entrata dentro e non ci siamo più lasciati".
L’associazione Misafumera opera nel territorio del Parco Nazionale d’Aspromonte e nelle aree protette di Calabria e Sicilia. Passo dopo passo fate scoprire, camminando, i tesori di questa terra, attraverso un turismo naturalistico, a minimo impatto ambientale e socioculturale. Come nasce questo progetto?
"Quella per la montagna era una passione talmente forte che, col passare degli anni, ho provato a farla diventare una professione. Timidamente ho iniziato questo percorso: ci ho creduto – lasciando anche altri lavori che magari erano un po’ più sicuri – e mi sono lanciato. Dal 1999 portiamo avanti questo progetto che ci rende orgogliosi. Sono contento di averci creduto. Insieme a me ci sono altri soci altrettanto appassionati. Siamo tutte guide ambientali del Parco Nazionale d’Aspromonte".
"Camminare seguendo il proprio passo, osservare e ascoltare la natura nei suoi ritmi lenti e incessanti, viaggiare a piedi alla scoperta dei luoghi selvaggi e delle realtà dimenticate del Meridione d’Italia": questa è la vostra proposta. Quasi una missione, tesa a valorizzare l’enorme patrimonio che abbiamo. Quali sono le difficoltà?
"Le difficoltà appartengono soprattutto alla nostra provincia che, rispetto alle altre provincie della Calabria è un po’ meno organizzata. Anche chi fornisce i servizi – per esempio nella Sila e nel Pollino – ha una mentalità un po’ più formata per accogliere il turista e per proporre delle esperienze. Nel Reggino, invece, sia in montagna che in città, c’è una situazione abbastanza problematica di gestione del territorio ed è chiaro che il turismo ne risenta"
Chi sono i vostri interlocutori?
"Spesso ci contattano le associazioni. Siamo in contatto con tour operator italiani ed esteri. Abbiamo lavorato molto con i tedeschi e adesso abbiamo molte richieste dai francesi. L’età è medio-alta, anche se gli stranieri sono più giovani. Prima coprivamo più fasce di reddito: veniva il turista "borghese" ma anche l’operaio. Adesso per via della crisi la vacanza è quasi un lusso e di conseguenza parte e và in vacanza chi se lo può permettere"
Ci sono luoghi in Calabria che, prima di essere esplorati, vanno soprattutto raccontati. Sentieri da percorrere e montagne da scalare in territori difficili, che chiedono a gran voce un riscatto e che, memori della loro storia, chiedono di essere riscoperti. Esplorare, dunque, per conoscere la storia di un luogo. C’è interesse in questo senso?
"C’è ancora lo stereotipo di un certo tipo di Aspromonte, quello dei sequestri di persona e del santuario di Polsi come base dei summit di ‘ndrangheta. Ma c’è un Aspromonte alternativo, le cose sicuramente sono cambiate ed è maturata lentamente una sensibilità diversa. Però la realtà non si può negare o nascondere: è quella. La cosa positiva è che adesso è venuta a galla e non è più sconosciuta. Mi confronto con le persone e spiego loro quello che c’è, raccontando un territorio difficile. Gli faccio capire che qui, magari, c’è la base ma che i distaccamenti sono ovunque e non è più un problema legato solo al nostro territorio. Chi viene qua spesso è disinformato, distratto dai preconcetti e da una cronaca sempre negativa. Noi, nel nostro piccolo, ci sforziamo di trasmettere la positività del territorio, partendo sempre e comunque da una realtà che è dura da digerire ma purtroppo ancora presente"
C’è qualche luogo a cui sei particolarmente affezionato?
"Amo tutta la parte Jonica, che ha un affaccio molto suggestivo e il monte Misafumera, da cui abbiamo preso il nome, che è l’ultima montagna dell’Aspromonte. L’Aspromonte è un luogo bellissimo, con paesaggi differenziati in pochi chilometri e questo – per quanto riguarda il nostro territorio – è sicuramente un valore aggiunto"
Un territorio bellissimo, il nostro, ma forse – per molti – ancora sconosciuto.
"E’ sicuramente maturata una certa sensibilità e la gente ha più voglia, rispetto al passato, di sperimentare queste attività e di fare delle passeggiate. Purtroppo molti non conoscono il territorio in cui abitano, però – rispetto al passato – la situazione è sicuramente migliorata e l’escursionista non è più visto come un extra-terrestre"
agosto 15, 2013 Commenti disabilitati su In Aspromonte, a camminare oltre stereotipi e difficoltà