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Bruno Caccia, giudice tutto d’un pezzo
Fu ucciso la sera del 26 giugno 1983. A colpirlo la ‘ndrangheta. E’ Bruno Caccia, magistrato tutto d’un pezzo, procuratore della Repubblica di Torino. Fu un magistrato tradizionalista, capace di dimettersi dall’Anm solo perché aveva proclamato uno sciopero (di cui pure condivideva le ragioni), fu uomo “con cui non si poteva parlare” (come dissero gli ‘ndranghetisti), personaggio capace di mettere il figlio di un ministro della giustizia sotto inchiesta. Una persona perbene e per questo andava uccisa. La sera del 26 giugno 1983 Bruno Caccia, di ritorno da fuori città, senza la sua scorta decise di portare a passeggio il suocane sotto casa. Una macchina gli si affiancò. A bordo due uomini che gli spararono contro 14 colpi di pistola. Dissero che a ucciderlo erano state le Brigate rosse, poi i neofascisti dei Nar. Fu la ‘ndrangheta: una risposta al fatto che il giudice nato a Cuneo s’era messo in testa di impedire alle cosche calabresi di spadroneggiare in Piemonte (dove da alcuni anni ormai a ritmi sempre più veloci stava entrando nei gangli del potere). I giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano hanno scritto nella sentenza di condanna dei mandanti del suo omicidio: “Egli poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza, la disponibilità o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati”. Per il suo omicidio è stato condannato all’ergastolo Domenico Belfiore, considerato uno dei capi della ‘ndrangheta piemontese.
giugno 26, 2009 Commenti disabilitati su Bruno Caccia, giudice tutto d’un pezzo
Congiusta, il racconto di Mario
C’è un frammento di mondo, la Calabria, dove la bellezza del territorio, il clima ed il mare con le sue spiagge sembrano voler distogliere l’attenzione da quella parte dolente e disumana, quella che sa dove colpire, quella che logora e ferisce la gente perbene, quella fetta chiamata ‘ndrangheta. C’è il sole a Siderno, è maggio. E’ l’anno 2009.
Mario Congiusta ci porta, con il suo racconto, dentro l’indelebile e feroce ricordo di un assassinio, quello del figlio, commerciante di telefonia, avvenuto la sera del 24 maggio 2005. E’ colpevole Gianluca, lo è perché vive in quel pezzo di mondo dove troppo spesso s’incontrano "Cartelli" che impongono di girare in senso contrario rispetto alla legalità, se vuoi vivere tranquillamente. Gianluca però non cede il passo e continua ad andare verso il lato giusto, così la criminalità organizzata, con le sue leggi impure, condanna Gianluca, pena l’omicidio: per aver preso tra le mani la famosa lettera estorsiva, destinata ad Antonio Scarfò imprenditore e futuro suocero; ed aver incitato lo stesso a non pagare il pizzo. Tommaso Costa massimo esponente dell’omonima famiglia mafiosa, è a disagio, non deve arrivare notizia del tentativo di estorsione alle orecchie della cosca dei Commisso, un tempo nemica, o l’equilibrio che regge il quieto vivere tra le due famiglie mafiose di Siderno potrebbe rompersi. Il boss vuole Gianluca morto, spiegano i giudici che hanno emesso la condanna di primo grado. Sono le ventitrè, Gianluca è alla guida della sua auto, è in Via Torrente Arena, porta con sé i soldi dell’incasso, è tranquillo, ascolta la radio, probabilmente non lo sa, ma c’è un killer che lo segue, parte un colpo di lupara diretto alla testa. Così muore Gianluca. Ora c’è una stele, un monumento per le vittime della mafia, in quella strada. A breve, un’altra statua riservata a Congiusta, verrà inaugurata a Cosenza.
Dentro la Fondazione, tra le foto di Gianluca, i messaggi contro la ‘ndrangheta scritti da alcuni ragazzi di Bari, e diversi articoli di giornale, c’è un padre, un uomo ancora in piedi che lotta, parla, scrive, denuncia, spiega cosa significa essere imprenditore in Calabria, a quali costrizioni, la ‘ndrangheta, chiede di piegarsi. "Non solo- dice Congiusta – Antonio Scarfò dovette assumere nella sua azienda due protetti dei Costa, questo non bastò alla mafia, ma avrebbe dovuto anche sborsare mille euro al mese". "Io stesso – aggiunge Mario – ho subito diverse minacce, basta ricordare quando un tizio entrando nel mio negozio mi chiese di regalargli un telefonino, io rifiutai, poco dopo subii una rapina".
Dopo il funerale di Gianluca, in seguito alla lunga lotta, oltre il processo, a Siderno restano solo pochi amici a difendere dall’isolamento la famiglia della vittima, perché nel territorio dei controsensi troppo spesso davanti alla strada della non omertà si sceglie di fare marcia indietro, ma c’è anche una Calabria che sceglie la giusta direzione, che vuole respirare aria pulita, quella che fa sentire la sua esistenza anche attraverso la realtà virtuale, quella che non ha paura di aderire con nome e cognome alla petizione promossa da Mario per ottenere "La certezza della Pena" e c’è anche chi il sito lo usa per condannare la violenza in ogni sua forma.
Il clan della ‘ndrangheta, dei Costa-Zucco-Curciarello diretto da Tommaso Costa, è stato condannato a settantasette anni per undici imputati che hanno scelto il rito abbreviato. Costa e Curciarello saranno, invece, giudicati con rito ordinario. Curciarello è imputato solo di associazione di stampo mafioso. Costa dovrà rispondere, oltre che di associazione di stampo mafioso, anche dell’omicidio di Gianluca, sia come mandante, che come esecutore.
giugno 12, 2009 Commenti disabilitati su Congiusta, il racconto di Mario
Gianluca Congiusta, un sacrificio che resta
Aveva sconfitto un male che sembrava incurabile. E’ stato ucciso dalla ‘ndrangheta. Gianluca Congiusta era nato a Siderno nella Locride il 19 dicembre del 1973. Una famiglia normale quella di papà Mario e mamma Donatella, gente onesta e perbene che da generazioni si occupa di commercio. Frequenta con ottimi risultati l’Istituto tecnico per il turismo. Durante l’ultimo anno delle scuole superiori viene colpito da una grave malattia: linfoma non hodking, un tumore. Aveva solo 17 anni. Combatte la sua battaglia e la vince. Le cure a Bologna durano un anno, poi Gianluca rientra a Siderno e recupera l’anno scolastico perso. Si diploma e fa uno stage a Roma presso un importante operatore turistico. Non conclude invece gli studi universitari (s’era iscritto in Economia e commercio) perché decide di dedicarsi al lavoro. Gestisce infatti alcuni negozi di telefonia a Siderno. Un mestiere difficile, quello del commerciante. Gianluca viene ucciso a Siderno il 24 maggio 2005. Dopo tre anni, il 7 marzo 2008, si è aperto in Corte d’Assise a Locri il processo contro la cosca Costa di Siderno, con la costituzione di parte civile, tra gli altri, della Regione Calabria, della Provincia di Reggio Calabria, dell’Associazione dei Comuni della Locride, di Confindustria Calabria. Per i giudici di primo grado il colpevole è Tommaso Costa.
La famiglia di Gianluca ha scelto di ribellarsi al dolore. Il sacrificio di Gianluca non è stato inutile. Prima il padre Mario poi la sorella Roberta sono diventati pungolo costante della società civile calabrese. Sul sito www.gianlucacongiusta.org sono contenute notizie sul processo e sui principali fatti di ‘ndrangheta della Locride. Soprattutto è presente l’elenco – sempre aggiornatissimo – dei morti ammazzati della Locride. A Gianluca Congiusta è dedicato il libro di Paola Bottero Ius Sanguinis.
maggio 24, 2005 Commenti disabilitati su Gianluca Congiusta, un sacrificio che resta
Massimiliano Carbone e la verità che non viene a galla
Una brutta storia, una storiaccia senza un colpevole. L’ennesima nella Locride. Massimiliano Carbone era un piccolo imprenditore. E’ stato ucciso a Locri, ad appena 30 anni, colpito a sangue freddo in un agguato nel cortile sotto casa la sera del 17 settembre 2004. Tornava da una partita di calcetto con gli amici, era insieme al fratello ed è morto una settimana dopo, il 24 settembre, all’ospedale di Locri. Da allora lo Stato non è riuscito a scovare nessun responsabile. Nonostante sua madre Liliana Esposito, maestra elementare, donna colta e raffinata, abbia aperto una battaglia senza sconti per conoscere la verità, per avere giustizia. L’hanno vista tutti incatenata al tribunale, donna-sandwich per le strade, col microfono in mano e la foto del figlio al collo in centinaia di incontri e dibattiti, in mezza Italia, circondata da solidarietà e rispetto. E’ stata anche aggredita brutalmente. Forse perché gira l’Italia a ripetere i nomi e i cognomi di quelli che lei considera gli assassini di suo figlio. Della storia di Massimiliano si sono occupati in molti, anche la trasmissione di Raitre Chi l’ha visto. E alla vicenda di Massimiliano Carbone è stata dedicata anche una tesi di specializzazione discussa presso presso la Facoltà di scienze forensi, criminologia, investigazione, security e intelligence dell’Università "La Sapienza" di Roma. Si intitola "Alla fine dell’Italia anche un bacio fa rumore", l’ha scritta la studentessa Maria Grazia Cantucci, il relatore è il professor Alessandro Ceci.
settembre 17, 2004 Commenti disabilitati su Massimiliano Carbone e la verità che non viene a galla
Omicidio viceparroco: dieci anni fa un caso in Calabria
CATANZARO – Poco meno di dieci anni fa, anche in Calabria, un sacerdote impegnato nel sociale venne ucciso dalla criminalità organizzata. Era don Giuseppe Giovinazzo, di 59 anni, parroco di Moschetta, una frazione del comune di Locri, e assistente spirituale del responsabile del santuario di Polsi, una località di montagna nel comune di San Luca, sull’Aspromonte. Don Giovinazzo fu ucciso il primo giugno del 1989 mentre, a bordo della sua automobile, una Fiat ”126”, stava rientrando a casa dopo aver trascorso il pomeriggio nel santuario. Due uomini lo attendevano sul ciglio della strada e dopo averlo ferito con alcuni colpi di fucile caricato a pallini, lo finirono sparandogli al volto un colpo di fucile caricato a pallettoni ed alcuni colpi di pistola calibro 9. Le indagini si indirizzarono subito verso la matrice mafiosa, non soltanto per le modalità dell’agguato, ma anche perché il parroco, alcuni mesi prima di essere ucciso, aveva incontrato Angela Casella, la madre del giovane Cesare che in quel periodo si trovava ancora nelle mani dei suoi sequestratori, nascosto in una prigione sull’Aspromonte. Una delle ipotesi prese in considerazione, fu quella di un omicidio ”preventivo”. La ‘ndrangheta, cioè, ipotizzarono gli inquirenti, aveva ucciso il parroco per evitare che potesse interferire in qualsiasi modo nel sequestro Casella. Le indagini, comunque, non portarono all’identificazione ne’ degli autori ne’ dei mandanti del delitto. Gli investigatori, inoltre, sembrarono non dare eccessivo peso ad un episodio accaduto il 31 ottobre 1985 e che vide protagonista don Giovinazzo. Quest’ultimo, in quella occasione, aveva celebrato le nozze dell’allora latitante presunto boss Giuseppe Cataldo, di Locri. Alcuni mesi dopo, intervistato da un quotidiano locale, il parroco aveva affermato di non leggere i giornali e di non essere tenuto né a sapere i carichi pendenti né a chiedere il cartellino penale a chi si sposa. Ed in effetti gli inquirenti esclusero che il prete potesse essere stato coinvolto in fatti di mafia. Anzi, dalle testimonianze raccolte, venne fuori la figura di un sacerdote benvoluto e stimato dalla popolazione e soprattutto dai numerosissimi pellegrini che ogni anno, nel periodo compreso tra agosto e settembre, si recano al Santuario di Polsi. Legata a Polsi, dove si trova la ”Madonna della montagna” (una statua raffigurante una Madonna con bambino risalte al ‘500), vi e’ una leggenda secondo la quale un bue dissottero’ con le corna una croce bizantina. Ma la storia piu’ recente parla invece dei ”conclave” che periodicamente, e comunque sempre in occasione dei festeggiamenti della Madonna, i vertici della ‘ndrangheta tenevano per l’elezione del ”capo dei capi”.
dicembre 26, 1998 Commenti disabilitati su Omicidio viceparroco: dieci anni fa un caso in Calabria
Luigi Ioculano, un omicidio preventivo
Luigi Ioculano, medico di Gioia Tauro e intellettuale a tutto tondo, è stato assassinato dalla ‘ndrangheta il 25 settembre del 1998. È un omicidio preventivo. Ioculano contestava ad alta voce il piano regolatore comunale e si batteva contro la costruzione del termovalorizzatore. Una morte per dare un segnale: nessuno può permettersi di dare il “cattivo esempio”. E così le ‘ndrine di Gioia Tauro hanno deciso di eliminarlo.
Tre colpi di pistola, di mattina, in pieno centro. Il killer suona il campanello dello studio. Il medico di famiglia Luigi Ioculano apre la porta, pensa si tratti di uno dei suoi tanti pazienti. Ma trova la morte. Per quell’omicidio c’è già una sentenza. Due condanne in primo grado, due ergastoli a Giuseppe Piromalli e Rocco Pasqualone.
settembre 25, 1998 Commenti disabilitati su Luigi Ioculano, un omicidio preventivo
Totò Speranza, ammazzato per 300mila lire
Morire per 300mila lire. Totò Speranza era un ragazzo come tanti altri, pieno di paradossi e di debolezze. Brillante e socievole. Fumava marijuana e non ha saldato il debito. Solo in Calabria si fanno i conti con la pistola. E così il 12 marzo del 1997 hanno ammazzato Totò, a 28 anni.
Un ragazzo cresciuto nella Locride, a Bovalino. In mezzo alle faide e ai sequestri, in un paese che non offriva e non offre nulla. Totò ha cercato la sua strada. A modo suo. Con un giubbotto di pelle, le borchie e la cresta è stato il primo punk della Locride. Isolato ma felice. A 17 anni, per gioco, ha preso in mano il basso, che non aveva mai suonato. E allora via all’avventura con il gruppo degli Invece, insieme agli amici di sempre, Salvatore Scoleri e Peppe De Luca. Suonavano una musica rivoluzionaria, il dialetto come mezzo di espressione. Nell’87.
C’era Totò Speranza quando hanno rapito Lollò Cartisano, nel ’93. Ed è stato uno dei protagonisti del movimento di protesta “Bovalino Libera”.
Ma a Bovalino è difficile trovare una strada. E allora via da emigrante, verso nuove avventure, Roma, l’estero, le andate e i ritorni. Gli errori e le ricadute. Perché Totò è passato anche nel tunnel della droga. Uscendo a testa alta. Pieno di umanità. Poi la voglia di riprovarci, a Bovalino. Ma qualcosa non ha funzionato.
Per l’omicidio di Totò è stato condannato a 17 anni Giancarlo Polifroni di Benestare, per anni latitante e coinvolto in un traffico internazionale di droga.
Ogni anno il gruppo degli Invece, che ha dedicato a Totò l’album “Ma comu si faci”, tiene un festival musicale a Bovalino. Totò è stato ricordato la scorsa estate durante la Lunga marcia della memoria. Stopndrangheta.it vuole ricordare Totò Speranza, vittima della ‘ndrangheta, con tutti i suoi errori e i suoi paradossi, la sua grande voglia di vivere. La sua grande umanità.
marzo 12, 1997 Commenti disabilitati su Totò Speranza, ammazzato per 300mila lire
Celestino Fava e Nino Moio, due omicidi senza colpevole
Celestino Fava (22 anni) e Nino Moio (27) sono stati uccisi la mattina del 29 novembre del 1996. Fuoco incrociato di lupare, in aperta campagna, a Palizzi. Celestino era uno studente universitario, aveva appena completato il servizio militare, mentre Nino lavorava nei campi e nei pascoli. Erano insieme, a raccogliere legna. Sono stati trucidati senza pietà.
In quei giorni la Locride reagì, con gli studenti a scioperare e a scendere in piazza. Poi il silenzio. Sulla morte dei due nulla si sa. Solo ipotesi: Celestino è stato di certo ucciso perché testimone oculare dell’agguato, che aveva Nino come bersaglio, probabilmente una vendetta trasversale.
novembre 29, 1996 Commenti disabilitati su Celestino Fava e Nino Moio, due omicidi senza colpevole
La storia di Peter il nigeriano
Anche l’africano Peter Iwule Onyedeke è una vittima della ‘ndrangheta. Nigeriano di 33 anni, studente di Architettura, è stato assassinato inspiegabilmente il 25 giugno 1995 a Reggio Calabria. Per arrotondare le misere entrate (dava una mano in un mobilificio della periferia), faceva il parcheggiatore abusivo. Quella notte stava nello spiazzo di fronte ad una discoteca del quartiere Gallico Marina. Chiedere dei soldi ad uno ‘ndranghetista è inopportuno, se poi a farlo è un africano si tratta di un’offesa. Piovono sei colpi di pistola calibro 45, tutti al torace, poi la fuga a bordo di un’auto rubata dei soliti ignoti che nessuno ha visto.
Peter era sposato e aveva due figli in Nigeria, che manteneva. A Reggio viveva col fratello, anche lui studente. La criminalità, Peter, l’ha conosciuta in Calabria. Lui viveva in tranquillità, frequentando la comunità nigeriana (in quegli anni erano molti gli universitari) e la gente di una città che sa essere anche accogliente. E solidale: in tanti reagirono, scesero in piazza contro la violenza mafiosa. Una protesta che per una volta ebbe il sostegno delle istituzioni, con un piccolo gesto: le spoglie di Peter tornarono alla sua famiglia grazie all’intervento del Comune.
giugno 25, 1995 Commenti disabilitati su La storia di Peter il nigeriano
Lollò Cartisano, rapito e mai più tornato
Lollò Cartisano a Bovalino lo conoscevano tutti. Faceva il fotografo, amava la montagna ed aveva un passato da calciatore. Una vita tranquilla e felice. Ma non senza spine. Aveva subito richieste di mazzetta negli anni 80, alle quali aveva risposto con una secca denuncia, facendo arrestare i suoi estorsori. Un episodio che non ebbe ripercussioni. Ma presto i tempi cambiarono e Bovalino cadde nel vortice dei sequestri. Diciassette, in pochissimi anni. Fu la manifestazione del potere delle cosche della Locride, calate sul paese a saccheggiarlo.
Lollò è il diciottesimo e ultimo sequestrato. Era la sera del 22 luglio 1993. Stava tornando a casa insieme alla moglie Mimma Brancatisano, nella sua villetta in riva al mare. Il cancelletto era stranamente chiuso, sceso dall’auto per aprirlo è stato aggredito e caricato su un’auto. La moglie sarà abbandonata lungo la strada che porta in Aspromonte, legata ad un albero.
I Cartisano non sono una famiglia ricca, tanto che il sequestro apparve immediatamente anomalo. Quasi una punizione a chi aveva osato dire di no. Iniziò un lungo calvario, le telefonate, le richieste di riscatto, gli appelli. Ma accadde anche che Bovalino finalmente si svegliò. Grazie a Deborah, la figlia di Lollò, i giovani del paese decisero di scendere in piazza, animando il movimento "Bovalino libera". L’obiettivo era quello di scuotere le coscienze, dentro e fuori la Calabria. Di far capire al mondo che Bovalino e la Calabria non erano terre di sequestratori, ma di sequestrati.
Per Lollò fu pagato un riscatto di 200 milioni di lire, messo insieme grazie all’aiuto degli amici. Ma il fotografo non torno mai più. Per lungo tempo i Cartisano hanno continuato a lanciare appelli, a donare il perdono e a invocare pietà. Solo dopo dieci anni è arrivata la verità. Uno dei carcerieri ha spedito una lettera nella quale ha chiesto perdono e ha rivelato il luogo dove Lollò è stato seppellito: ai piedi di Pietra Cappa, il mistico monolite in Aspromonte, nelle alture che sovrastano San Luca. La morte di Lollò non è stata premeditata: un colpo alla testa, per tramortirlo e fiaccarlo, un colpo troppo forte.
Carmelo Modafferi, i figli Santo e Leo Pasquale e Santo Glicora (genero di Modafferi), tutti di Africo Nuovo, sono stati condannati perché ritenuti responsabili del sequestro del fotografo.
Dal 2003, Pietra Cappa è meta di un pellegrinaggio, una lunga camminata fino al sepolcro di Lollò. Lì la famiglia lo ricorda con una cerimonia. Con coraggio e grande forza i Cartisano hanno scelto la via del perdono. Nella casa di Lollò ogni estate campeggiano i bambini della Locride, mentre Deborah Cartisano anima da anni Libera Memoria, il ramo dell’associazione Libera che riunisce tutti i familiari delle vittime delle mafie.
luglio 22, 1993 Commenti disabilitati su Lollò Cartisano, rapito e mai più tornato